Robert Wyatt Tag Archive

Chi suona stasera? – Guida alla musica live di maggio 2018

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New Order, Angel Olsen, Father Murphy, Yo La Tengo, June of ’44… Tutti i live da non perdere questo mese secondo Rockambula.

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Recensioni #14.2017 – Visionist / Angelo Sicurella / Courtney Barnett & Kurt Vile / Julien Baker…

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The Winstons – The Winstons

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I The Winstons sono un trio formato da Enro Winstons (tastiere, fiati, voce), Rob Winstons (basso, chitarra, voce) e Linnon Winstons (batteria, tastiera, voce). Trattasi di un rockettaro, ma pur sempre amorevole, papà e dei suoi pargoletti? O forse di 3 giovani capelloni scapestrati conosciutisi in un college, magari a sud-est di Londra, che scoprendo di portare lo stesso cognome e strimpellare 3 diversi strumenti decidono di metter su un gruppo per far baldoria insieme? No, niente di tutto questo, almeno in parte, perché dietro ai nomi sopra citati si celano le figure di 3 rappresentanti di razza della musica italiana degli ultimi anni: Enrico Gabrielli (Enro), Roberto Dell’Era (Bob) e Lino Gitto (Linnon), vero però è che soprattutto a sud-est di Londra il trio tende lo sguardo, alla Canterbury dell’indimenticabile decennio 65-75, e trattandosi dunque di Progressive era pressappoco impossibile che ad occuparsi di loro non fosse che la AMS Records, casa discografica molto attenta al presente come al passato di questo genere musicale. Il disco si apre con “Nicotine Freak”, brano scelto anche come singolo ad anticipare l’uscita dell’album, scelta più che condivisibile poiché si tratta di uno dei pezzi migliori del lotto ed è capace di rendere da subito chiare le intenzioni del trio. La voce, seppur meno emozionale, richiama a Robert Wyatt, il lavoro sulle armonizzazioni vocali è più che buono e musicalmente “Nicotine” suona come un Progressive che col passar del tempo diviene sempre sempre più freak. Si prosegue con brani che pur conservando sempre una matrice Progressive e Psichedelica si muovono in diversi territori, passando da brani più jazzati (“Diprodton”, che porta in realtà un titolo giapponese) a caldi saliscendi Pop (“Play With the Rebels” e “She’s My Face”) senza lasciarsi sfuggire neanche atmosfere più cosmiche (“…On a Dark Cloud”) o colorazioni in parte più scure e robuste (“Dancing in the Park With a Gun”). I 3 Winstons si muovono piuttosto agevolmente tra tutti questi territori ed il disco scorre via piacevolmente, ma senza picchi in grado di regalare quelle vibrazioni, quelle sensazioni, capaci di rendere grande un album o comunque una canzone, e purtroppo nel trittico finale (trittico per chi li ascolterà su CD, MC o in streaming, poiché nella versione in vinile “Number Number”, altra canzone che in realtà porta un titolo giapponese, e che probabilmente risulta essere la migliore delle 3, non sarà presente) il trio mi sembra soffrire un po’ di manierismo, non la migliore delle sofferenze per chi propone questo tipo di sound. Ai nostri, qua e là supportati anche dall’immancabile Xabier Iriondo e dalla tromba di Roberto D’Azzan, va il merito di ricordare molti ma di essere uguali solo a sé stessi, durante l’ascolto oltre al già citato Robert Wyatt, non sarà difficile trovare influenze dei Gong come dei Beatles, di Kevin Ayers come dei primissimi Pink Floyd e molto altro ancora risalente al già citato decennio dal quale gli Winstons sembrano provenire e non solo amare e celebrare, o prendere a pretesto per sfornare un disco. Il trio suonerà live in lungo e in largo per l’Italia per tutto il mese di Gennaio (e non è da escludere vengano annunciate nuove date in seguito), consiglio agli amanti del genere di selezionare la data più vicina a casa propria e non mancare all’appuntamento, credo che dal vivo gli Winstons possano regalarci belle sorprese essendo ancor più liberi di poter suonare free.

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InSonar/Nichelodeon – UKIYOE (Mondi Fluttuanti)

Written by Recensioni

Ogni volta che ci si prepara all’ascolto di qualcosa che sia stato forgiato dalla feconda e geniale mente di Claudio Milano, il sole della galassia InSonar/Nichelodeon, si ha sempre un po’ di riverente riguardo che non spinge istintivamente a pigiare il tasto play per far decollare le sue note. Sai che quello che ti aspetta sarà un lungo viaggio, intenso e profondo che ti travolgerà, volente o nolente, in un’esperienza che solo alla fine capirai in che misura incantevole, sulla base di quanto ti sentirai una persona migliore o meno. Serve del tempo per ascoltare, guardare, leggere, provare nel profondo del cuore tutto quello che è racchiuso in questo UKIYOE (il significato letterale è proprio mondi fluttuanti e si riferisce ad una cultura e conseguentemente un tipo di stampa nipponica) e proprio la necessità di tempo da dedicare all’arte è la peculiarità primaria che rende le opere targate InSonar/Nichelodeon quanto di più distante dall’universo musicale/commerciale attuale, dove le band durano il tempo di passare dalla neve al sole e i brani si metabolizzano come jingle pubblicitari. Questa disuguaglianza è la grande forza degli Insonar/Nichelodeon ed anche il colossale limite che forgia il destino di Milano dentro la gabbia senza sbarre della nicchia underground.

L’ultimo mio approccio con i Nichelodeon risale allo scorso anno, in occasione dell’ascolto di L’Enfant et le Ménure/Bath Salts che fu per me anche l’occasione di conoscere l’altra creatura nata dalla mente di Milano, gli InSonar, ormai diventati una sorta di gemello siamese del più noto progetto Avant Prog. Si trattava di un lavoro enorme, sia come durata (quattro i dischi che lo compongono) sia per energia; un album che mi trascinò per mesi e che, ancora oggi, mi divora lo spirito in quei giorni in cui la consuetudine non basta. Quel disco, che fu l’apice di tutti i miei ascolti di quell’anno, è diventato indiscutibilmente la pietra di comparazione per ogni altra realizzazione di Claudio Milano, che si parli delle fatiche precedenti o di quelle future, il punto massimo che probabilmente mai si potrà valicare. Proprio in quest’ottica, vado dunque ad approcciarmi al nuovo UKIYOE, cercando di tralasciare, per quanto possibile, gli aspetti formali e biografici che ormai dovrebbero essere noti a tutti o che altrimenti v’invito a ricercare negli antecedenti scritti inerenti al nostro Milano. L’opera (in uscita a novembre per Snowdonia), come spesso accade, non si limita a una proposta uditiva e, come per il precedente prodotto, si mostra come una raccolta di stelle, ospiti più o meno noti ma comunque tutti d’importanza capitale in ambito sperimentale e vocale. Troveremo dunque la complicità di OTEME, Deadburger Factory, Garden Wall/Genoma, dei compositori Josed Chirudli ed Erica Scherl, di alcune tra le più grandi voci italiane del momento come Dalila Kayros, Stefano Luigi Mangia, Laura Catrani e tanti altri. Il punto di partenza dal quale tutto muove, il concept attorno al cui orbitano parole, musica, disegni e immagini, è il mare con i suoi movimenti, la costruzione e la distruzione della forma qui trasformata in sostanza materiale attraverso il lavoro di Milano che ha condotto i diversi arrangiamenti dei tanti compositori, assegnando in studio a ognuno un canale, alzato e abbassato in maniera improvvisata per comporre una struttura sia consistente, sia luminosa, alternativamente.

Prima di passare alla musica, merita attenzione l’artwork del digipack, realizzato con le illustrazioni dello stesso Milano. Disegni splendidi, gonfi di colori freddi che si mischiano a immagini confuse creando una specie di fusione tra un mondo reale, dato dalla solidità apparente della terraferma delle umane certezze, e uno formalmente illusorio dato dalla fluidità della coscienza, dal mare e da tutti quei movimenti dell’animo che esso inevitabilmente genera e che l’hanno reso il protagonista di una vastità di opere letterarie divenute capisaldi anche della nostra personale formazione culturale e umana, da Proust a Melville, da Conrad a Hemingway. Dopo aver goduto delle illustrazioni che ho potuto apprezzare anche nel formato originale, si passa all’altro elemento non prettamente musicale dell’opera. Il Dvd che affianca il disco è un breve film del regista d’avanguardia Francesco Paolo Paladino, promotore del progetto e finanziatore dello stesso. Quickworks & Deadworks, questo il titolo, affronta lo stesso tema partendo dalle inquietudini che l’atmosfera marina suscita, ovviamente con l’aiuto della musica degli InSonar/Nichelodeon. Le fotografie del film, della durata di circa mezz’ora, saranno le stesse che, mescolate alle illustrazioni, comporranno l’artwork. Una piccola nave spiaggiata ai piedi d’un bosco, una voce fuori campo che descrive il momento, due coppie, una di giovani vestiti di bianco, una di adulti in nero, si allontanano dall’imbarcazione, avvicinando l’obiettivo. Si ritrovano su una terrazza. La telecamera è fissa e riprende il quadrato nel quale i quattro sembrano idealmente imprigionati. I giovani chiacchierano allegri sul parapetto, gli adulti, preoccupati e quasi disperati, sono seduti alle sedie d’un tavolino. I loro mondi paiono distanti ma con il passare del tempo, il salire del vento, quei mondi finiranno per collimare.

A questo punto approdiamo alla parte musicale, ai sei brani che compongono i mondi fluttuanti qui dipinti. Come i più attenti seguaci del verbo Nichelodeon potranno immaginare, oltre alle sette ottave donate dalla voce di Milano, il tutto si compone di una marea infinita di strumenti e musicisti. Violino, violoncello, arpa, viola, clarinetto, sax, voci di ogni tipo, chitarre di ogni tipo, elettronica, le più disparate percussioni anche non convenzionali e tantissimo altro. Scegliere dei punti di riferimento precisi è difficile. Si citano da Robert Wyatt all’accoppiata Nico / Cale, dagli Swans recenti di The Seer a Henry Cow, da Fausto Romitelli a Scott Walker, passando per David Sylvian, Kate Bush, Radiohead, Liars, Ulver, Carla Bozulich, Tim Buckley, Burial, Nine Inch Nails, Tool, Joy Division, Dead Can Dance, Current 93 e tantissimi altri. Talmente numerosi che pare di aver detto tutto che è un po’ come non dire niente. Perché alla fine non mente Milano quanto indica tutti questi come punti di riferimento; in fondo, ogni album che un musicista ascolta nel profondo fino a farlo veramente suo, finisce per costruire anche un solo piccolo frammento della personalità di quell’artista e, inevitabilmente, ogni pezzettino di sé andrà a costruire in un modo o nell’altro, ciò che poi è il risultato del suo estro. Tuttavia non lasciatevi ingannare da questi nomi. Le sperimentazioni di Claudio Milano solcano gli stessi mari già attraversati in precedenza. Dunque sarà la Modern Classical a farla da padrone, sullo sfondo di una voce sempre tesa tra melodia e sperimentazione (“Veleno”) o ancora le reminiscenze da scena di Canterbury (“Fi(j)uru d’acqua (Fiore/Figlio d’acqua)”), le tensioni nervose dell’Avant Prog (“Marinaio”), la teatralità di certo cantautorato (“Ohi ma(Nel Mare che hai dentro)”) che non disdegna di usare il dialetto per rendere al meglio certe suggestioni. “I Pesci dei tuoi Fiumi (Ezechiele 29:4; 29:5)” è forse il momento più terrificante, spaventoso e violento, certamente a suo mondo più moderno, quello che più si strappa dal passato per protendersi verso le future trepidazioni di un certo Art Pop sperimentale, enigmatico e apocalittico, quasi musica astratta se non fosse per le parole (in questo disco sempre o quasi in lingua italiana) che imprimono precise linee di demarcazione che altrimenti sarebbe impossibile seguire. Avanguardia pura che trova il suo compimento nella conclusiva “MA(r)LE”, che regalerà anche magnetismi autechriani ma dal sapore mediterraneo oltre ad un’infinità di altre immagini che spazieranno attraverso tutte le influenze suddette dei nostri, in una sorta di lungo excursus riassuntivo.

Giunto alla fine, resta l’impagabile soddisfazione di non trovarsi mai tradito da un artista che indubbiamente amo ed ho il piacere di seguire in ogni sua nuova esperienza. C’è da tornare però a valutare l’opera usando come pietra di paragone quel già citato L’Enfant et le Ménure / Bath Salts e, non posso negarlo, questo UKIYOE (Mondi Fluttuanti) non regge minimamente il confronto. Il fatto stesso che si tratti di una sorta di concept finisce per ingabbiare l’opera laddove al contrario, il quadruplo album precedente aveva il grande merito di spaziare e svariare così tanto da somigliare a quello che in letteratura potrebbe essere un capolavoro come Infinite Jest di David Foster Wallace. Qualcosa di tanto complesso eppure coinvolgente che a ogni ascolto/lettura ti pare di scoprire una parte di te, una sorta d’immaginifica bibbia emotiva personale che non rappresenta solo un momento della nostra esistenza, ma la racchiude in tutta la sua complessità. In questo nuovo album invece, tutto quell’universo è ricondotto e fuso in un unico elemento che, per quanto denso, risulta di più complessa compenetrazione. A livello prettamente formale, resta sempre eccelso il lavoro di Milano e dei suoi musicisti, sia come esecutore e cantante puro e sia come regista, coordinatore e demiurgo capace di far confluire idee e concezioni ineluttabilmente diverse in un archetipo comune e ben definito, che sappia prendere le lezioni di un passato che ha visto protagonisti nomi quali i già citati Buckley, Wyatt o Cale e, allo stesso modo, legarle con le nuove idee di mostri come Swans, Burial, Walker. Le frasi dello stesso Milano spiegano meglio di chiunque altro come si sia giunti a tanto: “sono autore delle linee melodiche e ho strutturato gli arrangiamenti, a cui pure ho preso parte, chiedendo a diversi musicisti di realizzarne una propria “visione musicale”. Nessuno è stato messo al corrente di quello che stavano producendo gli altri. Impiegando infine lo studio di registrazione come “un musicista a sé”, ho poi editato e montato creativamente i diversi arrangiamenti, come mossi dai flussi delle onde. In breve, tanta gente a bordo, due soli capitani, io e il sound designer Paolo Siconolfi. Le prime cinque copie del digipack saranno accompagnate da plaquette dell’artista Gloria Chiappani Rodichevski. Ognuna delle plaquette recherà tramite illustrazione (io ho un sistema di notazione assai pittorico su pentagramma) frequenza, altezza, durata e intensità della singola nota/sillaba che va a comporre il brano U-KI-YO-E che chiude idealmente il CD. Le plaquette saranno dunque tutte differenti e se lette una accanto all’altro attraverso l’incontro ideale dei singoli possessori, permetteranno di cantare o suonare il “tassello mancante” di un lavoro, di fatto, strutturato alla stessa maniera di un mosaico”.

UKIYOE (Mondi Fluttuanti) è un’opera immancabile e imprescindibile per ogni amante di sperimentazione vocale e non ed è in questo che sta forse l’unico grande difetto di Claudio Milano. Qualche giorno fa, stavo chiacchierando con Miro Sassolini, membro degli S.m.s. e voce storica dei Diaframma di Siberia, proprio di sperimentazione e circa l’importanza della voce dentro la musica. Quasi in maniera scontata si è finiti a parlare di Demetrio Stratos, il più grande utilizzatore di corde vocali che l’Italia ricordi, ed io non ho potuto esimermi dal tirare fuori proprio il nome di Milano. Sassolini ha confidato: “Claudio, che io stimo immensamente, ha studiato e ripercorso l’intera fase sperimentale di Stratos; forse non ce ne era bisogno. Forse bastava coglierne l’essenza ma questo è solo il mio punto di vista. Io e lui abbiamo cominciato più o meno dagli stessi territori di sperimentazione. Mentre io, però, ho seguito la strada della forma canzone, cercando sempre la melodia dentro la musica, lui ha braccato la purezza, legandosi piuttosto ai suoni, alla ricerca della complessità e alla metodologia estrema. Semplicemente abbiamo avuto diverse progettualità dettate da difformi esigenze personali”. Una verità tanto schietta quanto un po’ malinconica perché proprio questo disco è destinato a essere amato da pochi, come tutte le cose che osano troppo e la consapevolezza che, in tal senso, ci sia stato quasi un passo indietro rispetto al passato, mi getta in una triste realtà in cui pare non esserci spazio per chi ha veramente qualcosa da dire, sa esattamente come farlo eppure parla una lingua sconosciuta a un popolo troppo pigro per imparare.

*un ringraziamento speciale a Miro Sassolini per la piacevole e intensa chiacchierata sul lavoro proprio di Claudio Milano e per i suoi preziosi consigli

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La Band della Settimana: Daiquiri Fantomas

Written by Novità

“La band (Marco Barrano / Chiara Lucchesi / Dario Sanguedolce) con base a Caltagirone è nata durante una jam session estiva, nel 2010. Sotto contratto con l’etichetta inglese Blow Up Records dal 2012, i Daiquiri Fantomas danno vita alle più disparate architetture sonore, attraverso una marcata sperimentazione con l’uso di strumenti acustici ed elettronici vintage, uniti alle nuove tecnologie. Benché l’elettronica sia molto presente, il trio non disdegna l’uso di un certo humour respingendo il cliché che la musica sperimentale debba essere noiosa. Alcune delle loro influenze musicali sono Beatles, Robert Wyatt, Kraftwerk, Air.

Il singolo di debutto, “Moon Raga”, uscito nell’aprile 2013, ha un colorato sapore Neo-Psichedelico, in cui il mijwiz, un piffero mediterraneo, richiama le cornamuse celtiche. Il primo album, MHz Invasion (12 Agosto 2013) è stato suonato, mixato e prodotto dalla band in Sicilia, con un missaggio addizionale di Nick Terry ai Malabar Studios di Oslo, e il mastering di Nick Bennett al Revolution Mastering di Londra.

La Daiquiri Fantomas Live Full Band comprende anche Alessandro Barrano (batteria, percussioni, live electronics) e Daniela Parisi (tastiere, basso, percussioni).”

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Sailor Free

Written by Interviste

Intervista ai Sailor Free, band capace di creare uno dei migliori concept album ascoltato negli ultimi mesi.

Ciao. Per prima cosa, come state?
Bene, grazie.  E tu?… intendevi come band? Siamo attenti, determinati.

Cerchiamo di conoscere meglio i Sailor Free? Perché questo nome? Qual è la storia musicale della vostra band e dei suoi membri?
La storia musicale dei membri dei Sailor Free sarebbe un po’ troppo lunghina, perché siamo grandicelli. Alcuni di noi suonano insieme dalla fine degli anni ‘70. Abbiamo sempre fatto musica insieme e separatamente, di molti generi diversi, dalla world music al metal. Nel ‘91 abbiamo deciso di mettere su questa band e il nome Sailor Free nasce proprio dall’idea principale, quella di navigare in libertà tra i generi musicali, le culture, le idee.

Una carriera ventennale ma otto anni di silenzio. Coma mai una pausa tanto lunga?
Come dicevamo, il nostro rapporto, musicale e personale è molto stretto e antico. Nel periodo di pausa dei Sailor Free io ho continuato la mia attività con il gruppo di world music e un album solista nel 2009; gli altri Sailors coinvolti in band metal o in produzioni…  Ma le prime composizioni, le idee sulla storia e tutto il materiale di questo nuovo album inizia ad apparire molti anni fa.

Passiamo subito a parlare del disco. Spiritual Revolution. Siamo nel 2013 e alcuni mesi fa decidete di realizzare un lungo concept album di forte impronta progressive, ispirata ad un’opera di Tolkien. Non avete avuto paura di suonare anacronistici?
Spiritual Revolution nasce grazie alla collaborazione di un team allargato. Un percorso di collaborazione che è iniziato più di 10 anni fa. La scommessa era quella di riuscire a fare un’opera ben fatta in tutti i suoi aspetti, creativa, sincera e professionalmente ineccepibile, senza poter accedere a grandi investimenti. Grazie a questo team creativ – Nik Redian che inventa e scrive storie ed interi mondi, Terrence Briscoe che trasforma in immagini le nostre allucinazioni, i nostri fonici  Raimondo Mosci e Gianmario Lussana e tutti gli altri, che hanno aiutato e aiutano questo progetto – siamo riusciti a realizzare tutto questo. Il futuro della musica e dell’arte in generale, secondo me, è quello di recuperare sincerità, determinazione, collaborazione e condivisione. Deve tornare ad essere l’arte a muovere il mercato, non viceversa.
Se tutto ciò suona anacronistico, di questi tempi? Può darsi, ma in realtà speriamo di essere soprattutto di esempio.

Uno dei punti focali dell’opera è il concetto di energia inteso come esistenza, come intuizione della ragione e dell’anima. Allontanarsi dalle strade comuni e conservatrici per sperimentare nuove vie che possano permettere un arricchimento sociale condiviso. Concetti legati all’ideologia della Spiritual Revolution People. Di cosa si tratta?
Crediamo che il mondo sia arrivato ad un passaggio cruciale, un profondo cambiamento. Secondo noi è chiaramente percepibile. Volevamo inserire questa sensazione, questa idea nella nostra storia, che si veniva formando. Siamo incappati (circa 4 anni fa) in un sito web, Spiritual Revolution People (SRP), che non propone un’ideologia, né tanto meno una religione, ma un metodo, un percorso artistico, simbolico, per prepararsi a questo cambiamento. Ci è sembrato interessante l’aspetto creativo e artistico proposto da SRP, così abbiamo accolto il loro approccio e l’abbiamo inserito nel nostro lavoro. Siamo anche noi dei Messaggeri SRP, oramai.

Altro elemento portante è il legame con il Silmarillion di J.J.R. Tolkien. Cosa lega le due cose?
Sì, mettiamo un po’ le cose in ordine, hai ragione. Diversi anni fa abbiamo cominciato, con il team creativo, partendo dall’idea di realizzare un musical, una rock opera su uno straordinario racconto, “Beren and Lùthien”, dal Silmarillion di Tolkien. Il racconto ci conquistava per la sua straordinaria sintesi narrativa, che riusciva a toccare ed evidenziare emotivamente una quantità incredibile degli aspetti importanti della vita. Ma da questo impianto emotivo-narrativo iniziava a prendere forma un’altra storia; una storia diciamo di fantascienza, ambientata nel futuro. Uno di quei futuri che, se guardi bene, puoi già sbirciare.

Quest’opera (il Silmarillion) è stata ispirazione di tante band come Blind Guardian o Marillion. Cosa vi rende diversi, nella lettura di Tolkien?
Non so se questo ci rende diversi, ma noi siamo partiti dal racconto di Tolkien per arrivare a scrivere una storia originale, ambientata in un futuro prossimo, con i nostri personaggi e le nostre dinamiche. Non ci siamo riferiti all’iconografia fantasy dell’universo tolkieniano, ma più ai suoi contenuti spirituali, diciamo.

Da un punto di vista musicale come siete riusciti a far suonare il vostro lavoro come qualcosa di moderno e attuale partendo da premesse progressive e Psych Rock tipiche di decenni fa?
Credo sia perché non abbiamo mai smesso di fare e ascoltare musica, in questi anni. Abbiamo realizzato diversi album separatamente e, ad essere sinceri, credo che il fatto di non aver raggiunto il grande successo ci ha protetto dalla tentazione di smettere di fare ricerca per inseguire la replica di quel successo.

Un concept che parte da un’ideologia semisconosciuta, passa per l’opera di Tolkien, abbraccia diversi generi musicali molto complessi (ambient, drone music, progressive, alternative, ecc…), spazia tra le melodie, le ritmiche, i cambi di tempo spesso dentro lo stesso brano. Esiste veramente un pubblico che sappia apprezzarvi oggi in Italia? Non rischiate di essere “troppo”?
Rischio assolutamente non calcolato: noi siamo fatti così, siamo soliti riversare nella nostra musica tutti i nostri input emozionali e culturali, tentando di operare una sintesi, a volte riuscendoci, altre meno, ma sempre, speriamo, con risultati affascinanti per chi ha ancora voglia di sognare.

La vostra musica è piena di voi, della vostra personalità, della vostra anima ma ci sono molti punti di riferimento che vi possono legare a The Cult, ai Muse, ai Tool, ai Pink Floyd. Io ho notato ad esempio in “Daeron” una discreta assonanza con Robert Wyatt. Quali sono gli artisti che vi hanno maggiormente influenzato?
Ti ringrazio della premessa. Certo, immagino che ci siano influenze di tante bands importanti, magari anche alcune di quelle che hai citato o di altri; anzi, la lista delle bands e dei generi musicali è così incredibilmente lunga che l’abbiamo raccolta e riportata sui nostri siti. Innanzi tutto dobbiamo ricordarci che facciamo musica da molto tempo, ed essendo sempre stati in attività, alcuni linguaggi li abbiamo vissuti direttamente; ma la cosa credo più importante che avviene tra noi è un meccanismo da band, e le nostre diverse competenze, i nostri diversi gusti musicali, quando facciamo musica insieme, si sommano, si moltiplicano.
E’ una specie di magia…

Hard Rock, Psych Rock, World Music, Post Rock/Metal, Alt Rock, Ambient, Drone Music, Pop. Tutto dentro Spiritual Revolution. Immagino che da buoni artisti non amiate le categorie. Come far capire a un lettore allora, che musica può ascoltare con il vostro album?
E’ un disco Rock. E’ un disco che va ascoltato soprattutto con il cuore. Un disco che sa dare qualcosa in cambio. Capisco che per parlare di musica si debbano scegliere delle parole per spiegare al lettore cosa può ascoltare. Ma, secondo me, lo sforzo nel dare etichette diventa una limitazione eccessiva, per tutti. Così va a finire che le opere si assomigliano tutte un po’ troppo, no? Noi abbiamo sempre inteso la parola progressive, che spesso ci viene associata, come la si intendeva alle origini: la forza di sperimentare, non la sterile riproposizione di standard musicali esauritisi negli anni ’70. Da quei tempi ad oggi sono accadute tante belle cose nella musica, che i SF hanno vissuto e assorbito, e che si fondono con il resto nel nostro modo libero di fare musica… In questo senso sì, allora si può dire che i Sailor Free suonano progressive.

Nella mia recensione scrivo che questo “non è certo un disco che si può ascoltare con facilità e non è un disco per tutti. Ha bisogno di attenzione, tempo, buona preparazione. È l’esatto opposto di quello che la musica sta diventando”. Cosa ne pensate? L’arte può essere per tutti? E perché la musica, l’arte suprema, diventa sempre più intrattenimento per un pubblico incapace di distinguere, scegliere, capire?
Bene, nella domanda c’è già parecchio della risposta. L’arte è per tutti. Il sistema sta imbrigliando l’arte e gli sforzi artistici. Il pubblico sa quello che gli è permesso di conoscere. Se la maggior parte della gente in Italia sente le radio e guarda la televisione si abitua a sentire musica leggera, in tutte le sue forme, ed accettarla come un dato indiscutibile di realtà possibile. Purtroppo e’ una triste storia di droga. Una storia di dipendenza. Io sono ormai disintossicato. Prima ho provato a diminuire le dosi, ma non c’era niente da fare… ora, da più di due anni, ho smesso. Non ho più la televisione. E sto molto meglio, amici miei…

Cosa viene dopo Spiritual Revolution? Ci sarà un nuovo disco, magari legato a questo? Ci sarà un tour?
Ci sarà un tour, sicuramente, a partire da questa estate, e poi la preparazione di Spiritual Revoluton part 2; infatti questo appena uscito è il part 1… la storia è già scritta e stiamo completando la scrittura dei brani. Magari un giorno avremo l’occasione di raccontare questa storia musicale per intero, in uno spettacolo live.

Cambiamo argomento. C’è qualche nome nuovo che vi piace molto? Sia italiano che straniero, ovviamente.
DP: Giro la domanda a Stefano Tony, il batterista, che è sicuramente il più aggiornato di noi.
ST: Domanda da 10.000 punti! Steven Wilson è un nome nuovo? E’ già in giro da più di una decina di anni con i Porcupine Tree. Ma da quando si è convertito al progressive tira fuori dal cilindro idee molto interessanti, specialmente quando si
confronta con generi così diversi dal suo (vedi Opeth). I Tool e gli A Perfect Circle sono nomi nuovi? Ma sono creativi e onesti. E poi c’è quella dolce fanciulla (…!?) inglese che risponde al nome di Kate Bush che, con la  collaborazione di un nome nuovo alla batteria (un certo Steve Gadd, you know), disegna paesaggi innevati con la sensibilità di un Tim Burton o di… una Kate Bush di trent’anni fà!
DP: Va be’… come non detto!

Come è cambiata la musica nel corso degli ultimi vent’anni? Perché l’Italia sembra sempre un passo indietro. Colpa del pubblico avverso a chi osa o colpa dei musicisti che preferiscono non osare?
E’ un po’ chi viene prima tra l’uovo e la gallina… Diciamo che una catena peccaminosa, che porta sempre più giù, ormai è partita, e da tempo: meno i musicisti rischiano, meno la gente compra musica o la vive live, e meno prove si fanno, e meno ti pagano i club e i giovani con i contest e giù fino all’inferno di x-factor… Ahhhh!!!
Qualcuno deve puntare i piedi e cominciare, con fiducia e fatica, la risalita. E dato che non immagino manifestazioni di pazza del pubblico che chiede più impegno ai musicisti, mi sa che tocca ai musicisti riprendere il coraggio di osare.

Che ne pensate del crowdfunding?
Fantastico! Condivisione. Può diventare una vera rivoluzione, con il tempo. E’ un modo intelligente per saltare i passaggi del grande profitto, che non va a vantaggio né di chi fruisce la musica, né di chi la fa. Dal produttore al consumatore, chilometro 0, insomma. Noi sicuramente useremo anche il crowdfunding per produrre il nuovo album.

L’arte è prostituzione, diceva Baudelaire. Si può (soprav) vivere oggi, solo della propria arte?
Credo che Baudelaire intendesse prostituzione  in quanto essere estremamente donativi e intimi in cambio di un compenso, non credo si riferisse allo sputtanamento della banalità o della patetica rincorsa di un possibile successo.
Lo chiedi a me, io vivo di questo… certo che si può, oggi, vivere della propria arte; è una strada durissima e piena di tentazioni, ma si può fare. Io, nel mio piccolo, ne sono una prova vivente, no? Ma perché, le altre strade, in questo momento, sono facili? Direi di no, è un delirio ovunque, per l’arte; perciò, adesso più che mai vale la pena rischiare, fino in fondo, dando tutto… tanto è comunque difficile.

Quale è il vostro sogno di musicisti e la vostra paura più grande?
Dopo che hai fatto la tua musica, la tua ricerca, con sincerità e totalità, la cosa più importante è comunicarla, condividerla, quindi, certamente, il grande successo è il desiderio più grande. La paura più grande, come musicista, è non riuscirci.

Chi è la grande truffa dell’Indie italiano? Non risponde mai nessuno ma io ci provo comunque.
Fai bene a provarci, e fanno bene tutti a non rispondere. Eh eh… Intendo dire che stiamo già tanto nei guai che facci pure mettere l’uno contro l’altro! No, scherzo… a me non piace niente dell’indie italiano. Ma no, scherzo… A me piacciono quelli veri, che non la raccontano ma la vivono. Abbiamo da tanti anni un rapporto di stima con Dome La Muerte (ex Not Moving) adesso in giro con i suoi Diggers, ma lui non è la truffa, è quello vero.

Domanda freschissima. Visto il risultato elettorale, cosa succederà all’Italia, alla cultura e alla musica nel nostro paese?
L’Italia, secondo me, potrebbe essere il parco divertimenti dell’Europa: clima buono, natura varia e ricca, cibo e vino senza rivali, raffinati e dotati nelle eccellenze, anche industriali, siamo anche simpatici, socievoli, si può dire, eravamo di molto talento… abbiamo una straordinaria quantità di arte, antica, che va preservata… bene, ma gli italiani stanno ancora qua, non è un popolo estinto, per cui finché qualcuno non si metterà in testa che l’arte è una cosa Viva, che va nutrita e stimolata ORA, che gli artisti devono poter esistere, vivere, ora… ma nessuno parla di questo, al massimo qualcuno parla delle rovine romane. Ho incontrato un gruppo belga di rock ultra sperimentale in tournèe a spese dello stato, e non credo fossero cugini dello zio del ministro della cultura… Il risultato elettorale? Vediamo… la strada è lunghina. Se qualcosa del sistema si sfascia, io sono contento.

Ditemi quello che avrei dovuto chiedervi e non vi ho chiesto? Poi, se volete, rispondetemi.
Non saprei… forse potevi chiedermi qualcosa sulla situazione della musica Live in Italia… ma per fortuna non l’hai fatto!

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Sailor Free – Spiritual Revolution

Written by Recensioni

Ci vuole un carico di ambizione pesante come il mondo per realizzare un concept album di questa portata, soprattutto se la band che lo edifica è una formazione emergente e non un grande e noto nome del panorama alternativo mondiale. Il fulcro di questo Spiritual Revolution dei Sailor Free è il concetto di energia inteso come esistenza, dinamismo, spirito creativo, mezzo di progresso collettivo. Interpretato come fulgore, ardore, sostegno, fluttuazione e potenza del rinnovamento. Come intuizione della ragione e dell’anima, come voglia di conoscenza. Allontanarsi dalle strade comuni e conservatrici per sperimentare nuove vie che possano permettere un arricchimento sociale condiviso e di grado superiore cosi da ridistribuire correttamente l’energia. Il punto di partenza dell’intera opera, la fonte d’ispirazione, è il Silmarillion di J.J.R. Tolkien (Il Signore Degli Anelli, The Hobbit). L’opera è essa stessa base dei capolavori di Tolkien ed è il fondamento di tutto il mondo creato dall’autore, una sorta di Bibbia che racconta la genesi e la vita di una realtà parallela e/o futuristica, un cosmo che non esiste se non nella sua mente e in quella dei suoi lettori. Tale testo, forse non molto noto al grande pubblico, è in realtà spesso stato punto di partenza per diverse band (Blind Guardian, Marillion) che hanno trovato nelle parole del grande autore britannico l’ideale guida per la ricerca e lo sviluppo delle loro necessità compositive. La storia, volendo riassumerne gli aspetti per noi più utili, narra l’amore tra due entità, particelle disperse di due universi, le cui traiettorie finiscono per intersecarsi per via della loro attrazione, finendo per generare un’immediata fusione. Da tale aggregazione vi è una nuova nascita che li porterà in un creato alla deriva del quale si trovano obbligati a cambiarne le sorti, attraverso la conoscenza da condividere in maniera osmotica con l’umanità tutta, alla ricerca del benessere comune e non del personale appagamento dei singoli. Partendo da queste premesse, avrete capito che si tratta di un disco complicatissimo ed effettivamente lo è, anche sotto l’aspetto prettamente musicale. I Sailor Free scelgono un modo di fare musica caratteristico di decenni addietro, gli anni del progressive e della psichedelia, ma riescono a portare quest’idea di componimento in età moderna fondendo elementi propri del passato con le caratteristiche del rock alternativo moderno. La loro opera diventa il punto più alto di una carriera ventennale e il risultato di otto anni di assenza dalle scene. Spiritual Revolution è un lavoro colossale e mastodontico che si può definire come il manifesto musicale di un nuovo modo di pensare (vedi Spiritual Revolution People). Dentro i quattordici brani si alternano diversi movimenti, disparate melodie, un’infinità di cambi di ritmo, stili che viaggiano nel tempo, spesso all’interno dello stesso brano. La stessa “Spiritual Overture” è una serie di passaggi dall’ambient mantrico e religioso, attraverso la drone-music, a momenti di epico progressive, fino a riff taglienti e scenari psichedelici anni sessanta/settanta, per chiudersi in un Pop delicato e misterioso, grazie all’apporto del piano di David Petrosino. Non mancano pezzi in cui è la matrice Alternative Rock moderna a farla da padrone (“A New World”, “Beyond The Borders”), con sezione ritmica pulsante e chitarre acide e aggressive, cosi come non scarseggiano accenni al Rock anni ‘80/’90 stile The Cult e non solo (“The Run”, “Betray”, “The Faithless”, “Spiritual Revolution”), al Prog Rock/Metal stile Muse o Tool misto a schitarrate Hard Rock (“The Curse”, “Spiritual Revolution”, “War”).  La calma che contraddistingue alcuni brani (“Daeron”, “My Brain”) sembra richiamare alla mente anche la scena di Canterbury nella persona del grande Robert Wyatt (Soft Machine) di Rock Bottom pur non disdegnando elementi propri del Pop pre fine millennio. Innumerevoli sono gli inserti ritmici e melodici tipici della World Music (“Spiritual Revolution”) cosi come gli ingredienti psichedelici, pressoché presenti in ogni brano dell’opera ed evidenti in maniera chiara ad esempio in ”The Curse”; non mancano inoltre brani esclusivamente strumentali che mescolano un certo stile moderno di Post-Rock con psichedelia e progressive stile Pink Floyd (“The Entropia”, “Break The Cycle”). Altri elementi caratteristici, anche se meno palesi, sono gli accenni alla psichedelia post industriale che si possono ascoltare in “The Curse” o nella parte iniziale dell’introduzione. Come vi avevo accennato quindi, la complessità di Spiritual Revolution non sta solo nel fatto che si tratti di un concept che muove i suoi passi da elementi letterari e da ideologie alternative. Si tratta di qualcosa di mostruoso anche a livello sonoro con continui passaggi, anche dentro lo stesso pezzo, da uno stile all’altro, da un movimento all’altro, da una ritmica all’altra. Hard Rock, Psych Rock, World Music, Post Rock/Metal, Alt Rock, Ambient, Drone Music, Pop sono gli ingredienti di un brodo primordiale diventato paradiso terrestre. Spiritual Revolution non è certo un disco che si può ascoltare con facilità e non è un disco per tutti. Ha bisogno di attenzione, tempo, buona preparazione. È l’esatto opposto di quello che la musica sta diventando. David Petrosino (voce, piano, tastiere), Stefano “The Hook” Barelli (chitarre), Alfonso Nini (basso) e Stefano Tony (batteria) ci hanno regalato un piccolo capolavoro e di questi tempi è meglio non farselo sfuggire.

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