Cramps Tag Archive

Bambara – Stray

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Il nuovo album della band di Brooklyn ci mostra il fracasso dell’oscurità più inquietante.
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The Somnambulist – Quantum Porn

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Superhorrorfuck – Death Becomes Us

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Superhorrorfuck: un nome che già lascia intendere per esteso l’obiettivo di questo quintetto veronese (rimaneggiato per 3/5 dalla loro line-up originale) che dal 2005 “terrorizza” mezz’Italia con le sue esibizioni sanguigne, irriverenti, fatte apposta per quella fetta di pubblico ancora affascinata dalla teatralità grandguignolesca tipica del re del trash Alice Cooper. Quel che terrorizza di più, in verità, è proprio il loro concept che racchiude quel che di più pacchiano, forzato e grossolano gli anni Ottanta ci hanno offerto. I riferimenti musicali ed estetici dei Superhorrorfuck sono più chiari dell’eccentrico make-up del loro frontman Dr Freak, una sorta di Dee Snider incrociato con un Marilyn Manson un po’ troppo acchittato e dal cantato sguaiato; per completare quest’immagine effetto photoshop, metteteci pure una punta del più aggressivo Axl Rose, se volete. Tutta la scena Street Metal e Glam Metal anni Ottanta (Motley Crue, Twisted Sister, Guns N’ Roses) viene rimescolata all’Horror Punk caro a band inarrivabili come Cramps e Misfits, il tutto senza brillare né per inventiva né per originalità, scadendo in un’avvilente banalità.

Musicalmente la proposta dei Superhorrorfuck non si discosta affatto dai suoi punti di riferimento storici sopra citati: pezzi tirati, riff ed assoloni Hard Rock, coretti e refrain melodici presi dai Bon Jovi più struggenti, ma tutto ciò avviene senza convincere, senza coinvolgere. Già dalla prima traccia “Dead World I Live In”, s’intuisce lo sterile tentativo di riesumare dalle tombe zombie, cannibalismo e satanismo finendo per mettere sul piatto un minestrone kitsch che rende l’ascolto del brano insipido. “Voodoo Holiday” è un pezzo di puro Rock N’ Roll che, per quanto semplice e parodistico, incarna perfettamente il pensiero di questi aspiranti zombie nostrani: “Can you guess how it feels being a rockstar living-corpse? Zombie slayers stalking me to blow away my head, horny groupies huntin’me to blow me on my bed […] Stress is bad for living dead, i need a Voodo holiday!”. E a questo punto quasi rinuncio all’esplorazione dei testi per paura di ritrovarmi di fronte frasi fatte e logore. L’intro drammatico di “The Ballad of Layla Drake” sembra far presagire qualcosa di differente, le tastiere sataniche in sottofondo rendono il brano quasi interessante, ma l’effetto dura poco e si torna subito a danzare con i morti.

Gli episodi migliori del disco sono “Break Your Shit” dalla ritmica spedita e punkeggiante e “Horrorrchy Pt. III, The Lord”, un buon brano Heavy Metal ma questo non basta: Death Becomes Us non può essere salvato neppure da un rito Vudù. Forzatamente controcorrente, forzatamente sopra le righe in realtà non provocano, non stupiscono per presenza scenica, né colpiscono per la qualità della loro musica. Forse destinati a rimanere confinati nella loro nicchia ma probabilmente non desiderano neppure uscirne.

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Luca Mancino – Libera

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Il dubbio su Luca Mancino e il suo ultimo album Libera mi è venuto già alla lettura del comunicato stampa che lo accompagnava: “…un concentrato di semplice tradizione pop-rock italiana, che non si risparmia di percorrere strade giù [sic] battute […]Ecco l’esordio di Luca Mancino, cantautore molisano che fa il suo ingresso nel mercato discografico con un lavoro che ha tanto da dire, con la semplicità e l’ingenuità di chi non ha la presunzione di inventarsi e di voler stupire”.

Al che mi chiedo: è davvero presunzione, voler inventare, o inventarsi (?), o voler stupire? Non è ciò che ha spinto la musica, anno dopo anno, disco dopo disco, sogno dopo sogno? Sono troppo idealista, forse, e dovrei leggere questo disco per quello che è: un prodotto commerciale (nel senso proprio della parola: destinato alla vendita). Ma perdonatemi, ho una certa impostazione mentale che, purtroppo, non me lo permette. Di certo non è l’unica possibile, e forse non è neanche quella giusta, ma è la mia, e sono condannato ad utilizzarla ogni qualvolta mi capiti di dover dare una sbirciata al mondo.

E quindi: Libera è un disco prodotto egregiamente dal certamente capace Domenico Pulsinelli, e si snoda in nove canzoni di un Pop-Rock italiano dei più triti mai sentiti. Fantasmi vari infestano le tracce di questo disco, soprattutto nel timbro e nell’uso della voce (Ligabue, Negrita, Enrico Ruggeri). Poco, pochissimo, riesce ad aggrapparsi e a farsi ricordare, in particolar modo nei testi, che non brillano certo per originalità.

In sostanza, e senza perderci troppo tempo: un’operazione del genere ha senso se è il mezzo per dare spazio ad un performer eccelso, istrionico, eccentrico, che si appoggia sul già sentito per stracciare sul loro campo altre realtà dello stesso tipo, passate e non, che hanno già dimostrato di saper dare qualcosa. Purtroppo non mi sembra che Luca Mancino abbia queste qualità: se avesse cercato di crearsi un suo spazio sarebbe di certo risultato più interessante. Ma, a quanto pare, non ha la presunzione di inventarsi, e quindi rimane la copia sbiadita di altri cento identici prodotti.

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Mom Blaster – We Can do it!

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Sembrava di trovarsi di fronte all’ennesima copia dei Cramps dalle prime note del disco ed invece, appena trenta secondi e le note portano verso Bob Marley e Peter Tosh, anche se con una sensuale voce femminile,  per poi tramutarsi negli emuli degli Skunk Anansie e viene da pensare che sia incredibile. L’ascoltatore viene quindi spiazzato tre volte nel giro di due minuti (troppa carne al fuoco forse) e lo è ancora di più quando inizia la seconda canzone “From The Beginning” che inizia con riff simili agli Heroes Del Silencio per poi tornare al Reggae.

“Saturdaycomes” ci prova a rimettere le cose in chiaro fallendo miseramente a causa di un’armonica che è l’esatto contrario di come sta il cacio sui maccheroni. Se l’idea è quindi quella di creare una sorta di Crossover all’italiana c’è qualcosa che non va in quanto i generi e le idee proposti sono davvero troppi (a momenti manca solo un assolo Jazz e un orchestra classica). Forse tre anni sono pochi per comporre un disco così complesso (il gruppo si è formato nel 2010 a Lanciano, in provincia di Chieti) che propone un mix tra Reggae, Rock e Pop, utilizzando nuove sonorità in una miscela esplosiva che spazia dal Punk anni ’70, passando dal Pop anni ’80, arrivando fino ad un Rock più contemporaneo. In “Everyone is an African” si perde pure la minima atmosfera creata in precedenza dalla voce femminile essendo cantata per lo più da uomini e si smarrisce anche la via che portava per lo più in Giamaica (il messaggio si rafforza poi ulteriormente con “A four letter words” e “I’m just a ghost”).

Chiudono il tutto “Vicious boy” e “Really gone” e per fortuna tutto è veramente andato verso la fine. Chiariamoci: presi singolarmente sono tutti degli ottimi musicisti, ma vi immaginate cosa uscirebbe formando un gruppo con Malika Ayane, Stewart Copeland, Flea e Steve Vai? (sono i primi nomi di ottimi musicisti che mi sono venuti in mente). Probabilmente ne uscirebbe fuori solo un calderone sonoro, ma forse basta cambiare la formula per migliorare il tutto. A volte è meglio confrontarsi solo con un genere (in questo caso il reggae) senza varcarne i confini.

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