Daniel Johnston Tag Archive

Dieci canzoni per convincervi a guardare Reservation Dogs

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Dieci brani che rappresentano altrettanti validi motivi per scoprire l’Oklahoma indiano e rurale attraverso una storia profonda e delicata.
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Dal piccolo al grande sé nel nuovo album “Flare Up” – Intervista a Adult Matters

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Futura 1993 ha fatto quattro chiacchiere con Luigi Bussotti dopo l’uscita del disco.
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The Lanterns – Pointless & the Moon Is Cracking

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Lo-Fi folk al servizio della più profonda tristezza.
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One Boy Band – 33 Giri di Boa

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Inutili (Music for Addicts) || Intervista

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In occasione dell’uscita del loro nuovo album, Elves, Red Sprites, Blue Jets, ho incontrato Danilo, voce e chitarra della sorprendente band abruzzese Inutili.

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Il Re Tarantola – Il Nostro Tabacco Sa d’Amore

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Ho ascoltato un paio di volte questo nuovo lavoro de Il Re Tarantola senza Emma Filtrino, con la quale aveva realizzato le prime cose, e subito mi sono immaginato un personaggio simpatico e un po’ svampito, una specie di amicone che a trent’anni non sa che diavolo fare nella vita oltre ad essere felice e fregarsene. Poi ho udito ancora e mi sono cascate le braccia, ritrovandomi di nuovo tra le orecchie uno di quei grossolani gruppi indie italiani madrelingua; di quelli che non si capisce bene cosa dicano e sputano frasi a effetto di quelle che piacciono a un pubblico sempre meno attento alla sostanza e sempre più all’apparenza. Poi ho origliato ancora, ho capito che Il Nostro Tabacco Sa d’Amore (che richiama il precedente del 2011 Il Nostro Amore Sa di Tabacco) stava diventando una specie di droga per me e ho deciso che dovevo capire meglio questo stranissimo cantautore bresciano.

Il suo mix di Lo-Fi e Punk/Grunge attitude mette insieme con naturalezza i Nirvana e Daniel Johnston ma il cocktail che ne viene fuori è talmente sconclusionato e strampalato da avere un sapore del tutto nuovo. Come dice lo stesso Re in un brano, copia tanto male che sembra originale e le parole rendono perfettamente l’idea, alimentando anche il dubbio lecito se tutto sia ricercato con intelligenza o frutto di eccessi di spontaneità. Il Re Tarantola non suona semplicemente Lo-Fi ma ha la bassa fedeltà che scorre come un virus nelle vene; si registra i dischi in casa (anche se registrazione e mixing di questo sono stati fatti dallo stesso Manuel Bonzi al Castello di Gera studio di Breno), dischi che scrive per conto suo e fa lo stesso per video e quant’altro. Inseguendo una nuova tradizione indie italiota, alla bassa fedeltà aggiunge uno stile vocale che chiamare canto è un eufemismo, aggiunge qualche parola che richiami l’attualità mediatica, si atteggia a fiero perdente, gioca con le parole, con ironia e divertimento eppure suona più sincero di ogni Officina della Camomilla o Dente che possiate aver ascoltato negli ultimi tempi.

Il Re Tarantola è divertente senza doversi necessariamente atteggiare a profondo conoscitore della vita e senza doversi mostrare come un nuovo poeta maledetto per poveri senza cultura. È sincero e inadeguato, realmente imperfetto tanto che in certi momenti pare quasi di ascoltare dei perfetti incompetenti, gente che con la musica c’entra poco, anche se le melodie e le canzoni e i ritornelli e tutto quanto sono di un’amenità unica. Cosa c’è di eccezionale nella musica de Il Re Tarantola non è facile da dirsi. Di sicuro non bastano i testi evocativi, malinconici, spesso sbagliati anche nella forma (eppisodi al posto di episodi non si può sentire) e non è troppo originale la formula Folk/Lo-Fi che unisce chitarrine, tastiere e rullanti eppure ha un che di difficilmente riscontrabile in ogni altra nuova proposta. Un suono talmente genuino che riesce a trasformarsi in pura piacevolezza, la stessa avvenenza che riesci a vedere quando senti un bimbo incespicare nelle sue prime parole. Nirvana abbiamo detto e tanto Daniel Johnston e poi Folk e chitarre taglienti e fastidiose come in un certo Psych Garage Rock anni Sessanta tutto in uno stile semplice e assolutamente inoffensivo, totalmente depurato da ogni possibile violenza o aggressività sonica. Ascoltatelo per bene, è molto più di uno scarso cantante o pessimo musicista che non sa scrivere testi impegnati, immaginifici e cool. Molto più che un tizio che canta e suona male sparando cazzate che mettono allegria. Potrebbe anche essere una nuova via per l’Indie italiano, una strada da scoprire facendo retromarcia e prendendo coscienza dei propri limiti, con naturalezza, scoprendosi meno di quello che noi stessi vogliamo credere.

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Nana Bang! – Space Is a Cake

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Non è passato molto da quando ho ascoltato quella compilation che si prefissava di mettere insieme il meglio della scena emergente della provincia bresciana e ricordo quanto mi fossi accanito (forse il termine è più duro della realtà) sulla poca originalità e voglia di sperimentare delle band in ascesa racchiuse in quel Brescia C’è ma che poi sono lo specchio di una quotidianità più vasta. Eppure, ora che rammento più adeguatamente, a Brescia c’è anche qualcuno che non è solo semplicemente bravo, ma ha il coraggio di andare oltre le barriere. Ad esempio, a Brescia ci sono i Nana Bang!, duo composto da Andrea Fusari (mente, voce e chitarra del gruppo) e Beppe Mondini (percussioni e synth) che già avevo avuto modo di incrociare in passato per il bell’omonimo dello scorso anno. Dismessi i panni da seguaci del verbo di Daniel Johnston, i due, sempre conservando inalterata l’idea di Paisley Underground, riducono al minimo le similitudini con Velvet Underground (“Millionaire”) ma anche The Dodos o Johnny Cash, scegliendo di dare un taglio “sciamanico” al loro sound e quindi gonfiandolo di una palesata psichedelia cosmica.

Restano gli ingredienti Folk (“Quarantined”) e le registrazioni, pressoché in presa diretta, rendono ancora con forza l’idea d’immediatezza e di voluta bassa fedeltà che li aveva personalizzati in precedenza ma ora, l’asse portante sembra spostarsi su lidi meno concreti. In quest’ottica, pare chiara la scelta di impiantare in copertina due sciamani Sami (religione politeista e basata sulle forze della natura) con tamburo magico, ripresi da un’incisione del 1767 con la sola variante di un’apertura spazio-temporale sulle pelli, al posto di simboli runici che sono ricalcati nel nome stesso della band. Sul Cd è invece stampata una solarizzazione psichedelica che altro non è che la figurazione della luna (archivio NASA), effigiante il suo lato oscuro, con i diversi colori a rappresentare le altezze. Dunque, al lato prettamente psichedelico è posto di fianco e ben saldo un concetto cosmico di sperimentazione, che richiama alla mente certe avanguardie anni 60 e 70. A tutto questo si unisce un uso della ritmica più tribale e ossessiva, in contrapposizione alla vocalità armoniosa, quasi a evocare una danza interstellare.

Ancora buonissime idee, dunque, per la formazione lombarda eppure convince in minor grado questo Ep rispetto all’antecedente album. I brani hanno meno carattere e suonano più confusi. Il sound è troppo scheletrico anche se solido e, nonostante la scelta apprezzabile di non seguire la canonica forma canzone, probabilmente qualcosa in più ce lo si poteva aspettare. Presumibilmente quel qualcosa in più andrà a costituire l’album in fase di realizzazione, composto dai restanti pezzi di quei sedici registrati nella session da cui nasce questo Space Is a Cake (non è un caso neanche la vicinanza con Space Is the Place di Sun Ra). Per ora i Nana Bang! fanno un passo indietro ma hanno tutto per far sì che quel passo diventi solo una rincorsa.

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Midas Fall – Fluorescent Lights

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Non sono proprio tra i più accaniti ammiratori dell’arte canora pura. Certo, non resto impassibile all’ascolto di esecutori capaci e incantevoli e ammetto che taluni timbri mi hanno fanno innamorare in un passato remoto ma anche, con meno enfasi, negli ultimi mesi. Il mio approccio alla musica non eleva la voce rispetto agli altri interpreti o meglio valuta in base al peso che la stessa ha all’interno delle canzoni e mi rende capace di apprezzare non solo e necessariamente tecnica e timbrica ma anche intensità emotiva, assonanza con il brano, rispetto degli obiettivi sostanziali ed emozionali. È questo modo di ascoltare che mi permette di seguire voci tanto distanti con la stessa gioia, con lo stesso entusiasmo, consapevole delle differenze di peso che le qualità canore dei diversi artisti possono avere nelle opere.

È per questo che riesco a sognare ascoltando Tim Buckley e piangere sotto le note sbilenche di Daniel Johnston; ed è per questo che non resto affascinato dai tre pezzi che compongono l’Ep Fluorescent Lights dei Midas Fall, che segue il secondo album Wilderness. Un lavoro che si presenta come Alt Post Progressive ma, nella realtà, si riduce a un esercizio di stile per i Midas Fall tutti e per la vocalist Elizabeth Heaton soprattutto. La musica non mostra alcuna variante rispetto alla proposta passata della band britannica, con qualche chitarra velatamente sferzante che si staglia su una sezione ritmica martellante e cenni di piano enfatici e il tutto si mette al servizio della voce della Heaton la quale certo non mancherà di trovare l’apprezzamento degli appassionati ma non entusiasma me per l’eccessiva banalità timbrica e una linearità e un’omologazione che non nobilitano le sue strofe rispetto a una qualsiasi interprete Pop, anche di casa nostra. Un Ep Rock come potrebbe esserlo quello di una cantante Pop italiana come Elisa, che si gioca il suo all in puntando quasi esclusivamente sulla voce ma torna a casa con le tasche vuote e qualche gadget di consolazione.

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Reveille – Broken Machines

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Una vocalità talmente fastidiosa che definirla unicamente brutta non rende minimamente idea di quello che intendo. Può qualificarsi tremenda la voce di Daniel Johnston o di Calvin Johnson (Beat Happening)?Certo che può, eppure non mi sognerei mai di dirli insopportabili anzi, sono due artisti che ammetto di adorare. Proprio per questo dovreste origliare anche solo la prima traccia, “Modern Pain”, per afferrare che intendo. Non è certo un caso il fatto che abbia citato la band Lo-Fi di Olympia perché quella che François Virot (vocals, guitar), Lisa Duroux (drums, vocals) e Guillaume Ballandras (bass) mettono sul piatto suona molto più che semplice ammirazione, omaggio, ispirazione o influenza. Qui siamo sul piano di una clonazione mal riuscita, malaccorto tentativo di teletrasportare nel tempo e nello spazio, neanche si trattasse dell’esperimento del dottor K., quel sound sporco targato Beat Happening. Anche quando François Virot (autore anche di alcune opere soliste e a nome Clara Clara) lascia le redini del canto alla più gradevole voce di Lisa Duroux (“Long Distance Runner”) sembra di assistere agli stessi avvicendamenti voce maschile/voce femminile dei loro padri artistici e la francese (la band Reveille è di Lione) Lisa quasi finisce per scimmiottare la deliziosa Heather Lewis.

Dentro questo Broken Machines recuperiamo tuttavia anche un’infinità di rimandi al Rock alternativo anni novanta (i Beat Happening partirono dai primi anni Ottanta prima di giungere al decennio in questione) e solo le suddette esorbitanti similitudini impediscono di rilevare questi altri pseudo atti di ossequio a un’epoca ormai passata. Messe da parte la voce irritante e intollerabile e le scopiazzature palesi potremmo cercare sollievo nelle melodie ma anche qui non ho idea di come poter salvare il trio transalpino. Anche quando le armonie soniche sembrano prendere una strada piacevole e riesco a non pensare allo stile canoro di Virot, pur essendo io consapevole amante di certe contorte, sinistre, deformi asimmetrie, non posso che piangere ascoltando come, in questo Broken Machines tutto sia stato fatto nel modo sbagliato. Apprezzo chi riesce, come i già citati Daniel Johnston o Calvin Johnson, ma anche a modo loro Guided by Voices o The Microphones, a fare della disarmonia un’arte ma non penso che chiunque giochi a proporre suoni sgradevoli possa essere considerato un buon artista. Alla fine, l’unica cosa che riesco a difendere è il coraggio di aver scelto una delle band più anticommerciali che ci sia nel mondo del Rock alternativo come punto di partenza ma sarebbe il caso di muoversi da quel punto.

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Powerdove – Do You Burn?

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Veramente un disco complicatissimo questo Do You Burn? dei Powerdove, in altre parole Annie Lewandowski (voce e chitarra), Jason Hoopes (basso) e Alex Vittum (percussioni). Nati come depersonificazione artistica della vocalist, la formazione germogliata in California diventa un trio solo in seguito alle prove soliste del talento del Minnesota e, a pochi mesi dalla trasformazione (nel 2009), pubblica il primo full lenght intitolato Be Mine. A quattro anni di distanza la potenza creativa di Annie Lewandowski evolve fino al sound di Do You Burn? che si rafforza della presenza di Thomas Bonvalet (armonica, banjo, feet and hand clappin, concertina, ecc…) e di John Dieterich, attuale chitarrista della storica band Indie/Pop Noise di San Francisco Deerhoof e qui in veste anche di bassista. Oltre a queste partecipazioni eccellenti, l’album è pieno di altri ospiti che rafforzano il peso artistico di Do You Burn?. Si va dalla presenza in fase di registrazione di Ben Piekut, saggista, musicologo e insegnante per la Columbia University, fino alla palese influenza di Shelley Hirsch, tra le più importanti esecutrici vocali della moderna Big Apple, citata oltretutto, per non tenere la sua influenza troppo nascosta, all’interno del libretto, con la frase “ho voluto essere dentro la musica…dove sono i ragazzi.”

Un lavoro complesso dunque, eppure non eccessivamente ostico se non per i meri fruitori del mainstream. La classica forma canzone non è proposta in maniera lineare tuttavia, specie nella parte vocale; si possono percorrere parabole melodiche precise, eleganti, raffinate e ben tracciate. Le parti più sperimentali sono limitate a rumoristiche intromissioni soniche di strumentazione inusuale (“Fellow”, “Under Awnings”, “California”, “Wondering Jew”) o a intermezzi psichedelici e spiazzanti (“Aldeer Tree I“).  Non mancano brani più classici, nei quali la voce si manifesta in tutta la sua bellezza e, sia la sezione ritmica sia le chitarre, creano atmosfere delicatamente gioiose e vibranti di vita (“Love Walked In”) anche nel loro essere pseudo cacofoniche alla maniera di Daniel Johnston o felici come la malinconia di un ricordo (“California”, Flapping Wings”, “Out Of The Water”). Non pochi i brani gravosi, nel senso emotivo del termine, quando la voce Annie Lewandowski, diventa la triste protagonista sul background di note minimali, scomposte come schegge impazzite e piangenti (“Red Can Of Paint”, “All Along The Eaves”, “Out Of The Rain”, “Wondering Jew”). Tutto il disco, inoltre, tiene sospesa un’aura magnetica che riporta la mente a una grande protagonista dell’avanguardia rock degli anni d’oro di New York City. Ascoltando la title track “Do You Burn?” non si può non rievocare la voce e l’impostazione cupa, dark, magicamente inquietante di Nico, leggendaria componente dei Velvet Underground, che qui appare nella nostra memoria più per i suoi lavori solisti come Desertshore.

Un’opera che dunque lega in maniera netta melodie e timbriche aggraziate, con atmosfere fosche e deliri Lo-fi/Glitch riuscendo a proporsi come qualcosa di multiforme senza creare alcun muro con ogni tipo di ascoltatore che voglia cimentarsi con Do You Burn?. La stessa durata dei pezzi (considerate che le tredici tracce sono divise in trentuno minuti) è evidentemente un elemento teso a non distogliere l’attenzione dell’ascoltatore e a non generare timore o sconforto. Do You Burn? è un disco che sa emozionare ma ha bisogno di uno spirito aperto che sappia accogliere il suo splendore per non restare solo un disco tra i tanti.

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Daniel Johnston torna in Italia.

Written by Senza categoria

Daniel Johnston torna in Italia per un’unicadata, mercoledì 29 Maggio nella location dell’Angelo Mai occupato a Roma.

DANIEL JOHNSTON (us)

Mercoledì 29 Maggio
Roma, Angelo Mai Altrove Occupato
viale delle Terme di Caracalla, 55/A – Roma / Inizio concerti ore 22.00
Info, orari, e biglietti: www.GrindingHalt.it / www.angelomai.org

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