Atomic Stuff Records Tag Archive

The Black Rain – Water Shape

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“Qual è la forma dell’acqua? Semplice: l’acqua non ha forma!”

Così The Black Rain spiegano il titolo del loro ultimo disco, Water Shape: un fil rouge estremamente sottile, quasi impercettibile, praticamente inesistente, che lega le undici tracce di questo concentrato di Hard Rock di stampo Eighties. I quattro bolognesi in realtà passano i minuti a giocare con i grandi paradigmi dell’Hard Rock: riffoni di chitarra, batteria esplosiva, una voce che vorrebbe essere potente e centrale (e spesso però non convince), tematiche universali trattate in maniera banalotta (“Mesmerize”), scampoli di ribellione spenta e attaccaticcia, che inizia a suonare ridicola (“Rock’n’roll Guy”, peraltro una ballad molto orecchiabile), il tutto in un inglese che potremmo definire approssimativo. Water Shape provoca quel bruttissimo effetto dejà vu che fa sorridere fin dalle prime note del disco, quando alle nostre orecchie arriva questo sunto di altre mille realtà Rock che non ci dice niente di nuovo, neanche per sbaglio.

Con questo non voglio dire che Water Shape sia necessariamente un brutto disco: probabilmente può essere assai piacevole per un amante del genere, che può trovare infiniti topoi rimescolati e riutilizzati in appena undici tracce. Inoltre The Black Rain è un gruppo che suona compatto (anche con una produzione non eccelsa che ogni tanto li penalizza), musicisti di sicura bravura e con qualche idea (sempre senza uscire dal recinto, intendiamoci) a cui il nostro lato più istintivo può, a spezzoni, agganciarsi. Però non ci troviamo niente di nuovo, qua dentro, nessuna variazione interessante rispetto al già sentito, nessun azzardo, nessun salto nel vuoto, e il valore dei brani non è così importante da farli uscire dall’immensa massa dei rocker vecchio stampo che riciclano lo stesso genere dagli anni 80. Un disco che può essere apprezzato dagli appassionati di questo tipo di sound, ma che all’ascoltatore in cerca di qualche brivido in più regala solo una comoda noia, come acqua che, pur avendo mille e una forma, non ha mai un sapore.

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Seta – Interferenze

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Leggendo il comunicato stampa del primo album dei Seta, Interferenze, prodotto dall’etichetta veronese Atomic Stuff Records, ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte a un progetto interessante, non tanto per la fusione tra Elettronica e Rock, quanto per la filosofia portante del gruppo che parte da questo concetto fondamentale: “Sid Vicious Is Dead”. Senza rimpianti verso le grandi rockstar del passato, di cui oggi è rimasta solo l’ombra, i Seta si proiettano idealmente verso un futuro musicale fatto di testi “taglienti”e melodie immediate.

No, niente di tutto ciò.

L’omaggio al fuhrer dei Sex Pistols suona oltraggioso ben oltre i limiti oltrepassati in vita dal giovane Punk: il testo di “Sid” ne esalta i lati più eccentrici e trasgressivi ma non come esempio da seguire e questo è di certo un messaggio maturo e responsabile visto che migliaia di adolescenti frustrati ancora oggi prendono esempio da queste icone maledette. Però sono estremamente convinto, che se il buon Simon Ritchie fosse tra noi, ascoltando quest’album, ci avrebbe spruzzato del “vomito amaro”. Ma lasciamo da parte Sid ed entriamo nel vivo di un album che di testi taglienti non lascia alcuna traccia. “Lame Di Luce” ci catapulta verso le sonorità classiche del Rock made in Italy, ed è quasi un biglietto da visita per l’ormai andato Festivalbar. L’elettronica eterea, reminiscenza dei Subsonica e stacchetti di puro Hard Rock (con la buona prova del chitarrista Lorenzo Meuti), non salva il loro sterile e superficiale tentativo di analizzare un tema complesso come “La Follia”.

Quinta traccia (“Per un giorno in più”), primi secondi, sembra Post Punk di matrice inglese, mi rendo conto che sono dei musicisti con esperienza, ma allora perché confezionano un lavoro così banale quando le intenzioni dichiarano altro? Il video su YouTube svela l’arcano: anche i Seta sono intrappolati nell’odiosa estetica hipster: apparentemente insofferenti, annoiati e disinteressati alla materialità della vita, nascondono la loro vera natura attenta alle esigenze commerciali e finiscono per sembrare la caricatura di ciò che avrebbero voluto essere. Inevitabilmente la mia tolleranza arriva al limite ma ho imparato a gestire le emozioni e dopo un bel respiro mi distacco dai miei sentimenti e con tanta buona volontà continuo il mio ascolto professionale. “Romanza” preferisco evitarla, “Istante” ed “Indifferente” si muovono tra un Rock alla Negrita e trascurabili sferzate di synth. “Clock” quasi mi stupisce musicalmente: ritmica potente, tastiere New Wave e la chitarra che fa da padrona rendono l’ascolto piacevole; “Alibi” è condita da un timbro vocale che richiama un Renga più ricercato; l’ultimo pezzo è quasi totalmente sintetico, (non a caso “Syntesi”) composto di House, tribalismi, cori angelici spezzati da un intermezzo silenzioso, è il brano più movimentato e “alternativo” dell’album ma che appare già datato. Insomma, in Interferenze non c’è ricerca, non c’è sperimentazione, non c’è spessore né profondità, tutto è stereotipato dalle solite sonorità nostrane, alle tematiche affrontate nei testi più vicine a Maria de Filippi che al vero Rock.

Allora ai Seta io rispondo: Sid Vicious Was Innocent”.

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X-Ray Life – X-Ray Life

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Che dire, benvenuti nella alcaloide Seattle ’90 e arrondissements,  con tutto lo scoramento possibile del grunge con la G maiuscola, benvenuti tra le undici infuocate tracce che i veneziani X-Ray Life – nell’omonimo lavoro discografico – fanno girare con la concupiscenza riottosa della ribellione delle ribellioni sonore, e onestamente il sound che esala dal cerchietto di plastica è di quella evidenziata tendenza a scalmanare pogo e ricordo in una sequenza di eccellenze marcate.

Ma non solo grunge, anche sangue caldo da grandi occasioni, una necessità espressiva che va oltre lo scimmiottamento di tanti altri epigoni, un disco pieno di riffing e pelli violentate, un cantato messianico che fa riferimento agli immensi doloranti eroi come NirvanaSad”,  AINC, Eddie Vedder e Layne Staley  “Lay on you”, “Everyone is a star”, “665 Inside”, Stone Temple Pilot e altri, tracce che vivono di struggenza propria, sulfuree e nere come i peccati più inconfessabili e di conseguenza di una stratosferica carica di maledizioni elettriche che progressivamente ti entrano sottopelle e ti ungono della loro bellezza diabolica; un lavoro questo dei nostri veneziani che nonostante lo stile ultra consumato da milioni di “seguaci alternativi grungers” riesce davvero ad evolversi in un motus proprio di tutto rispetto, agitandosi in un equilibrio duro e morbido che a fine ascolto lascia contusioni dentro e fuori l’anima di chi lo ha ascoltato fino in fondo.

Dopo lo sludge di “Suzie Q”, rivisitazione dell’hit dei Creedence Clearwater Revival, il corpo d’ascolto rimane allucinato dalle impronte Iguanesche che “Coma like a dream” lascia su una Detroit immaginata, plagiato dai sintomi malati di un Mike Patton che urla roco in “Devil on heart” e divinamente impossessato dal rullo compressore col jack che “The last song” ci fa passare sopra le orecchie, lasciando come scia il laido olezzo di street rock alla G’N’R.

Dimenticate di avere molto più di vent’anni perché qui ci si (ri)avventura in territori giovanili rebel, qui non ci si fa mancare nulla, dalle giunture salde alle scoppiettanti idee allo scoperto, dai woofer epilettici alle giugulari gonfie di malessere sociale, e se cercate la dolcezza di bonarie soluzioni indie siete col culo in aria. Credetemi!

Ottimo per sfogare rabbia e saltare come tappi infiammati.

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