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Fast Listening | Aprile 2015

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Daniel Knox – Daniel Knox  (Alt Pop, 2015) Voto 7/10

Terzo bellissimo lavoro per il trentacinquenne di Chicago che dopo l’ottimo esordio Disaster del 2007 e il successivo altrettanto valido Evryman for Himself è chiamato a confermare il suo talento centrando l’obiettivo quasi completamente. Pop da camera, barocco e orchestrale che disegna il volto di un’America sofferente.

Tobias Jesso Jr – Goon (Songwriter, 2014) Voto 6,5/10

Dopo le più innumerevoli vicissitudini negative, personali e artistiche, sembra giunto il momento del riscatto per questo giovane musicista di Vancouver, qui al suo esordio solista. Un album intenso, ricco di spunti, non senza qualche ridondanza ma che fa ben sperare per il futuro.

Ovlov – solo (Alt Pop, 2015) Voto 6,5/10

La presenza del bassista degli Smiths Andy Rourke nelle vesti di direttore artistico e produttore pare essere da sola garanzia di validità del prodotto. Il nuovo album del power trio bresciano prende effettivamente le distanze dal Rock diretto, immediato, dell’esordio scegliendo una strada più introspettiva e complessa. Nel risultato, solo è un album convincente solo a metà, specie nei suoi passaggi più Wave ma che non riesce a togliersi di dosso quella sensazione di deja-vù. Da segnalare la presenza di Xabier Irondo (Afterhous) al basso in “Fall Down”.

BeWider – A Place to Be Safe (Pop Orchestrale, Alt Pop 2015) – 6,5/10

Quando partono le prime note (“Following the River Flow”) di questo Ep d’esordio del compositore Piernicola Di Muro, grazie anche alla bellissima voce di Francesca Amati, non si può che restare affascinati gonfiandosi della speranza di aver finalmente scovato nel panorama italiano qualcosa che sia davvero di portata internazionale. Tuttavia, nei cinque brani che seguono, tutto il pathos iniziale finisce per sfaldarsi in una varietà stilistica che se da un lato fornisce una miriade di spunti dall’altro non garantisce la giusta omogeneità. Dall’Elettronica classica si passa al Dub, fino al Trip Hop per la gioia di chi si annoia facilmente.

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Showstar – Showstar

Written by Recensioni

Il quarto album omonimo (che ipotizzo possa essere presto rinominato Sorry no Image Available, causa copertina, come accaduto per il self titled dei Kyuss) traccia il vero punto di non ritorno per la band belga, ormai attiva dal 1996 e che mai è riuscita davvero a persuadere il pubblico, a partire dall’esordio We Are Ready del 2003. Un transito tanto importante per Chris Danthinne (voce e chitarra), David Diederen (chitarre), Antoni Severino (basso e voci) e Didier Dauvrin (batteria) quanto in linea con le produzioni precedenti e che continua a perseguire la strada disegnata dal Jangle Pop degli Smiths seppure con un’attitudine Indie moderna e fresca, in contrapposizione alle liriche talvolta crude, disincantate e non troppo raggianti (“lavora, lavora, lavora fino alla morte”). In tal senso, non si potrà certo confutare una discreta crescita compositiva nell’ultimo lavoro targato Showstar, una maturità che ha reso le dodici tracce vagamente encomiabili e credibili pur se gonfie di innumerevoli similitudini e rimandi.

Shoegaze il più pulito possibile, veloce e danzereccio (“Adults”, “Casual”) si miscela al già citato Jangle Pop di morriseyana memoria (“Nightbird”), di tanto in tanto squarciato da falsetti che vanno dai Beach Boys ai più vicini Everything Everything (“Casual”). Chitarre taglienti scuola Parts & Labor (“Mistakes on Fire”, “Rumbling”), ritmiche cadenzate (“Rumblings”) e un sound che, inevitabilmente, tanto deve ai mitici Stone Roses (“Mistakes on Fire”, “Rumblings”, “The Trouble Is”, “Full Time Hobby”, “(I Wish I Was) Awake”) al quale si aggiungono brani dalle melodie più dirette e insistenti (“The Liar”) e altri lampi più intimi (“Follow me Follow”) che sanno trasformarsi in vere bombe soniche (“Happy Endings”).

Non aggiunge molto al suono degli Showstar la voce di Angela Won-Yin Mak che si affianca a Chris Dantinne in “Smile. No”. Showstar è disco della maturità, lo era fin dalle premesse ed in parte lo conferma l’ascolto, eppure non può essere considerato un vertice dentro una discografia tanto piatta. A tratti banale, ripetitivo, ridondante, anche troppo gelatinoso nella sostanza, è l’ennesimo buco nell’acqua di una band alla quale non è il caso di chiedere di più.

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Television al Sexto’nplugged di Sesto al Reghena (PN)

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MARQUEE MOON – “Full Electric Show”
MARTEDI 5 AGOSTO 2014
SESTO AL REGHENA (PN) – PIAZZA CASTELLO
Ingresso: 20,00 euro + dir prev
Prevendite: www.vivaticket.it – www.mailticket.it
Apertura biglietterie ore 19:30
Apertura porte: 20:00
Inizio concerto: ore 21:30

I Television, una delle band più innovative della scena underground della New York di metà anni 70, tornano in Italia per un unico concerto imperdibile dove riproporranno in versione integrale quello che è considerato il loro indiscusso capolavoro Marquee Moon. Un disco seminale che ha marchiato a fuoco l’epopea New Wave ed ha influenzato moltissimi artisti dai Joy Division agli Echo & The Bunnymen, dai Cure a Siouxsie and the Banshees, fino agli Smiths e Interpol. Un’occasione unica per rivedere dal vivo Tom Verlaine, Billy Ficca e Fred Smith accompagnati dalla leggendaria chitarra di Jimmy Rip, già al fianco di Mick Jagger e Jerry Lee Lewis.

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Nicolò Carnesi, parte il tour da Milano!

Written by Senza categoria

Il cantautore siciliano torna il 1 aprile con il nuovo album intitolato Ho una Galassia Nell’Armadio – anticipato dal singolo “La Rotazione” nelle radio da questa settimana – e parte per un primo tour nei club delle principali città italiane, che verrà inaugurato al Magnolia di Milano il 3 aprile per toccare poi i principali club italiani.
Nicolò Carnesi, palermitano classe 1987, risulta da sempre sfuggevole alle etichette: troppo riduttivo definirlo un cantautore, troppo semplice dare una sola chiave di lettura alle sue canzoni. Brani che mischiano Folk, Pop e New Wave, che frullano i Flaming Lips e gli Smiths con Planck e la meccanica quantistica, che studiano il complesso rapporto tra l’universo e ogni singolo uomo, tra il grande e il piccolo. Canzoni d’amore, ma non solo, canzoni che guardano in tutte le direzioni e che Nicolò aveva così chiare in testa da volerle suonare tutte da solo strumento per strumento (con la preziosa collaborazione in regia di Tommaso Colliva), ad eccezione di inserti mirati. E gli ospiti sono pesi massimi come Roberto Angelini, Antonio Di Martino, i Selton e Rodrigo D’Erasmo. Così le dieci tracce che compongono Ho Una Galassia Nell’Armadio uniscono una scrittura più rifinita e matura ad uno studio certosino dei suoni, con un uso maggiore di elettronica e di synth rispetto al passato, come testimonia il primo estratto “La Rotazione”, piccolo grande e doloroso gioiello pop che si muove tra Palermo, Milano e New York e che racchiude le parole con cui Nicolò, dal primo momento, voleva concludere il disco: “E c’è da qualche parte un amore che uccide gli inverni, e c’è da qualche parte un universo dove non si odia mai”.

Prossime date del tour:
03 aprile: Milano @ Circolo Magnolia
04 aprile: Conegliano (TV) @ Apartamento Hoffman
05 aprile: Montevarchi (AR) @ Auditorium Comunale
19 aprile: Catania @ La Lomax
25 aprile: Palermo @ Candelai
30 aprile: Messina @ Retronouveau
01 maggio: Andria (BT) @ “May be” Officina san Domenico
02 maggio: Santa Maria a Vico (CE) @ SMAV
08 maggio: Bologna @ Locomotiv
09 maggio: Firenze @ Tender Club
10 maggio: Foligno @ Supersonic Sonic Music Club
14 maggio: Padova @ Macello
22 maggio: Roma @ Blackout
24 maggio: Salerno @ Palazzo Fruscione (Rassegna linea d’ombra)

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Built to Spill

Written by Live Report

Ci ho messo parecchio a compilare questo report, me ne rendo conto. Non è tanto questione di tempo a disposizione, quanto di riordinare le idee che un concerto ti dà, in un determinato contesto e in un dato periodo della tua vita. Non che i Built to Spill siano il gruppo della mia vita, sono andata al concerto più che per curiosità che per fanatismo o ammirazione, ma la band sa muovere certe corde e se sei in un mood un po’ blu, è fatta. Il sound cupo, rumoroso in modo controllato ed elegante della band di Doug Martsch risuona nel parco del Circolo Magnolia davanti a pochissime persone (pochissime rispetto a quello che mi sarei aspettata, l’area davanti al palco era zeppa di gente, ma pur sempre di dimensioni molto contenute): il concerto si apre con “Goin’Against Your Mind” e insomma, il mio scazzo non sarebbe migliorato affatto. Martsch è nevrile nel modo di cantare, saldo davanti al microfono, un fascio di nervi: crede ad ogni parola che dice e questo rende il messaggio molto più immediato.

Il pubblico è molto attento, silenzioso, concentratissimo. Sembra un concerto d’altri tempi o pare di assistere a un vaticinio. I suoni non sono sempre pulitissimi, forse colpa della location: troppe acute che disturbano. Dopo “In The Morning”, “Revolution” e “Centre of the Universe” ho già le orecchie bollite. I Built to Spill non vantano chissà che presenza scenica, parlano pochissimo, si limitano a ringraziare, in italiano, quando si ricordano. Ma non è certo quel tipo di comunicazione che ricercano, né quel tipo di comunicazione che vuole il loro pubblico. Dopo l’intensa “Get a Life” la scaletta per me scorre abbastanza placida (“Heart”, “Strange”, “Sidewalk”, “Joyride”), fino a “I Would Hurt a Fly” che mi risveglia dalla trance mistica della confusione scazzo-depressiva che mi stavo portando addosso e mi fa godere della bella esecuzione di “Else”, “Fuck 2006” e della mia preferita, “Carry The Zero”. Una bella esecuzione, sì, per quanto Martsch non ce la faccia vocalmente più da almeno cinque canzoni: le frasi vengono troncate prima di quando avrebbero dovuto essere, come se mancasse il fiato e i falsetti sono addirittura stonati in più riprese.

La band rientra per un encore inaspettato e mozzafiato: sta suonando da più di un’ora e mezza consecutiva e se ne ritorna sul palco per lanciare due rivisitazioni molto personali e molto coraggiose di “How Soon is Now” degli Smiths e di “Age of Consent” dei New Order. Qualcuno neanche se ne accorge, qualcuno si gasa per la prima volta dopo un concerto molto intimista, essenziale, impreciso in più punti ma fondamentalmente molto buono per quanto riguarda l’intensità emozionale. Se non ci siete andati, non è che avete perso gran cosa a livello puramente tecnico-compositivo, però avete mancato l’occasione di vedere che la musica è ben altro che note pulite, precisione, grandiosità scenica. E un po’ secondo me ce lo si dimentica che il live è più pancia che dita veloci e frasi a effetto lanciate dal microfono.

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Babyshambles – Sequel to the Prequel

Written by Recensioni

Siamo negli anni Zero, il Rock sembra veramente morto dal lontano cinque aprile 1994 dopo quel fatale colpo di fucile che spappolò una delle menti più geniali di tutti i tempi; critici e pubblico gridano “rivoluzione” con l’uscita di Is This It degli Strokes guidati da quel finto rocker sbarbatello che è Julian Casablancas.In contrapposizione, dalla terra d’Albione, spunta un giovanotto dai denti marci, il colorito cirrotico ma con un gusto per il glamour che non lascia indifferenti: lui è Peter Daniell Doherty insieme ai suoi Libertines. Lanciati e prodotti dal grande Mick Jones ebbero un impatto fortissimo sui giovani londinesi e su di me, con le loro divise da guardie reali, completamente strafatti ma capaci di partorire un sound a metà tra Clash e Smiths.

Fu solo un abbaglio, un flash, come uno stupefacente che regala quell’attimo di onnipotenza per poi lasciare ancora più vuoto e insicurezza di prima. Questo è Pete Doherty e la sua arte è inscindibile dal suo stile di vita, dalla tossicodipendenza e dai suoi tormenti da moderno bohemien fuori moda; personaggio controverso che finisce per diventare, a distanza di dieci anni, la parodia di se stesso accettando di partecipare a un reality di tossicodipendenti per la tv inglese dove sforna consigli su come risalire la china ma è pronto, subito dopo, a consumare l’ennesima dose con il compenso ricevuto dalla partecipazione allo show.

Ma qui si sta parlando di musica e di Sequel to Prequel, nuovo album dei Babyshambles che tornano sulle scene dopo un gran brutto periodo (Doherty, Mick Whitnall e Drew Mcconnell hanno avuto un incontro ravvicinato con la morte; i primi due per droga, il bassista in un incidente stradale) con un lavoro paradossalmente solare e autoironico che racconta con leggerezza la loro condizione di disperati ed è forse proprio questo atteggiamento beffardo ad aver salvato Pete Doherty da se stesso e dal buio che si era creato intorno. Prodotto dall’inglese Stephen Street, maestro del Brit Pop, (per intenderci, lo stesso che ha lanciato Blur, Smiths e Cranberries) il disco parte con “Fireman” piccolo capolavoro Punk Rock sgraziato e trascinante come solo il nativo di Hexham riesce a confezionare seguita da “Nothing Comes to Nothing”, ballata Pop melensa e dal sicuro successo commerciale. I brani successivi s’infilano uno dietro l’altro senza particolare grazia, senza distinguersi particolarmente, generando sbadigli e noia fino a “Dr. No” interessante esplorazione nel Reggae più fumoso e bianco. Da citare “Picture me in a Hospital” piccola gemma Folk che rafforza un dubbio atroce che mi porto dietro ormai da anni: Pete Doherty è un poeta o un pagliaccio?

La scelta d’inserire nel disco delle bonus track non risolleva di certo le sorti dei nostri redenti squatter a parte la deliziosa “After Hours”, pretenziosa cover dei Velvet Underground. In sostanza questo lavoro non propone nulla di nuovo rispetto al solito repertorio di Doherty nonostante McConnell abbia fornito un contributo notevole alla realizzazione dell’album, soprattutto nella scrittura dei testi. Alla prima presentazione Doherty si è mostrato con ben novanta minuti di ritardo, insomma, siamo alle solite: di nuovo con una bravata da inguaribile tossico o è l’unico modo per destare l’attenzione del pubblico?

Beh caro Pete, è evidente che la seconda ipotesi è la più veritiera, e ti dico con sincerità che è molto più poetico vedere su You Tube il video in cui canti spensierato per le strade di Bratislava. Inoltre, potresti anche pensare di prenderti una pausa e rinchiuderti in un centro di riabilitazione in modo da schiarirti un po’ le idee.

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JOHNNY MARR: TRE DATE IN ITALIA A LUGLIO

Written by Senza categoria

Johnny Marr, uno dei musicisti più rilevanti e noti della storia della musica contemporanea che col suo suono di chitarra ha indelebilmente segnato un’epoca, arriva in Italia per presentare il suo primo album solista, The Messenger, uscito nel febbraio 2013.

L’ex chitarrista degli SMITHS, dopo aver pubblicato recentemente il suo primo album da solista THE MESSENGER
per WARNER BROS. RECORDS/AUDIOGLOBE, sarà in Italia per tre imperdibili date:

lunedì 01 LuglioMILANO
Ippodromo del galoppo – CITY SOUND (special guest di THE NATIONAL)
Via Diomede, 1 20151 Milano
ingresso: 30 euro+d.p.
Inizio concerti: ore 20:00
Prevendite disponibili

 

martedì 02 LuglioBOLOGNA
Bolognetti Rocks 2013 Rocker Festival
Vicolo Bolognetti, 2 40125 Bologna
Biglietti: 15 euro + d.p.
Prevendite attive dal 06 maggio

mercoledì 03 LuglioANCONA
Spilla Festival 2013
Corte Mole Vanvitelliana, Banchina Giovanni da Chio, 28  60121 Ancona
Biglietti: 20 euro + d.p.
Prevendite attive dal 06 maggio

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