Paul Banks

Written by Live Report

Il cambio di location dell’ultim’ora o quasi aveva fatto malpensare. Spostare il frontman degli Interpol, che sceglie Milano come tappa per il tour europeo di presentazione del suo ultimo album da solista, l’omonimo Paul Banks, dai Magazzini Generali, al ben più piccolo Tunnel, fa temere una risposta freddina del pubblico italiano. Arrivare alle sette e mezza per l’apertura cancelli e per gustarsi anche la performance di Roads Collide, progetto del romano Paolo Thomas Strudthoff scelto come spalla, non è valso a nulla: l’esibizione del cantautore è stata cancellata senza alcun preavviso (con grande stizza del fotografo accanto a me che mi mostra una mail sull’iPhone e mi dice “Ma non doveva esserci anche questo qui -indicando col ditino- oltre a Banks?”- letto esattamente com’è scritto, con la A bella aperta). Aggiungeteci che il Tunnel è stato deserto praticamente fino alle prime note di Skyscraper (poi si è riempito) e otterrete l’ umore di chi per quasi tre ore ha aspettato di sentire un po’ di musica in un locale vuoto e coi bagni luridi (di cosa e chi poi, che non c’era nessuno?). Fortuna che Banks ha un pubblico parecchio variopinto tutto da studiare, che va dal quarantenne negli abiti casual di chi è appena uscito dall’ufficio e con l’andazzo di chi probabilmente dieci anni fa si era preso la fissa degli Interpol, alle ragazzine finto hipster pronte a starnazzare su quanto sia bono Banks, a cui non lanciano reggiseni sul palco solo perchè hanno dovuto portare tutta la loro collezione di prime coppa a datate per avere uno nuovo da Tezenis o chi per esso. Chiariamo subito una cosa: a me gli Interpol fanno schifo. Sono andata al concerto di Banks perchè ho un ragazzo che da mesi me ne parla e adoro andare ai concerti di quelli che per me sono praticamente perfetti sconosciuti a fare la snob. E stando ai live report usciti su altre webzine sono stata molto fortunata perchè non presentarmi al Tunnel né sperando mi venisse offerto un amarcord della band né tantomeno che i pezzi solisti del cantautore americano fossero all’altezza delle sue precedenti esperienze, mi ha permesso di godermi il concerto in sé e per sé. Tutti i brani, grazie a dio nessuno degli Interpol, sono eseguiti sul palco in maniera praticamente fedele all’originale, un disco (di cui ho già parlato nelle Pills di qualche settimana fa) veramente ben riuscito per quanto riguarda le registrazioni e la cura delle sonorità. Ed esattamente come da disco spiccano le solite canzoni, I’ll sue you, Young again, Lisbon, The base. Banks non è un frontman con molto carisma, sembra stanco e concentratissimo, a malapena sorride tra un pezzo e l’altro e il massimo dell’espressione corporea è agitare gli stinchi nei pantaloni elegantemente stirati; per fortuna ha alla sua destra un chitarrista rockettaro, Damien Paris, che, se ha irritato i puristi del genere (mi riferisco alla recensione uscita su indie-rock.it), mi ha sorpreso per versatilità e buon gusto. Non è facile passare dall’hard rock della sua band, The giraffes, ai brevi incisi melodici e alle scale zeppe di riverbero degli arrangiamenti di un album solista squisitamente indie, ma Paris riesce a portare un po’ del calore sanguigno delle tradizionali pentatoniche, insinuandole sulle dissonanze arpeggiate eseguite dal cantante su quella che dovrebbe essere una Yamaha eg112 da poche centinaia di dollari. Fondamentale, per quanto visivamente si releghi in un angolo del palco, è il bassista-tastierista Brandon Curtis, maniacalmente preciso e pulito in ogni intervento. Durante l’esibizione emerge un dettaglio, che sfugge all’ascolto dell’album, sul criterio compositivo del newyorkese: non è la verticalità armonica la base della costruzione del brano, ma l’orizzontalità melodica e contrappuntistica. Ogni canzone è costruita su incisi melodici, di lunghezza variabile, ciascuno affidato a uno strumento: è proprio la loro sovrapposizione che crea la base per supportare la parola. Non c’è la classica distinzione fra chitarra ritmica e chitarra solista col basso che fa da sostegno armonico, perchè semplicemente non c’è un elemento più importante dell’altro. Ne esce una trama sonora molto moderna, a tratti stridente per tutte le dissonanze che si creano, sostenuta, supportata e portata avanti dalla batteria di Charles Burst, attento quanto i compagni ai suoni al punto di sfruttare contemporaneamente due rullanti di diversa tensione. La sensazione finale è che sia tutto molto meno artefatto, meno concepito in studio ed effettato di quanto si pensi. Purtroppo temo che nessuno si sia soffermato a notare queste cose. Le ragazzine erano impegnate chi a sbavare chi a cantare a squarciagola manco fosse stato Vasco a San Siro e la prima fila, che di solito dovrebbe essere lo zoccolo duro dei veri fans, aveva i notes per gli autografi già su The base, terzultimo brano in scaletta, o la compatta in modalità video accesa dal primo attacco.


 

Last modified: 6 Febbraio 2013

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