Who the fuck is Fabio Nirta? Intervista a un DJ “che ci fa tanto divertire”

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Come se la passa oggi in Italia un uomo abituato a vivere di musica?

Fabio Nirta è producer, dj, manager, promoter e penna libera, creatore di Bizarre Love Triangles, casa di progetti anglofoni italiani tra i più ambiziosi e di successo all’estero, dei quali Fabio è stato spesso anche anima e produttore. Lavora anche per festival come TOdays, IndieRocket, Color Fest e Altrove. È inoltre il produttore e manager dei dischi anglofoni indie italiani più venduti all’estero di sempre (Soviet Soviet e Casa del Mirto) ed è il dj resident di Ypsigrock da 10 anni, del Color Fest, del Be Alternative Festival e del Mood Social Club.

Nella sua attività pluriventennale ha condiviso il palco ed il backstage con i più importanti artisti indie (e non solo) del mondo. Realizza eventi e concerti indie da oltre 20 anni. I suoi edit fanno spesso molto rumore (vedi l’affaire Get Lucky dei Daft Punk o la vagabondate con il collettivo PSNZZT) ed il suo set è sorprendente per qualità tecniche e fantasia.

Abbiamo voluto chiedere a lui come se la passa oggi, in Italia, un uomo abituato a vivere di musica.

Tu sei uno di quelli che, come tanti in Italia, non solo ha fatto della musica una ragione di vita ma anche un lavoro. E ora? Come vive in questa situazione drammatica uno come te, sia sotto l’aspetto umano che economico?

E ora si sta alla canna del gas, come tutti, ma il fatto che abbia fatto dell’arte una ragione di vita mi porta a pensare altre maniere per comunicare, condividere la musica e l’arte.

Ho vissuto i mesi del lockdown in totale solitudine. Ho scritto molto, ho prodotto, ho fatto molti set in diretta, ho usato la tecnologia in modo più “intelligente”. Di certo ho sentito molta più musica, visto molti più film, letto molto di più. Credo che soffermarsi sui risvolti umani ed economici negativi non sia edificante e sia anche superfluo a questo punto. Tocca essere pazienti, molto pazienti. Quello che è successo è un fatto eccezionale, lo dobbiamo tenere a mente sempre, nonostante l’impazienza figlia dei tempi moderni che viviamo, del tutto e subito ed a ogni costo imperante.

Si è parlato tanto di necessità di sostenere chi lavora con la musica e si sono tirati in mezzo anche tanti piccolissimi dj o musicisti abituati a girare l’Italia per serate da 200/300 euro non fatturate, cifre basse ma che per qualcuno rappresentavano le uniche entrate. Sotto l’aspetto prettamente formale, chi in Italia può davvero sostenere di lavorare suonando?

Tutti, anche gli artisti in nero, che per una falla del sistema sono considerati invisibili e lo sono da sempre. La pandemia ha solo portato alla luce meccanismi e situazioni che facciamo finta di ignorare da sempre. Neanche chi ha un club conosce il suo futuro da qui a due o tre mesi. Non è di certo la condizione ideale per vivere e raccontare.

L’esplosione della pandemia ha solo evidenziato un gigantesco problema da sempre presente in penisola. Il ruolo marginale della cultura e, nello specifico, della musica, la scarsa regolamentazione e una serie di lacune che sembrano infinite. Sarà la fine del mondo per come lo conoscevamo (quello fatto di localini, band emergenti, piccoli dj set): sarà finalmente l’inizio di una piccola rivoluzione o tutto tornerà esattamente ad essere come era prima?

La fine del mondo di cui parli stava già accadendo. Band con numeri solo su Spotify che ti chiedono 1.000 euro per suonare davanti a 20 persone al massimo. Penso che il sistema del localino che propone musica inedita fosse già bello che imploso prima del lockdown, per colpa di alcun direttori artistici e soprattutto dell’utenza poco critica e sottomessa alla legge dei numeri fittizi di internet.

Cosa si poteva fare molto tempo prima di arrivare a questo punto e cosa si sarebbe potuto fare nell’immediato?

Pianificare, considerare la vita di quei pochi che considerano l’arte primaria, come è normale che sia in un paese civilizzato. Stessa cosa necessaria adesso: pianificare gli aiuti piuttosto che rilasciarne pochi a pioggia che ristorano nell’immediato, prosciugano le casse statali, ma alla lunga non guariscono le ferite di un settore gravemente malato.

Hai avuto modo di verificare le differenze tra Italia e resto del mondo nel rapporto tra Stato e musica in tempo di pandemia?

Certo che sì. Beh, non siamo le altre nazioni, siamo stati da sempre il fanalino di coda. Certo, questa ondata di “itpop” e “trap all’italiana” ha sollevato le sorti di molti artisti e operatori del settore, trasformando molti ragazzi in professionisti o semi professionisti. Se prescindiamo dalla qualità scadente dei prodotti, possiamo serenamente parlare di questi anni come di un periodo florido dell’industria musicale italiana, quindi dispiace due volte di più.

Cambiamo discorso. Parliamo di te e del tuo lavoro. Cosa significa fare il dj in Italia? Sei uno di quelli che “ci fa tanto divertire” (scusa la pessima citazione) o c’è qualcosa di più?

Fare il dj come lo faccio io è qualcosa di più, e se siamo qui a parlarne è ovvio che lo sia. Ma senza un filo logico della selezione musicale che diventa un discorso, senza ricerca, senza cultura, conoscenza e  rispetto dei dischi che si suonano, non si può parlare di djing. Contesto ai dj “commerciali” non tanto la qualità della loro musica, ma che la suonino a prescindere dei loro gusti, solo perché “funziona”, perché la gente te lo chiede, perché è quello che va o si aspetta.

Il dj set è un discorso che fai usando la musica e le parole degli altri. Se dici qualcosa in cui non credi o solo per accontentare chi balla, ovvero il tuo interlocutore, sei un falso ed un approfittatore. In sostanza, se vuoi portarti a casa i denari e la scopata, e sei lì solo per quello, cerca almeno di guadagnartela onestamente. Insomma, diglielo in faccia alla tipa che Gerusalema è un pezzo di merda e lo suoni solo nella speranza che te la dia.

Ma la cosa davvero ingiustificabile è che questo gioco perverso il pubblico lo conosce, ma se ne frega, a lui interessa solo un manichino che suoni quello che desidera. Insomma, penso che la presenza di un sacco di “dj di merda” sia lo specchio di una nazione che esprime accondiscendenza e bugie come valori. A margine di tutto questo mondo, di questa maggioranza, poi ci siamo noi, e sono felice di far parte di questa parte di minoranza.

A proposito del rapporto tra musica e cultura: è da poco uscito il nuovo singolo di Gazzelle. Cosa c’entra questa roba con la cultura e, soprattutto, perché piace tanto a tanti ragazzi uno come Gazzelle?

Perché parla ai ragazzi con un linguaggio da scuola media di sentimenti, di relazioni finite, con suoni alla moda, canzoni simili fra loro, un canovaccio collaudato dal quale non si sposta. Ha fatto un bel mischione di Calcutta, Coez, Tommaso Paradiso all’inizio della carriera ed ha funzionato. Trovata la formula, la ripete per ogni suo pezzo. In previsione sarà una delle prossime star di primo livello della musica leggera, penso farà il definitivo salto tra gli artisti di musica leggera che contano. Il limite di Gazzelle – il non poter fare altro che questo – è il suo miglior pregio.

Che poi a me piacciono i musicisti che sanno fare solo una cosa e bene. Non so se sia a conoscenza dei suoi limiti, ma poco conta, mi pare sia un ragazzo con la testa a posto, professionale, decisamente furbo. È tutto quello che dovrebbe fare un giovane votato alla musica italiana moderna che vuole con umiltà e sacrifici scalare le classifiche di gradimento. Quindi non trovo nessun motivo per non apprezzare il suo percorso. Di certo fa specie che un progetto musicale che dovrebbe attecchire solo tra i ragazzi delle medie e delle superiore sfondi anche alle università. Ecco, questo dovrebbe dare l’esatto stato della cultura italiana.

È davvero così importante che la musica abbia un valore culturale e sociale? Se molti ragazzi, giovanissimi, tendono a rispondere con semplici “mi piace”, non potremmo essere noi più “anziani” a farci troppi problemi? Magari lo scarso interesse dei più giovani verso cultura ed impegno sociale viene da più lontano (scuola? famiglia?) e le scelte musicali ne sono solo una conseguenza.

L’unica domanda che mi pongo a riguardo ogni giorno è: “Fabio, stai forse diventando vecchio? Non è che non ce la fai più a star dietro a quello che esce, alle nuove tendenze, alle novità? Ce la farai ancora ad arrivare per primo sulle cose?”. Ecco, la vecchiaia è una carogna. Di certo non mi riferisco alle tendenze nuove che non abbracciano i miei gusti, ma se dovesse uscire un disco stupendo e dovessi saperlo solo tra un mese o due, beh, forse deciderei di smettere. Non mi pongo il problema dei giovani, a dire il vero. Siamo stati sempre duecento a guardare i concerti, anche alla prima italiana dei Nirvana. Questa cosa che “una volta c’erano tante persone ai concerti di qualità” è una mezza fesseria. Nel senso che eravamo pochi allora, ed oggi di certo ancora di meno, ma è tutto naturale, è un periodo storico in cui essere interessanti ed acculturati non paga, conta solo essere furbi.

In questo discorso si può inserire l’avvento della trap, il ritorno del rap, ed anche la voglia di rivincita personale. I ragazzi sono molto più attenti all’immagine, alle scarpe, al look e molta della musica che amano non fa altro che ostentare ricchezza. Il rap influenza i giovani o li sta solo mettendo in scena?

Il look e la moda li han fatti sempre la musica, la moda rimbalza da sempre i look dei musicisti, nulla di nuovo. Cosa stia facendo la trap italiana, sinceramente, mi interessa poco, non è un linguaggio e non sono contenuti che mi interessano, non vivo per interessarmi di tutto. Farei comunque un distinguo tra trap e rap qui in Italia, che poi parlerei sempre di “trap italiana” e “rap italiano”. Ci è bastato come hanno trattato in Italia il termine “indie”, con il quale siam cresciuti, mortificato sull’altare degli ascolti di Spotify che lo ha adottato per definire la nuova musica leggera italiana con il beneplacito degli addetti ai lavori a cui questo equivoco ha portato vantaggi.

Ovviamente, non si può parlare di Rap e Trap attuale, prescindendo dal mondo social. Quanto il mondo virtuale sta cambiando la musica che “funziona” in Italia? Si può ancora “sfondare” senza un account Instagram in un mondo in cui si ascolta musica sul telefono?

Sì, certo che si può, all’estero.

Proprio ieri vedevo un documentario sugli Who girato nel loro periodo d’oro. Una vita fa, in pratica. Eppure una frase mi ha colpito: “il rock non avrà vita lunga”. Siamo al 2020 e non mi pare sia ancora morto. Come si muove il mondo delle distorsioni, delle chitarre, del sudore in quest’epoca in cui un diciottenne non sa neanche cosa sia un basso elettrico? Sarà presto nicchia o può ancora dire la sua e fare grandi numeri?

Ovviamente mai più, restano le band che fanno numeri grazie a noi della Generation X, ad un millenial cosa vuoi che freghi delle chitarre, al massimo degli Oasis. Ma magari mi sbaglio e scoppia un’ondata post punk che travolge tutto, ma non credo proprio, come vedi sono solo ondate nostalgiche che coinvolgono i più grandi, i numeri parlano chiarissimo e, comunque, il rock inteso alla vecchia ha già detto la sua esaustivamente, mi pare anche naturale e mi verrebbe da dire “ma anche basta con sto ruock”, ci sono altre maniere per vivere il rock altrettanto valide.

Nello stesso documentario, sempre gli Who affermavano di alzare in maniera esagerata i volumi perchè altrimenti il pubblico non li avrebbe cagati. Insomma, non è cambiato niente da allora? Il pubblico è sempre stato così?

Sì, come detto prima, il pubblico è sempre quello e le percentuali sono anche state quelle. Solo che prima 200 era un numerone ai concerti, e adesso gli appassionati di serate altre o alternative cercano i numeri delle discoteche perché figli del concetto di “sold out”, altrimenti dopo una serata da 200 persone diranno che “non c’era nessuno”. Ecco, per me un club perfetto e una serata perfetta non devono avere più di 350 persone dentro, 500 se proprio luogo stupendo e venue ad hoc (parlo di club ovviamente e non di festival, dove azzardo una venue di max 3000/4000 persone all’aperto).

Parliamo di attualità. Dacci due nomi che non conosciamo e che dovremmo tenere d’occhio. Dicci anche perché, magari.

Duemila nomi casomai. Chiedete in privato o pubblicamente su Facebook o Instagram o ovunque e posso spendere la mia giornata a parlare di band nuove. In ogni caso ho uno Spotify molto attivo, sebbene adesso sono impegnato a realizzare delle playlist dei primi venti anni del nuovo millennio, ovvero 21 playlist di cento canzoni divise per anno di uscita dal 2000 al 2020, che ho deciso di realizzare per la mia memoria che cede ogni giorno di più. In ogni caso direi DayWave (Crush miglior singolo romantico dell’anno) e Jadu Heart (che spingo da anni in bacheca, miglior album pop per ascolti da Gen-X.

Nelle tue esperienze tra consolle, festival, dirette streaming, quali sono la cosa più bella e la più brutta che ti sono capitate?

La cosa più bella ai festival gli applausi collettivi, né prima e né dopo, ma durante il set, spontanei durante un pezzo che va. Ad Ypsigrock mi è capitato più volte nei decenni e più volte mi sono commosso letteralmente. La cosa più brutta accade ogni volta che un ragazzo o una ragazza che ti vedono mettere musica in un baretto o davanti ad un baretto non capiscono che la tua è una scelta e non una condizione “sfigata”. Mi spiace soprattutto per il luogo che decide di darmi spazio perché “non ritenuto all’altezza” evidentemente, quando in realtà ha molta più dignità di tutti quei lidi che sono niente altro che macchine da denaro sulle persone annoiate, passive e che amano il divertimento grasso e spicciolo.

All’estero, ma non solo, la cultura LGBT sta influenzando notevolmente la musica. Credi sia un bene, anche sotto l’aspetto creativo o c’è il rischio che anche questo tema finisca per essere standardizzato, omologato e banalizzato dal mercato?

BENE, BENISSIMO, TUTTA LA VITA, SEMPRE. NON DOVREBBE NEANCHE PORSI UNA DOMANDA DEL GENERE, NEANCHE IN QUESTI TERMINI.

Cosa dovrebbe accadere di tanto grave per farti smettere di fare il dj?

Passarmi la voglia di farlo.

Rock ed elettronica. Nati come nemici, si sono spesso incontrati e, tutto sommato, non c’è mai stata la definitiva resa dei conti preannunciata da chi non credeva nella coesistenza dei due mondi. Di rock parliamo e se ne parla tanto. L’elettronica invece? Come credi se la stia passando? È un periodo d’oro, di merda o di mutamento per il genere (nella sua più ampia accezione)?

Erano nemici prima che la comunità LGBT tra i settanta e gli ottanta non decidesse di far da collante. Se la passano tutti discretamente bene. Ho solo paura che se la passino benissimo e che lo scopriremo con le uscite compulsive alla fine del Covid, dato che un enormità di artisti ha il disco della vita chiuso nel cassetto da due anni e non lo fa uscire aspettando che passi tutto.

Come siamo arrivati al reggaeton? Perché? Cosa abbiamo sbagliato?

Nulla. Siamo solo arrivati al reggaeton.

Senza entrare nel merito di quanto accaduto, qualche tempo fa hai avuto un duro scambio di battute con amministratori e utenti di una pagina Facebook che ti aveva preso di mira. Come diavolo si sopravvive al mondo virtuale, se siamo costretti per lavoro a starci dentro? Credi che manchi una seria regolamentazione che metta freno all’anarchia d’opinione del web, o sta al singolo imparare a muoversi al suo interno magari comprendendo le differenze con la realtà?

Consiglio di vedere The Social Dilemma, il docufilm di Netflix per capirne di più. Dei gruppi pseudosimpatici dove si mette in mezzo un essere umano e lo si offende in mille secondo le regole del branco è pieno internet. Ma loro rimangono dei fasci di merda sotto mentite spoglie e io una persona che ama altri tipi di valori.

Non posso che ringraziarti e farti i miei auguri per la tua vita. Che progetti hai per stasera, per quest’anno e per il resto della tua vita?

Direi prossime ore, mi pare eccessivo fare progetti a lungo termine. Progetti ce ne sono, sempre, vedrete, saprete, pieni anche di chitarre, ma anche di ritmi.

Ultimissima “domanda”… Regala un vaffanculo a chi vuoi tu, se qualcuno che se lo merita c’è.

Mi trovi in una fase della vita in cui ho fatto della calma un’arte. E poi basta la frustrazione e la rabbia sui social, appunto. Vorrei regalare un abbraccio a tutti, che suoni forte come un concerto degli Who, dato che mi par di capire ti piacciano tanto (un giorno ti farò vedere uno Stereo 8 di Quadrophenia che ho trovato anni fa, mai aperto, ancora incellofanato).

Buon tutto a tutti e buoni dischi, sempre.

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Last modified: 18 Novembre 2020