Alice in Chains Tag Archive

La versione 20.21 del grunge della Seattle anni Novanta: Intervista ai Bodoni

Written by Interviste

Quattro chiacchiere con la band dopo la pubblicazione del nuovo lavoro.
Continue Reading

Read More

Dodici Tracce: non la solita playlist #07

Written by Playlist

Una rubrica in cui le illustrazioni di Stefania incontrano gli scritti e le playlist di Claudia, dando alla luce un racconto sonoro a forma di vinile.
Continue Reading

Read More

Tritonica – Disforia [STREAMING]

Written by Anteprime

Disforia è il nuovo lavoro dei Tritonica, bolscevica e stakanovista band nata a Roma nel 2016 dalla comune passione di tre studenti universitari per la sfera musicale sludge/grunge, stoner e progressive rock/metal.

Continue Reading

Read More

The Somnambulist – Quantum Porn

Written by Recensioni

Deftones – Gore

Written by Recensioni

I Deftones sono uno dei pochi superstiti all’ondata Nu Metal che travolse la scena musicale americana e non nei primi anni del 2000, toccando anche la nostra nazione (vedi i vari Mas Ruido o Browbeat per citarne due a casaccio), grazie ad evoluzioni continue che ne hanno evitato un’apparente omologazione.  Gore è il loro ottavo lavoro in studio ed è stato caratterizzato, purtroppo, da alcuni rumors che vorrebbero il chitarrista Stephen Carpenter in procinto di lasciare la band a causa di contrasti interni.  Non hanno mai nascosto di essere influenzati dal Dream Pop, come si intuisce immediatamente con la prima traccia “Prayers/Triangles”, un serpente sonoro che si insinua nei meandri della nostra anima, delicato al tocco seppur letale nel morso. In “Doomed User” è proprio la chitarra di Stephen ad esaltarsi, partorendo un riff di una ruvidità Punk che non si sentiva dai tempi di Around The Fur. E’ come se si avesse l’impressione che in questa canzone il gruppo, e Chino Moreno in primis, gli avesse lasciato totale carta bianca. Dico così perché resterà, inspiegabilmente, un episodio isolato. Il romanticismo New-Wave è assoluto protagonista in “Hearts/Wires”: una lunga introduzione fa da preambolo a quella che sarà la composizione più tranquilla e, al contempo, una delle più riuscite del pacchetto, valorizzata da un chorus di una bellezza inebriante. Chiacchiere a parte, anche in “Pittura Infamante” (titolo che strizza l’occhio al nostro Paese?) è il dialogo funambolico tra la batteria secca e precisa di Abe e il consueto lavoro del chitarrista a ergersi addirittura sopra le linee vocali di Chino. Una sorta di riscatto del proletariato. Nella titletrack il singer, però, si riprende lo scettro di re supremo con una performance vocale sopra le righe, ritornando ai fasti del passato con uno stile screaming capace di far vacillare le fondamenta di un edificio, per poi creare un’atmosfera soffusa nel ritornello clean. L’ospitata di Jerry Cantrell  degli Alice In Chains in “Phantom Bride” pare avere più lo scopo di produrre clamore, rispetto all’utilità nella struttura della canzone stessa. Assistiamo praticamente ad un assolo Hard Rock in un brano dalle tinte Shoegaze. Perplessità a secchiate.

Gore è un gradino sopra il precedente Koi No Yokan, ma ci lascia comunque ancorati al terreno, non facendoci spiccare il volo, come pregustavamo dai fenicotteri in copertina. Parliamo sempre di una band simbolo che giunta all’ottavo disco crea tendenza e dipendenza. E dopo vent’anni non è per niente facile.

Read More

Zippo – After Us

Written by Recensioni

Attivi da oltre dieci anni, i pescaresi Zippo si sono ritagliati nel tempo un proprio spazio tra le figure cardine della scena Stoner italiana e non.  After Us è il loro quarto disco, il primo per l’etichetta inglese Apocalyptic Witchcraft, una label che ha lasciato loro carta bianca,  permettendo ai quattro rockers di sentirsi liberi di sperimentare qualsivoglia sonorità. Ciò che ne è venuto fuori è questo lavoro, pregno di sudore e intensità.
L’opener “Low Song” colpisce con ardore, mossa da un impeto che ricorda da vicino Fu Manchu (l’apparato strumentale) e Orange Goblin (l’ugola abrasiva di Dave). “After Us” ha il dono di unire tutti gli stilemi di Alice In Chains e Black Sabbath, una canzone dal valore assoluto capace di riesumare due gruppi leggendari della storia del Rock. Il viaggio prosegue con la melodia acida di “Comatose”, una traccia dal piglio indomabile, e dall’interlocutoria “Familiar Roads”. Senza ulteriori indugi si torna a far rombare il motore con “Adift (Yet Alive)”e la più ragionata “Stage 6”. L’ultima composizione, “The Leftlovers”, è una sgroppata di sette minuti tra le dune del deserto del New Mexico: polvere negli occhi e incoscienza da vendere.
Con questo disco gli Zippo mettono un tassello rilevante sul cammino della maturità artistica, a parer mio, non ancora del tutto raggiunta. Nonostante alcuni passi falsi, il disco è assolutamente sopra la sufficienza.

Read More

Malamadre – Malamadre

Written by Recensioni

Il progetto Malamadre giunge a coniugare note e matite: il trio abruzzese, infatti, muta gli undici episodi che compongono il disco in una webserie di fumetti musicali, coinvolgendo autori e disegnatori e sconvolgendo il concetto di semplice trama sonora. Un palmares ricco di riconoscimenti nonostante una vita artistica tutt’altro che longeva è il loro biglietto da visita. “Olio”, la prima traccia dell’album, consente alla band di vincere il premio come Miglior Voce al Red Bull Tour Music Fest, Miglior Voce a Streetambula Music Contest e il Pescara Rock Contest, consentendo ai Malamadre di aprire agli Afterhours nella loro data pescarese. Il brano ha un sound attinto dal Grunge, con aperture bucoliche create dal nulla dalla voce di Nicholas Di Valerio. “Chi non Muore si Risiede” prosegue su questa scia e al genere cantautoriale si somma il vigore di Soundgarden ed Alice in Chains. La ballata “Mammarò” e la successiva “Il Tango del Portiere” sono unite dall’invisibile collante della rassegnazione, con testi tristi che ci raccontano di vite al tramonto, senza cadere nella facile retorica. D’ora in avanti sarà tutto un batti e ribatti: a un pezzo simil Pearl Jam risponderà una parentesi con un approccio più bilanciato, spesso e volentieri con risvolti acustici. Racchiudere simili concetti e idee in undici brani mostra una spiccata autostima, nonostante sia ben contenuta, non scivolando mai nell’emulazione o nel plagio più becero, preservando una propria identità. Disco da ascoltare e riascoltare.

Read More

Shame – Entropia

Written by Recensioni

Le mie ultime recensioni del 2014 sono state particolarmente positive. Non che sia una che aspetta l’album di merda per poter fare facile ironia e fare una recensione in cui non faccio altro che sottolineare di avere tra le mani un album di merda. Diciamo però che, nel tempo, sono riuscita a farmi una certa fama di boia col sorrisetto sardonico e il caso mi aveva probabilmente aiutato ad alimentare il tutto. Così mi aspettavo che il 2015 invertisse di nuovo la tendenza e ripristinasse i ruoli: album di merda, recensioni da stronza. E invece no. A parte che mi sono immediatamente gasata a leggere nell’interno del cd che gli Shame hanno una batterista donna che fa pure i cori, ma alle prime note di “Falling Through”, traccia di apertura di Entropia, ho capito che il terzetto ha mangiato pane e Grunge, come la sottoscritta, e manco poco. Cinque minuti di atmosfere alla Alice in Chains e cantato sofferente alla Cobain. Sonorità un po’ più 2000 lasciano momentaneamente il Seattle-sound in “The Burning Flag II”, ma la sensazione dura ben poco: “Totally Soulless” è Nirvana alla stato puro. Certo, all’arrivo di “A New Breeze” viene da chiedersi perché non ascoltare gli originali e farla finita qui: il vocalist Andrea Paglione è veramente copia spiccicata di Cobain, con qualche inflessione vaghissima alla Chris Cornell, ma insomma, è un po’ troppo. La tecnica di tutti e tre è ineccepibile, ma – e succede spesso – manca una nota personale. Difficile, in fondo, rimaneggiare un genere come il Grunge che ha caratteristiche peculiari e tratti distintivi che sono stati portati all’eccellenza da quattro-cinque gruppi in croce e che si è bruciato in un tempo limitato. Molto difficile. Pregevole, per esempio, l’idea dell’accellerata in “Ricochet”, anche se è troppo irregolare, abbastanza da sembrare un errore. Non fosse per le back voices della batterista Veronica Basaglia, che in questa traccia si dimostra per altro bravissima, “Apocalypto” potrebbe essere uscita da Jar of Flies degli Alice in Chains. Resto ad ascoltarli ugualmente, anche se ormai l’antifona è piuttosto chiara: ottimi musicisti, purtroppo poco personali. “Like Cain” è una ballata cupa praticamente filologica, che lascia spazio alla (pre)potente “Coming Back (Extasia)”. E scusate se insisto, ma l’intro di “The Dissolving Room”e di “Rolling” a me hanno ricordato le atmosfere di “Would”. Altro che anni ’80, come cantava Agnelli, qui non si esce vivi dai 90s’. E meno male, che poi arriva l’Indie e dio ce ne scampi.

Read More

La Band della Settimana: Acid Muffin

Written by Novità

Gli Acid Muffin sono un gruppo romano nato nell’ottobre del 2010 dall’idea di Marco Pasqualucci e Andrea Latini, rispettivamente ex batterista ed ex cantante/chitarrista dei Recidiva, ai quali si aggiunge nel maggio 2012 il bassista Matteo Bassi. Il loro è un Rock sperimentale e melodico, che prende in parte ispirazione dal sound Alternative/Grunge anni ’90. Gli Acid Muffin, dopo un primo demo registrato nel 2012, nel maggio dell’anno successivo entrano in studio per dare vita alla loro prima fatica ufficiale Nameless; un ep di cinque tracce dalle caratteristiche ibride, che da un lato si rifanno alla pura tradizione Grunge (Alice In Chains, Pearl Jam e Nirvana), dall’altro, per effetto di personali scelte stilistiche, lo ascrivono maggiormente al “Post”.

Acid Muffin ok

Read More

Le Fate Sono Morte – La Nostra Piccola Rivoluzione

Written by Recensioni

Non saprei se farne un problema generazionale. Ma sicuramente il decennio 90 ha lasciato qualche suo residuo anche sulla mia pelle. Il suono della decadenza e dei muri sgretolati, delle incertezze, delle grida di rabbia, di oppressione. Un suono da cui difficilmente si scappa se sparavi Alice In Chains nelle cuffie del walkman, a testa bassa e sulla via del liceo. Questo scenario è infatti ritratto alla perfezione nel primo LP dei milanesi Le Fate Sono Morte. Combo Rock dal 2008, capitanato dalla attraente e dimessa voce di Andrea Di Lago. La setlist è proprio un esemplare preciso dei pezzi scritti in solitaria seduti per terra nella stanza da letto a macinare arpeggi, ritmiche nervose e testi di confusione e sorda ribellione. La musica è avvolta da una fitta nebbia già nei primi versi della ballata “A Parte il Freddo” dove il violino deciso di Daniele Pezzoni rimanda senza mezze misure agli Afterhours più melodici e diretti. “Ipnotica” e “Arriva la Neve” danno invece una sferzata più americana, con un Grunge classico e grintoso dove però la sezione ritmica (colpa forse di alcune timide scelte in fase di registrazione) non spinge abbastanza, non dando il giusto groove a due pezzi che meritano comunque di essere considerati un buon esemplare di Rock all’italiana. La voce di Di Lago è espressiva, graffiante, sofferta ma poco dinamica e pecca in monotonia. In ogni caso rimane una splendida timbrica, di quelle che riconosci alla primo verso che esce dall’ugola.

Grande pecca il singolo “È già Settembre”. Non rende proprio giustizia all’intero album, ritmica di chitarra e testo banalotti. Sicuramente non un’ottima scelta per rappresentare un disco che ha perle di maggior splendore, sebbene un grosso nuvolone sembra sempre contornare il suono delle Fate. Ben più ispirata “Anime Artificiali”, con una bella lirica di sentimenti ammaccati: semplice ma d’effetto la frase “a Milano l’amore è un’illusione, tu non scordarmi mai. Sei il fiore nel mio burrone, quando non ci sei”. Nel finale troviamo ancora spazio per una stanca e depressiva “Senza Pace”, dove spicca solamente il bel suono di basso distorto, costante e presente, poi per ultima arriva “Niente (nondiventeremoniente)”, finalmente un pezzo sui generis dove la voce quasi parlata dona intensità e spessore a un dinamico tappeto Post Rock degno dei migliori Massimo Volume. Non saprei dire se la nebbia si alzi o si abbassi, ma almeno si muove e non rimane anonima a mezz’aria. Ed è di movimento che questo gruppo ha bisogno. Attendiamo la prossima prova speranzosi di vederci qualcosa di più. O di meno.

Read More

The Box – The Box

Written by Recensioni

I The Box, in un solo anno di vita registrano il loro primo omonimo disco, un disco fresco nelle intenzioni ma dal sound forzatamente old school riadattato ai giorni nostri. Per loro stessa ammissione sono forti le influenze di mostri sacri come Alice in Chains, Nirvana e Foo Fighters, il Grunge classicone per intendersi meglio e questo sicuramente risulta positivo per la riuscita tecnica del disco. Le sonorità ultra consumate di questo genere non stravolgono più di tanto le intenzioni pacate di un ascoltatore medio. L’impatto è violento perché a ogni modo i pezzi sono tirati tantissimo. Non si muore certamente di noia durante l’ascolto di The Box.  Non si muore di noia neanche durante la visione del film di Richard Kelly da cui penso la band si sia ispirata. Almeno credo perché reperire notizie sul gruppo non è roba facile se non fosse per un profilo facebook da cui riesco a capire qualcosa. Ma tanto a noi interessa la musica, le informazioni non sono (per forza) necessarie. “Silence” apre il supporto in maniera proponibile, con le chitarre spezzate alla Placebo e la voce che si spacca il culo per alzare forte il pezzo.  Molto emozionale e teenager style il finale portato al galoppo dalle chitarre inesauribili.  Prima parlavamo delle influenze dei Nirvana che tornano prepotenti e invadenti soprattutto in “Trains” (linee vocali) e “Hypno-Love” dove la mente consiglia subito la nirvaniana “Dumb”. Ma non parliamo di plagio, solamente di forti ricordi. Rock melodico in “Regaining Mood”, quasi un pezzo sdolcinato anni Novanta. L’effetto è comunque positivo; voglia di amare.

Il disco inizia a scaldarsi mantenendo sempre un atteggiamento Grunge, la batteria picchia forte accompagnata da un basso martellante in “Home”, le chitarre sterzano Stoner.  Le decisioni dei The Box sono sempre più chiare, il loro inno di battaglia grida Grunge Forever! Ma assolutamente non si accettano sperimentazioni, tutto deve rimanere incontaminato e maledettamente demodè, vietato allargare gli orizzonti. Ascoltare “W-Hole-Rdl” per rendersi conto delle finalità artistiche della band.  The Box trova una collocazione positiva nei miei ascolti ma tutto potrebbe finire improvvisamente, niente vuole ricordare questo disco, neanche una personalissima nota da parte della band. Come dire che The Box suona bene ma alla fine cosa ci rimane? Tutto sembra già stato proposto e riproposto fino allo svenimento, manca d’inventiva e sinceramente un esordio discografico dovrebbe avere ben altri scopi. Questo lavoro rimane ben suonato e confezionato ma lo stimolo decisivo viene a mancare proprio nel momento del bisogno. Un buon disco di Grunge classico e niente di più. Per stupire serve ben altro e credo in un prossimo riordino delle idee. Tutto sommato se non cercate niente di esclusivo questo disco potrebbe fare al caso vostro, bravi musicisti che al momento non vogliono osare. Kurt Cobain alive. E non è comunque poco.


Read More

Bologna Violenta – Uno Bianca

Written by Recensioni

Con l’uscita, nel 2012, di Utopie e Piccole Soddisfazioni, Nicola Manzan, in arte Bologna Violenta, ha fissato per sempre i paletti della sua espressione stilistica, permettendoci di distinguerlo al primo ascolto, anche in assenza quasi totale della voce, sua o di chi altri. Con quel terzo disco, il polistrumentista già collaboratore di Teatro Degli Orrori, Non Voglio Che Clara, Baustelle, sembrava gridare all’Italia la sua ingombrante presenza, divenendo poi uno dei punti fermi (grazie anche alla sua etichetta, Dischi Bervisti) di tutta la scena (ultra) alternativa che non si nasconde ma si offre in pasto a ogni sorta di ascoltatore, dai più incalliti cantautorofili, fino agli inguaribili metallari. Nicola Manzan non colloca alcuna transenna tra la sua arte e i possibili beneficiari e allo stesso modo non pone freno alla sua creatività, fosse anche spinto dal solo gusto per il gioco e l’esperimento divertente magari senza pensare troppo al valore per la cultura musicale propriamente detta. Arriva perfino a costruire una specie di storia della musica, riletta attraverso quaranta brani che sono rispettivamente somma di tutti i pezzi composti da quaranta differenti musicisti. Dagli Abba ad Alice in Chains passando per Art of Noise, Barry White, Bathory, Bee Gees, Black Flag, Black Sabbath, Bob Marley, Boston, Carcass, Charles Bronson, Dead Kennedys, Death, Donna Summer, Eagles, Faith No More, Genesis, Jefferson Airplane, Kansas, Kyuss, Led Zeppelin, Michael Jackson, Negazione, Nirvana, Os Mutantes, Pantera, Pink Floyd, Queen, Ramones, Siouxsie and the Banshees, T. Rex, The Beatles, The Clash, The Doors, The Police, The Velvet Underground, The Who, Thin Lizzy e Whitney Houston. Ogni traccia è il suono di tutti i frammenti che compongono la cronaca musicale di quell’artista. Poco più di una divertente sperimentazione che però racconta bene il soggetto che c’è dietro.

Dopo questo esperimento sonico per Bologna Violenta è giunta finalmente l’ora di far capire a tutti che non è il caso di scherzare troppo con la sua musica e quindi ecco edito per Woodworm, Wallace Records e Dischi Bervisti ovviamente, il suo quarto lavoro, Uno Bianca.  Se già nelle prime cose, Manzan ci aveva aperto le porte della esclusiva visione cinematografica delle sue note caricando l’opera di storicità, grazie a liriche minimali, ambientazioni e grafiche ad hoc, con quest’album si palesa ancora più la valenza fortemente storico/evocativa della sua musica, in contrapposizione ai cliché del genere Grind che lo vedono stile violento e aggressivo anche se concretamente legato a temi pertinenti politica e società. La grandezza di Uno Bianca sta proprio nella sua attitudine a evocare un periodo storico e le vicende drammatiche che l’hanno caratterizzato, attraverso uno stile che non appartiene realmente all’Italia “televisiva” di fine Ottanta e inizio Novanta. Il quarto album di Manzan è proprio un concept sulle vicende della famigerata banda emiliana guidata dai fratelli Roberto e Fabio Savi in attività tra 1987 e 1994, che ha lasciato in eredità ventiquattro morti, centinaia di feriti e strascichi polemici sul possibile coinvolgimento dei servizi segreti nelle operazioni criminali. Un concept che vuole commemorare e omaggiare la città di Bologna attraverso il racconto di una delle sue pagine più oscure, inquietante sia perché i membri erano appartenenti alla polizia e sia perché proferisce di una ferocia inaudita. Il disco ha una struttura categorica che non lascia spazio a possibili errori interpretativi e suggerisce la lettura già con i titoli dei brani i quali riportano fedelmente data e luogo dei vari accadimenti. Per tale motivo, il modo migliore di centellinare questo lavoro è non solo di rivivere con la memoria quei giorni ma di sviscerare a fondo le sue straordinarie sfaccettature, magari ripassando con cura le pagine dei quotidiani nei giorni prossimi a quelli individuati dalla tracklist, perché ogni momento del disco aumenterà o diminuirà d’intensità e avrà un’enigmaticità più o meno marcata secondo il lasso di tempo narrato o altrimenti attraverso la guida all’ascolto contenuta nel libretto.

Sotto l’aspetto musicale, Manzan non concede nessuna voluminosa novità, salvo mollare definitivamente ogni legame con la forma canzone che nel precedente lavoro era ancora udibile in minima parte ad esempio nella cover dei Cccp; i brani sono ridotti all’osso e vanno dai ventuno secondi fino al minuto e trentuno, con soli due casi in cui si toccano gli oltre quattro minuti. Il primo è “4 gennaio 1991 – Bologna: attacco pattuglia Carabinieri” che racconta l’episodio più feroce e drammatico di tutta la storia dell’ organizzazione criminale; la vicenda delle vittime, tre carabinieri, del quartiere Pilastro. La banda era diretta a San Lazzaro di Savena per rubare un’auto. In via Casini, la loro macchina fu sorpassata dalla pattuglia e i banditi pensarono che stessero prendendo il loro numero di targa. Li affiancarono e aprirono il fuoco. Alla fine tutti e tre i carabinieri furono trucidati e finiti con un colpo alla nuca. L’assassinio fu rivendicato dal gruppo terroristico “Falange Armata” e nonostante l’attestata inattendibilità della cosa, per circa quattro anni non ci furono responsabili. Il secondo brano che supera i quattro minuti è “29 marzo 1998 – Rimini: suicidio Giuliano Savi”, certamente il più profondo, il più tragico, il più emotivamente violento, nel quale è abbandonata la musica Grind per una Neoclassica più adatta a rendere l’idea di una fine disperata, remissiva e da brividi. L’episodio che chiude l’opera è, infatti, il suicidio del padre dei fratelli Savi, avvenuto dentro una Uno Bianca, grazie a forti dosi di tranquillanti e lasciando numerose righe confuse e struggenti.

Come ormai abitudine di Manzan, alla parte musicale Grind si aggiunge quella orchestrale e a questa diversi inserti sonori (a metà di “18 agosto 1991 – San Mauro a Mare (Fc): agguato auto senegalesi” sembra di ascoltare l’inizio di “You’ve Got the Love” di Frankie Knuckles ma io non sono l’uomo gatto) che possono essere campane funebri, esplosioni, stralci radiotelevisivi, rumori di sottofondo, e quant’altro. Tutto serve a Bologna Violenta per ricreare artificialmente quel clima di tensione che si respirava nell’aria, quella paura di una inafferrabile violenza. Ora che ho più volte ascoltato i trentuno minuti di Uno Bianca, ora che ho riletto alcune pagine rosso sangue di quei giorni, comincio anche a ricordare meglio. Avevo circa dieci anni quando cominciai ad avere percezione della banda della Uno bianca e ricordo nitidamente nascere in me una paura che mai avevo avuto fino a quel momento. Il terrore che potesse succedere proprio a me, anche a me, inquietudine di non essere immortale, ansia di poter incontrare qualcuno che, invece di difendermi giacché poliziotto, senza pensarci troppo, avrebbe potuto uccidere me e la mia famiglia non perché folle ma perché uccidermi sarebbe servito loro a raggiungere lo scopo con più efficacia e minor tempo. Ricordo che in quei tempi, anche solo andare in autostrada per raggiungere il mare era un’esperienza terrificante, perché l’autostrada è dove tutto cominciò. “19 giugno 1987 – Pesaro: rapina casello A-14”, qui tutto ha inizio; una delle storie più scioccanti d’Italia e uno degli album più lancinanti che ascolteremo quest’anno.

Read More