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Il Fratello – Il Fratello

Written by Recensioni

Tutto nasce da un viaggio negli States da parte di Andrea Romano, già Albanopower ed una infinità di altri progetti sonanti, un viaggio in California per girare una clip e dove una amica, Livia Rao, gli mostra una foto – quella che è poi nella copertina – e da li parte questo progetto, questo disco “Il Fratello”, otto tracce di cantautorato fine, bisbigliato, tenero e malinconico, in cui intervengono una miriade di collaboratori tra i quali nomi conosciuti nell’ambiente come Carlo Barbagallo, Mauro Ermanno Giovanardi, Colapesce e Cesare Basile, un progetto corale nel quale l’ascolto si immerge e vive un’apnea melodica e atmosferica non indifferente, leggera come la piuma di Forrest Gump.

Disco in punta di piedi e con un prorompente “recupero” emozionale che trascina dolcemente tutto, l’ascolto, i battiti e le solvenze tenui di una lunga notte, e che gira e gira all’infinito tra anima e cuore fino a restituire all’orecchio le melanconie elaborate lasciate a macerare nella grazia; nell’eterna ciclicità della musica tutto va e tutto viene, poesia, pathos, fato ed essenziale si gestiscono le partiture della magnificenza con poche cose, frasi, dettagli, e questo lavoro impalpabile ne è la cartina tornasole, una magnetismo tremulo che si fa suono e poesia all’istante. Dicevamo un lavoro corale, condiviso da strumentisti che hanno fatto parte delle esperienze musicali di Romano, una scaletta che conquista per l’ispirazione docile di cui è composta, tra i tanti brani il dondolio agro di un pensiero interrogativo “Cos’ha Che Il Mio Mondo Non Ha” con Colapesce, il macramè acustico da brivido che abbellisce “E’ Vero Che Per Te” che vede un Cesare Basile da incanto alla chitarra o il “bailamme metafisico” di “Nei Ricordi Di Mio Padre (demo 2004)” traccia finale con Mauro Ermanno Giovanardi a tirarne fuori la voce.

Ma non solo piccoli brividi, pure stimolazioni anni sessanta, flebili come fili d’erba “Per Chi Ne Avrà” come ricordi stoppati tra le corde di una chitarra e pulviscoli di ieri, retroguardie fumè “Tra i Lacrimogeni” che,  con accordi aperti fanno di questo ascolto una esperienza estetica senza prezzo, divinamente senza prezzo.

Al diavolo le mode, qui c’è tutto l’occorrente per svanire nel bello senza tempo.

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Threelakes And The Flatland Eagles – Uncle T BOPS

Written by Novità

Un brevissimo ep (3 pezzi per poco più di 10 minuti di durata complessiva), registrato in una sola giornata e per giunta all’aperto. Questo per dirvi quanto sia curioso il progetto Threelakes And The Flatland Eagles, che ho avuto il piacere di scoprire dal vivo al Magnolia di Milano in apertura a La Notte Dei Lunghi Coltelli (ma questa è un’altra storia).

Threelakes è un cantautore mantovano, Luca Righi, mentre The Flatland Eagles sono i suoi compagni di viaggio (Andrea Sologni, Raffaele Marchetti e Lorenzo Cattalani). Ciò che traspare vedendoli dal vivo (ma potrei sbagliarmi) è che tutto l’impulso creativo da songwriter venga dal frontman, mentre il vestito shoegaze sia cucito dalla band. In realtà, credo che, come spesso accade, la verità sia più indefinita, e i contributi al progetto più corali. Questo non toglie che queste due anime siano lo scheletro ultimo del progetto: un cantautorato (ma anglosassone, non solo perché la lingua scelta è l’inglese, ma anche perché lo stile richiama più gli States che casa nostra) che si rispecchia nell’uso particolare della voce, strascicata, sussurrata, mai piena, e nella chitarra acustica, linea su cui tutto s’appoggia; e una band fatta di ritmiche semplici ma ossessive, un basso che mi piace definire liquido, e chitarre prima alte e arpeggiate, poi distanti e bagnate. Insomma, un buonissimo punto di partenza, che lascia curiosi quanto basta per aspettarne un seguito.

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Appino – Il Testamento

Written by Recensioni

Andrea  Appino, la “faccia” degli Zen Circus, da alle stampe questo Il Testimone, un progetto in solitaria che non significa per niente l’addio alla band sopracitata, solamente una valvola di sfogo personale, per mettere in musica i suoi tasti sensibili nonché i bruciori poetici della finezza, tracce (quattordici) che lavorano stili diversi e destini differenti, un bella mixture di rock, forza e amore, magari ricco di troppe parole, ma che non rubano lo spazio alla musica, piuttosto un’audace convivenza ed un primo approdo all’ipotesi di un “destabilizzante” disco perfetto. L’artista pisano, qui col violino di Rodrigo D’Erasmo, Franz Valente alla batteria, Giulio “Ragno” Favero al basso e Enzo Moretto alle chitarre, non lascia niente di intentato, scrive, corrobora e fabbrica un piccolo manifesto underground pregevole, argomenta – tra gli interstizi della tracklist – umori e rumori di pensiero, come lo stupendo omaggio alla memoria di Mario Monicelli inciso nella titletrack, traccia che già di per sé alza il quoziente “intellettivo” dell’intero registrato: la sua è un’arte dove realismo e vissuto artistico si fondono all’unisono, un corpo ed un’anima al servizio di una credibilità che viene spontanea e che elude vie o transiti “faciloni” pur di arrivare, una scrittura che addenta un filo logico e ne tesse poi una sequenza da raccontare ad alta o viva voce. Senza mezzi termini, l’album è una radiosa premessa, potrebbe diventare grandissimo come pure il suo autore ed è giusto che sia così, non è di tutti i giorni ascoltare un esponente di una famosa formazione rock che riesce a divincolarsi dal precostituito ed intraprendere – di testa sua – un percorso non riempiticcio, vizioso o da primadonna, è raro, e quando capitano c’è da tenerseli stretti stretti.

Un serafico Giovanni Lindo Ferretti che balugina in “Passaporto”, il delirio di “Specchio Dell’Anima”, la ballata folk di stampo Bubola “La Festa della Liberazione”, una parvenza di dolcezza amara “Godi (Adesso Che Puoi)” e la giugulare paonazza che fibrilla nell’hard-core addomesticato di  “Solo Gli Stronzi Muoiono”, e poi ancora amore, rabbia, depressione, gioia e sogni, e poi ancora un Appino che brilla e commuove in una splendida “opera prima”, in una tenera “prima volta”.

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Corrado Meraviglia – L’Occasione

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Nel suo piccolo potrebbe essere un maestro di seduzione, magari anche odiarlo o amarlo come un protetto dei chiaroscuro della vita, fatto sta che il cantautore ligure Corrado Meraviglia – con la carica dei suoi buoni sentimenti agri e di una quasi aliena soavità – arriva o meglio ritorna a ritagliarsi quella icona di appartenenza alla nuova trafila di cantautori che hanno le indubbie capacità di “incredibilizzare” limpidezze crude, e lui lo fa, anche con i convincimenti delle combinazioni buone.

L’Occasione è il secondo lavoro discografico, registrato tra Londra e Roma, finanziato a metà su Musicraiser ed uscito per La Fame Dischi, ed è un’espressione stilistica di pregio, sconnessa come una strada di campagna ed un rumore chiuso nell’intimità, undici tracce non esistenzialiste ma che guardano all’esistenza, alle proprie orme calpestate e alla quotidianità a volte piatta altre spigolosa, un disco avvolgente e persino organico nelle sue incursioni strane quanto vere; tra pop.e rock adeguato, con il piglio di un Rino Gaetano roco e naftaline Zampaglionesche “Scatole, l’artista Meraviglia torna a graffiare delicatamente ottime pagine di musica, senza sviare nulla che non si possa recepire, brani e arrangiamenti per un talento grezzo che preannuncia una lungimiranza tra il nuovo che avanza (musicalmente parlando), nonché per il momento dove possiamo anche aggiungere un rincuorante brillantino underground

Con la sua personalità rabbugliata e agro-dolce, il disco prende la forma di un disco diverso dagli altri, come una colonna sonora per tramonti estivi occupati a tirare somme e linee vitali su amori passati, trascurati, vissuti e sopportati, una lavorazione d’intimità solitaria che è quasi spleen casareccio, anche sfigato e se tendiamo l’orecchio sul gocciolìo a cadenza di una tastiera depressa  “Sam (Unmade in Hk)”, sulla spennata shoegazer di un animo all’ingù “Le Mie Manie”, nella ripresa con  boccate d’aria istintive, chiarificatrici e field  “Possibilità” o dietro il caracollare grattato e con l’anima confessionale della stupenda “ Folkpop”, il fascino color carta-paglia di tutto l’insieme colpisce lasciando segni e pensieri fitti come la cupezza immaginifica del basso che spacca in due il cuore in “Trasparente”.

Corrado Meraviglia, ancora una volta all’altezza della gran classe.
http://youtu.be/cow_ONZk2Lo

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Michele Maraglino – I Mediocri

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“Mediocre” è un termine che viene impiegato con un’accezione negativa quando non addirittura dispregiativa. In realtà significa semplicemente “di medio gusto”, “nel mezzo”. Il famoso mediano di Ligabue, insomma. E la storia è sempre la stessa allora. Fa così schifo una vita normale? Ma soprattutto al giorno d’oggi, in tempo di crisi, dove non c’è lavoro, non c’è modo di mettere benzina nella propria auto figuriamoci accendere un mutuo per comprare la casa o pagare un affitto, c’è da chiedersi cosa sia diventata la normalità. Sembra provare a rispondere Michele Maraglino, cantautore pugliese classe 1984 che si presenta sulla scena nostrana con un full-lenght album, I Mediocri, tutto cantato in italiano, sempre nervoso, sempre in tensione. “Verranno a Dirti Che C’è un Muro Sopra” chiarifica subito lo stile: una voce roca, una dizione senza inflessioni dialettali (veramente un pregio), un certo gusto per la rima che però non è scontata, si insinuano su un arrangiamento folk contrappuntato da riff elettrici. “Vita mediocre” é l’irritante rifacimento del monologo iniziale di Trainspotting. Non fraintendetemi. A me il film è piaciuto, pure il libro. E sono più incline all’avvampare subito che allo spegnersi lentamente, da brava discepola di Cobain. Però venitemi a dire che un lavoro e una casa sono una vita banale da disprezzare, oggi come oggi poi, e vi mando a cagare seduta stante. Vi assicuro che il pensiero per Maraglino, che canta “e intanto non ti accorgi dello schifo che vivi, un lavoro, una casa, una vita mediocre” è riassumibile con: figliodipapàconuncazzodafarechegiocaafarel’artistoidemaammazzati.

E in “Taranto” poi, non so più chi ho davanti: prima il pugliese si lamentava della vita quotidiana scontata e qui si lamenta invece di non avere neanche quelle poche certezze: una terra, una casa, il mare. Ah. Coerente. “Umida” abbandona per un attimo le tematiche sociali e presenta una donna matrigna, consapevole delle sua bellezza e del suo potere sull’uomo che, da canto suo, cerca di convincersi di poterla domare. L’amore è il protagonista di “Pensavo di Morire”, una ballata a tratti pulp dove i riff elettrici si muovo sul levare della chitarra acustica. Con “Lavorare Gratis” e “L’Aperitivo” si torna a commentare la nostra attualità, fatta, da un lato, di quelli che devono lavorare senza percepire stipendio con la scusa di farsi le ossa, fare esperienza, o semplicemente per non stare a casa a stampare curricula su curricula che non verranno presi in considerazione e, dall’altro, di quelli (spesso gli stessi in entrambe le categorie), che risanano le loro frustrazioni nello status symbol dell’happy hour preserale. Il quadro de I Mediocri, si conclude con “Tutto Come Prima”, ballata dal ritmo molto cadenzato, in cui l’indifferenza dell’individuo, che guarda la propria vita scorrere senza lasciare traccia, è la protagonista indiscussa.
Maraglino non le manda a dire, è diretto e spesso usa termini bassi e parolacce, accostati a prestiti verbali più colti e aulici. Il genere non si può innovare chissà quanto, ma il cantautore riesce a dare un’impronta personale. Certo, io mi sono legata al dito la faccenda del lavoro, della casa, della vita mediocre, probabilmente non avendo capito dove volesse andare a parare (cioè: se era ironico, non sono riuscita a coglierlo – o lui non è stato abbastanza in gamba da farlo emergere debitamente).
Lavoro senza dubbio pregevole, quindi, ma che non convince fino in fondo.

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Geddo – Non sono mai stato qui

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Geddo, cioè Davide Geddo, cantautore ligure d’alta scuola, propone questo Non sono mai stato qui: un disco ampio, strutturato, sfaccettato (14 brani per un’ora e qualcosa di musica) che è praticamente un’enciclopedia del migliore cantautorato italiano. C’è veramente tutto, qui dentro: c’è il Folk, il Manouche, il Blues, il Rock leggero all’italiana; ci sono fiati, duetti vocali, violini, slide guitars, pianoforti. Ci sono canzoni ironiche e briose (“Piccolina”, “Angela E Il Cinema”), episodi più pacati (“La Campionessa Mondiale Di Sollevamento Pesi”, “L’Astronave Di Provincia”, “Venezia”), brani intensi e appassionati (“Equilibrio”, “Non Sono Mai Stato Qui”). Si sentono, in controluce, anche tutti i Grandi: la tradizione ligure, De Gregori (la partenza di “Un Pugno In Un Muro” sembra quella di “300.000.000 Di Topi”).

Non sono mai stato qui è un disco suonato veramente bene, dove gli accompagnamenti non si appoggiano mai, anzi, cercando di seguire le evoluzioni stilistiche del padrone di casa senza mai strafare, senza mai lasciarsi al caso. Insomma, mi ripeto, suona decisamente bene: la produzione è ottima e il livello medio degli arrangiamenti è piuttosto alto.

Devo ammettere che stavo per partire prevenuto, su questo disco: il cantautorato contemporaneo che si rifà più massicciamente al passato rischia spesso di essere una copia sbiadita degli originali, o, peggio, una caricatura in cui toni e movenze tipiche del genere si intensificano fino a sfiorare il ridicolo. Geddo invece mi ha stupito: riesce tranquillamente ad evitare tutto ciò, soprattutto grazie al suo modo di scrivere, che è alternativamente poetico e ironico, serio e divertito, regalandoci liriche a volte intense, a volte simpatiche, ma sempre intelligenti, quasi mai sopra le righe.

Se proprio qualche critica al disco dev’essere fatta, punterei sul rischio della mancanza di originalità, che è ovvio in un tipo di musica che riprende molta della storia passata del genere. E forse sulla voce del Nostro, che è sì versatile, ma non ha il timbro magico di certi cantautori del passato. Ma questo è mero esercizio retorico: prestate un orecchio al caro Geddo e fatevi raccontare una storia o due. Male non vi può fare.

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Il Sindaco – S/t

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Il vocalist degli Annie Hall, Fabio Dondelli si fa eroe solitario, scende dal batuffolo del gruppo per dar forma alla sua scrittura personale, interpreta se stesso e si fa chiamare Il Sindaco, reinventando eleganza e fiocchi di intimità calda come pochi sanno fare, una nuova creatura cantautorale che danza, concupisce, ammalia e da un senso estetico a dieci canzoni sospese, da fine artigianato della musica.Un disco che non porta nome, anonimo come un marcato qualunque, un insieme di canzoni che fanno metafora di gruppo nella circonferenza di un pop d’autore  leggiadro, insaporito di fragranze e spezie quasi familiari, casalinghe, una scrittura che si accovaccia nell’orecchio e fa quasi le fusa  a chi l’ ascolta trasformata in suono e poesia; un piccolo manifesto di brani dalle tinte lunari, a tratti uggiose a tratti in tralice, tracce con l’andatura di chi pensa fitto e di chi guarda in alto per cercare risposte alle sue domande, e che tra ricordi e domani interrogativi vive il presente con la sagacia delicata della serenità possibile.Accompagnato da un quartetto di musicisti di prim’ordine della scena underground, Il Sindaco “stabilisce e delibera” le sue linee estatiche e languide che corrispondono ad un gusto e ad una modalità sonora piacevolissima, un qualcosa che si affiata e consolida in emozioni “da porta accanto”, senza spocchia, senza volontà di spaccare, un sincero pathos raccounteur  quasi disarmante che gira nell’aria al pari di una osservazione disincantata; leggo “canzoni autentiche scritte per la figlia che nasce” e tutto allora è ancor più bello, il plus-valore che avanza nei sentori anni Sessanta della ballata da “rotonda” “La vigilia di Santa Lucia”, va a ficcarsi nelle tramature pop ondulanti “Cose di Casa” o nei fraseggi soffusi “L’Abitudine”.

E poi ci sono loro,  le “provocazioni” urban-folk di “La Canzone Del Sindaco” e il pianoforte melanconico che accompagna “Adieu”, tratteggi che arrivano laddove la qualità ha la meglio sulla quantità, tratteggi eliocentrici “Italian Tour” che portano questo Sindaco allo scranno delle buone probabilità che la sua “legislazione poetica” duri l’infinità di più mandati. Al bando i panegirici, approvato con piacere!

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Giuliano Clerico – La Diva Del Cinemino

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Il cantautore pescarese Giuliano Clerico, prova a dettare le regole del proprio gioco sonoro, e il risultato è piacevolissimo, romanticamente storto, cromatico e urbano, il prodotto si chiama La Diva Del Cinemino, terza prova discografica per un teller-maker di rispetto, un’equazione di dieci tracce che sono spirito fresco per anima e mente, un eccellente “cantato e suonato” col gusto del particolare, blues, rock, calligrafia dolce/graffio e storie on the road, nonché struttura di suoni che ogni volta che vengono rimessi in circolazione, riaprono il senso acuto anche di una certa rimodulazione folk.
Disco appariscente e amarognolo di fondo e che emana musica che non annoia, anzi sorprende – nella sua semplicità caratteriale – nell’inserirsi tra centinaia di arrivi indie e quant’altro, elettrico, riflettente e pensieroso regala una fantastica economia d’ascolto tra refoli di Rino Gaetano, Dente, MuschitielloZona industriale e ondate di anni Sessanta esaltati da stupendi  “sbavoni” di schitarrate e organi con Lesli che innalzano le quotazioni  della tracklist a picchi astronomici; dicevamo dieci tracce a denominatore disparato, brani che offrono storie da ascoltare in momenti in cui il bisogno di una complice dolcezza è forte, e questo artista sembra fatto apposta per lenire e intaccare la carica di emotività a seconda della sua percezione del momento.
Il classico registrato dove non si butta via nulla, tutto è  decisamente figo e “da viaggio”, la ballatona da ronzino “Alla Bonnie e Clyde”, la spennata beatnik “La Strada”, “Il Prodotto”, l’ironia di una non erezione in salsa folk-western “La Valeriana”, o il Tarantiniano mex-mood che si insinua nella bella “Via Col Diavolo”, un impatto attualissimo che cesella pagine di un cantautorato inaspettato quanto valido.

Il talento di Clerico si riconferma, ed il suo essere nell’oggi con i sintomi creativi dello ieri lo premia sopra ogni aspetto, sotto ogni forma.

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Pablo e il Mare – Miramòr

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Non è facile fare un disco pop senza risultare banali, già sentiti, scontati. Non è facile, pure nella banalità, nello scontato, nel già sentito, riuscire a dire qualcosa di personale. Non è facile soddisfare i gusti di un’onnivora musicale meteoropatica come me. Eppure i Pablo e il Mare sono riusciti in ciascuna di queste cose.

Miramòr è un lavoro discografico elegante fin dalla copertina, fatto solo di uno fondo bianco con un mazzo di peperoncini rossi annodati dai gambi, che ricorda tanto certi matrimoni in cui la sposa, pur dovendo rispettare le tradizioni, trasgredisce ficcando dei peperoncini nel bouquet, ché in fondo sono rossi come l’amore e la pelle arsa dal sole e calienti come la passione. Perché c’è questa latinità nel disco, una forte e diffusa componente mediterranea che si traduce in un gusto per le sonorità acustiche, a tratti più propriamente folk come in “Fidelina” o “Ora lo sai”, che fa un uso del popolare commisto al pop molto simile a ciò che fa Daniele Silvestri, o “Farfalle”, più mossa e danzereccia. E il cantautorato è il vero protagonista di questo disco: “Immaginario” ha un certo sapore retrò, soprattutto per gli archi di accompagnamento, la chitarra acustica e il riferimento testuale alle ventimila Lire di ormai lontana e nostalgica memoria; “Pesci Tropicali” è quasi l’ideale colonna sonora di un film, con il suo raffinato accompagnamento pianistico. Il cinema, infatti, è l’altra grande ispirazione dell’album: molte tracce sono costruite con il solo intento di narrare storie, contrapponendo e giustapponendo immagini diverse in grado di ricreare suggestioni, mentre la musica, talvolta dal sapore pulp, sottolinea, evidenzia, accompagna. Eclatante è il caso di “Franco Ciccio e la Sirena”, mentre l’atmosfera diventa più fumosa e cameristica in “Gatto sul Tetto”, in cui la voce esegue salti melodici volutamente rochi, che mi hanno ricordato certi slanci vocali di Piero Pelù. La più riuscita, per quanto forse sia fin troppo didascalica è “Migrante”: l’introduzione fatta di suoni di onde che si infrangono e gabbiani in volo, su una linea melodica strumentale quasi arabeggiante. Mi ha ricordato molto, per i riferimenti, le ispirazioni e, innegabilmente, per l’argomento, Il Treno del Sole dei Mau Mau di Luca Morino. Il belcanto nostrano e la nostra tradizione pop, invece, sono il trait d’union di “Avvampa”, la traccia di apertura che subito mostra la capacità di curare gli arrangiamenti (per quanto non siano originalissimi e mi abbiano subito rimandato a Le Vibrazioni) e di “Viva”, brano di chiusura del disco dal sapore vagabondo, un po’ alla Negrita. Le influenze del lavoro dei Pablo e il Mare sono davvero disparate, ma tutte interiorizzate e rimaneggiate in una chiave stilistica molto personale. Ne risulta un disco con una individualità precisa e una capacità evocativa molto alta. Una bella scoperta davvero.

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Elio Petri – Il Bello e il Cattivo Tempo

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Rimane sempre al centro della sua scena il cantautore-musicista Emiliano Angelilli in arte Elio Petri, ma ora questo moniker è comprensivo di una vera band di contorno, e “Il bello e il cattivo tempo” è la nuova formulazione sonora che l’artista mette sul banco degli ascolti, poi andando a scandagliare la profondità delle sette percezioni che costituiscono la scaletta,  quello che si va ad imprimere al primo giro è la sensazione di un disco che “si apre agli orecchi”, che si rende abbastanza abbordabile rispetto il precedente, con quella misurazione idonea che accorcia distanze e favorisce approcci pressoché “amichevoli”.
Licenziato per l’etichetta perugina Cura Domestica, il disco – che vede due rispettabilissime guests quali Marco Parente nella metafisica di “Capra strale” e Theo Teardo in ben quattro tracce tra cui spicca, per una stupenda costruzione psichedelica, l’aria girovaga di “Ti farò soffrire”, è una di quelle mutazioni artistiche che si palesano come performance assemblate, dove valore e gusto si contrappongono ad attivazioni sensazionalistiche di scarso pregio, qui parola e concetto autobiografico sono un tutt’uno con un ascolto fine e a tratti diabolicamente criptato ma con le chiavi sulla toppa, tracce autoptiche sulla loro stessa personalità, il respiro di un senso di rinascita e il climax malato dell’io, ma che, calcolato nel vortice totale degli Elio Petri,  diventa una miscela da standing.

Se le condense Kafkiane di “Bruco” o “Vipera” vi stordiscono a dovere, potete sempre rifarvi l’animo con il rock isoscele che fulmina in “Blues” o decorarvi l’anima con la filigrana stampata negli equilibri svergolanti di “Il disprezzo”,  ed il gioco è fatto, tutto quello che rimane da fare è catturare le interessanti intuizioni sonore “Mascella”, accurate, intense e nello stesso tempo libere come foglie al vento “Alga”, poi tirando le somme vi troverete a considerarlo non un lavoro di velata sofferenza interiore, ma un pacco di musica dove costruirci sopra infiniti binari interpretativi e, perché no, arricchirvi di personalità multiple.
Bello.

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Giuradei – Giuradei

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Un buon disco dopo aver smaltito la sbornia da ri-fagocitazione di estenuanti anni Ottanta ant-post-futur, è proprio quello che ci vuole per fare pace con l’ansia e  con le corse da prestazione sonora cui siamo sotto tiro ogni dì. E manco a farlo apposta arriva il nuovo dei Giuradei brothers che porta solo il cognome dei due musicisti “Giuradei” a ritiraci su, a rimpinguare quelle falle mnemoniche che avanzano imperiose dopo tanto stress.
Ettore non è più solo, interviene nella stesura della tracklist anche il fratello Marco, ed il prodigo cantautorale di questi “esseri alieni” raddoppia e si rafforza nelle loro storie, verità, bazzecole e originalità con la forza astratta di quella poetica sghimbescia che è una indiavolata mutazione spalmata su dieci tracce; disco di incomprensioni, angoli di vita, curve di pensiero e il tratto distintivo e  “disilluso” come la filosofia “Giuradeica” comanda. Gli artisti lombardi sfornano un cantautorato agro, in bilico tra canzone d’autore intinta d’elettrico “Generale”, “Papalagi” o acustiche carrettere e vagamente tex-mex “La sconosciuta”, “Sta per arrivare il tempo”, “Dimenticarmi di te”  un inalterato stile musicale che li fa riconoscere all’istante e dal quale difficile sgamarne le continue inversioni ad U, dai repentini umori che passano sempre ad un livello “successivo” sensazionale, atmosferico.
Storie urbane e desideri di tutti i giorni, un continuo e buon “assorbire” la genuinità dello specchio della vita che i due Giuradei lucidano e rendono opaco a tempi alterni con quel piacevolissimo intorpidimento che spesso la noia e la reminiscenza di refoli d’ottimismo regala; con la bella chitarra spennata da Depedro dei Calexico in “Senza di noi” o il verbo di Giancarlo Onorato che echeggia in “Continuano a volare”, la rappresentazione sonora di stati d’animo e nuvole dai grigi incerti arrivano al loro binario morto senza mai cadere nei trabocchetti revivalistici di certi cantautorati, un disco che vi trascinerà a tentoni nel bagliore e nella meraviglia dell’esperienza estetica. Consigliatissimo!

http://www.youtube.com/watch?v=sOMYHl_3fCY

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Cesare Basile – S/T

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Scaricato in free streaming dal sito del Teatro Coppola, Teatro dei Cittadini di Catania e tutt’ora occupato, ecco il nuovo diamante grezzo del cantautore Cesare Basile, diamante grezzo che non porta nessun nome, ma che rovescia addosso a chi mette orecchio un climax ruvido, gravido di quelle melodie al quarzo che scintillano luce, riverberi scarni,  sapore di sale e ferite aperte che sono oggetto e verifica di quella passione graduata che l’artista siculo ci ha sempre plasmato dentro lo stomaco e dintorni.
Quello che colpisce della poetica di cartavetro di Basile è che non alberga mai voli liberi, abbandoni o albe da trascendere, ma una costante elegia alla celebrazione della sofferenza e nello stesso tempo alla riflessione nuda e cruda intesa non come esistenzialità piuttosto come perfezione “dal basso”, di quella rabbia costipata messa in circolo sottoforma di intimismo agro e cupo che fa titillare all’inverosimile le meccaniche di collegamento delle emozioni vere; dieci tracce – alcune cantate anche in siciliano – che se fossero colore sarebbero color seppia, un istinto la giustizia, uno sguardo il profondo e una movenza un volo di farfalla triste, dieci tracce che quantizzano l’enfasi e i ricordi di un autore schivo  quanto vero, sincero, arte fatta con gambe, parole, pensiero e lingua per poi andare a zonzo in una esistenza che non lievita le masse ma le prende in considerazione, le fa contare non come numeri ma come un insieme di fratellanza da scuotere forte e ancora forte.
Cantautorato spesso, che odora, profuma e puzza di vita e voglia di libertà, storie amare come cicuta e raccontate fuori dai denti, senza abbellimenti e pinnacoli, la Sicilia parlata dalla parte delle sue ingiustizie, dai fondi dei  suoi negazionismi libertari e pregna di quelle frecce popolari che alimentano corpi e intelligenze sottomesse e  da infilzare, un disco che con “Parangelia”, “Nunzio e la libertà” ti apre disegni metafisici e contorni mediterranei, ti attraversa l’animo con la scardinata prosa popolare e i suoni  acustici del tempo “L’orvu” e “Caminanti” fino a quell’arcobaleno sbiadito ed intermittente che s’ inchina alle rime della stupenda  – tra le stupende – “Lettera di Woody Guthrie” ballata nera bagnata da un folkly tratteggiato e larsen messi a contrasto tra spiriti indomiti e un America bastarda.
Cesare Basile è tornato per farci tremare, e lo fa attraverso il nostro ascolto che prende quota al di là della forma visibile.

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