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Dimartino – Sarebbe Meglio Non Lasciarsi Mai Ma Abbandonarsi Ogni Tanto E’ Utile

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Non ha la carica degli Zen Circus, la simpatia di Dente, i testi evocativi di Brunori, né ti fa muovere il culo come I Cani, come lo Stato Sociale. Non cazzeggia con musica e parole come Bugo e non esagera con l’italiano come Le Luci Della Centrale Elettrica ma Dimartino ha la capacità di penetrarti l’anima con delicatezza, pazienza, come un milione di gocce d’acqua e dietro di sé lascia solo un dente di roccia come lacrime di malinconia appese a una speranza. Riesce a evocare le stesse atmosfere che si creavano a casa vostra, quando da bambini, vi capitava giocando a fare i grandi, di far partire un vecchio disco di papà, di tipi che si chiamavano Piero Ciampi, Luigi Tenco o Sergio Endrigo. Restavate lì ad ascoltare senza capire cosa avesse di speciale quella musica che vi sembrava cosi strana, noiosa, diversa da quella della radio o dei cartoni animati. Aveva qualcosa che v’incantava, ma non riuscivate a capire cosa.

Il palermitano Dimartino in realtà sotto quel nome racchiude un trio composto anche dà Giusto Correnti (batteria e percussioni) e Simona Norato (pianoforte, Wurlitzer, Rhodes, Hammond B3, chitarre acustiche, chitarre elettriche) oltre che diverse partecipazioni (Giovanni Gulino dei Marta Sui Tubi presta la sua voce in “Cartoline da Amsterdam” cosi come la più che compagna d’avventura di Brunori Sas Simona Marrazzo, Mirko Onofrio ai flauti, sax tenore e xilofono, Giovanni Azzinnari al violino, Stefano Amato al violoncello, Luigi Gallo col corno francese, Gianluca Bennardo al trombone, Paolo Costola alle chitarre di colore e per gli arrangiamenti di archi e fiati abbiamo Mirko Onofrio). Tutto questo sotto la produzione artistica di Dario Brunori e la supervisione di Matteo Zanobini. Detto questo, sembrerebbe di trovarsi di fronte ad un supergruppo ma non è cosi perché Dimartino significa cantautorato italiano del tipo più classico. Quello che conta è, infatti, l’atteggiamento, il modo di proporsi e di creare. Uno spirito che inneggia alla tradizione della nostra musica ed ha spinto lo stesso songwriter ad abbandonare il nome Famelika, sua vecchia band, di cui hanno fatto parte anche i suoi due soci, per l’attuale, più intimo Dimartino appunto.  Il secondo lavoro della band siciliana si riallaccia perfettamente a quell’alternative pop che già avevamo ascoltato circa due anni fa in “Cara Maestra Abbiamo Perso”.  “Sarebbe Meglio Non Lasciarsi Mai Ma Abbandonarsi Ogni Tanto E’ Utile” ripresenta i classici principi della canzone italiana inondandoli di parole sagaci e glorificando il genere ben oltre semplici testi d’amore. Già nelle prime parole di “Non Siamo Gli Alberi”, appare chiara la voglia di colpire senza fare troppo male. “Io odio immensamente le ferrovie dello Stato perché è lì che ci diciamo addio quattro volte al mese” inizia il brano e continua citando anche le parole che poi danno titolo all’album. Si comincia a giocare con le sentenze velando l’ironia con le atmosfere malinconiche rese ancora più commoventi dalle note del piano. “Non Ho Più Voglia D’Imparare” si presenta più carica del brano d’apertura creando una sorta d’inno disilluso contro il materialismo e l’ignoranza che regnano come scià nel resto della penisola. “Mentre guardavano il divo sul manifesto del detersivo, pensavamo a Monicelli che vola dal balcone…”. Semplici parole, semplice musica. Ma bastano a spiaccicarvi in faccia un riso amaro che vi viene subito la voglia di andare sul balcone, accendere una sigaretta e pensare. “Venga Il Tuo Regno” altro brano reso grande dalle parole di Dimartino. “I Laureati aspettano di lavorare. I lavoratori aspettano di morire”, tutto accompagnato da un sound tutt’altro che scoraggiato e che ricalca parzialmente i Non Voglio Che Clara di “Un Nome Da Signora”, con una maggiore quantità di BPM. Tutte le parole s’incastonano a creare un puzzle perfetto. Niente è lasciato sfuggire per caso dalle note e il suono s’impreziosisce nel finale senza inutili iperboli. “Amore Sociale” si snoda attraverso una struttura classicheggiante che sembra scritta vent’anni fa, con una melodia di piano semplicemente perfetta, anche oltre la bellezza della musicalità vocale. In “Cartoline Da Amsterdam” abbiamo la prima vera sorpresa. Il pezzo inizia con le solite parole che cantano metafore accompagnate delicatamente da note soffuse, ma nel pezzo fa la sua apparizione Giovanni Gulino dei Marta Sui Tubi che urla come un pazzo e gira il pezzo come un souvenir di Amsterdam innevata e per un attimo ci sembra di essere entrati in un film di Tim Burton ma gonfio di colori chiassosi. Con “La Penultima Cena” i palermitani tornano sui binari più tradizionali mentre in “Maledetto Autunno” sembra lanciata la sfida ai migliori parolieri della scena Indie Pop italiana, Fabio De Min su tutti. “Io Non Parlo Mai” folkeggia e trasuda emozioni lontane, di mare, sole, solitudine, speranza e fantasia. Di giochi di bambini soli sulla spiaggia di una terra lontana, di limoni e sudore. Le parole di Dimartino sono sogno e realtà che si fondono senza mai sparire sotto il peso della musica che somiglia a una carezza anche quando è solo un rumore elettronico in sottofondo. Siamo quasi alla fine. “Piccoli Peccati” spinge sulle pelli e sulle note più che negli altri pezzi dando alla musica un nuovo ruolo da protagonista vero nell’album. È il momento sicuramente più Rock e sembra chiara la voglia dei tre di fare i conti col passato, con la musica che li ha visti crescere. “Poster Di Famiglia” è una sorta di tunnel nel quale possiamo viaggiare attraverso i due anni che dividono il Dimartino dell’esordio con quello attuale, con ritmi incalzanti (la batteria ricorda Le Coppie” de I Cani) ritornelli urlati senza rancore ma con tanta gioia di vivere, nonostante tutto. E poi l’ultima “Ormai Siamo Troppo Giovani”, il brano forse più stile Brunori, frasi cariche di geniale amarezza che sembra piazzato volontariamente (“sembra” non direi) alla fine come per stringerci l’anima e non lasciarci tornare alla vita e alle sue bugie. Dunque un’ottima conferma per il trio siciliano, ancora una volta ispirato e stravagante pur senza alienarsi mai dal cuore della poesia italica fatta di musica, dei grandi Dalla, Venditti o De Gregori.  Probabilmente il problema di Dimartino è lo stesso che accomuna gran parte del gruppo dei nuovi cantautori italiani che sembrano avere sempre lo sguardo rivolto indietro nel tempo, immersi totalmente in una nebbia di nostalgia mentre i grandi già citati del passato sapevano cogliere con più efficacia il presente e cantarlo con occhi speranzosi di chi ride al futuro. Ma in fondo, buone composizione e belle parole, sogno e realtà che si mescolano continuamente, amore cantato senza bugie, emozioni che battono i denti a ogni parola. Che vogliamo di più. Forse manca ancora la capacità di trovare melodie. Oppure no. Forse la voce di Antonio Di Martino non è bellissima come altre. Oppure no. Forse Antonio Di Martino non sarà grezzo come gli Zen Circus, non sarà un cabarettista come Dente, non è paraculo come Brunori Sas e non è semplice come I Cani o Lo Stato Sociale. Non sarà montato come Bugo e non parla a vanvera come Le Luci Della Centrale Elettrica ma qualche difetto che vi aiuterà ad amarlo lo avrà anche lui. Ci stanno sulle palle i perfettini. Avete quaranta minuti e cinquantasette secondi per scoprirlo. One, two, three, four….

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Brunori Sas – E’ Nata Una Star?

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Chi meglio di Dario Brunori poteva redigere la colonna sonora di una pellicola intitolata “E’ Nata Una Star?”? La grande speranza meridionale ormai può dirsi una stella, almeno nella concezione tipica dell’indie cantautorale tricolore. Riempie i concerti, collabora con altri artisti, viene sullodato e nominato ovunque. Di cosa vogliamo parlare, allora? Non del nostro Dario, visto che davvero è impossibile non averne fatto la conoscenza.

Del film e delle canzoni quindi. Che ne dite? “È Nata una Star?”, che per ora non ho ancora visto, è diretto da Lucio Pellegrini (“E Allora Mambo”, “Figli delle Stelle”) ed è tratto dall’ultimo libro di Nick Hornby. Avete capito bene. Proprio quell’inglese che ci aveva fatto sognare pennellando le nostre passioni più romanticamente infantili. Il calcio (“Febbre a 90°”) e la musica (“Alta Fedeltà”). Questo soprattutto ma non solo.  Quello che ci racconta ora è la storia intelligente e ironica (nel tipico stile del londinese), di una famiglia che scopre le doti erotiche nascoste del figlio tardo adolescente palesarsi nel porno da Vhs. Acume e umorismo dunque nella sceneggiatura. Chi in Italia riesce a unire queste qualità nella musica meglio di Brunori? Della pellicola abbiamo praticamente detto tutto (dimenticavo di aggiungere che la storia è impersonata da Rocco Papaleo e Luciana Littizzetto) quello che si può dire di un film senza averlo visto e tutto quello che una webzine di musica dovrebbe dirvi sul cinema. Passiamo al disco. Per prima cosa chiariamo che non si tratta di una riproposizione di brani del calabrese già presenti nei due volumi precedenti. Quasi tutte le tracce sono cosa nuova (esclusa la bellissima “Fra Milioni di Stelle”) e agli undici brani originali targati Brunori Sas vanno aggiunte altre sei perle strumentali confezionate da Gabriele Roberto e due bonus track, “Sono Come Tu Mi Vuoi” versione Summit Studio e “Hot and Bothered (D. Ellington) ” in chiave Ap Beat. Che cosa lega quindi la storia di Hornby alle novelle che ci racconta Brunori? Apparentemente niente, o quasi. Escluse le pause strumentali, che qui abbondano anche a nome Brunori Sas (simpatica “Melodia a me” che sembra la colonna sonora di un matrimonio), le parole ci raccontano altre cronache che finiscono per vivere da sole senza la stampella della visione (probabilmente il momento più cinematografico è rappresentato da “Porno ‘82”. Qui la musica di Brunori si trasforma in maniera incredibile e probabilmente senza uno sbocco futurreale. Inoltre il brano non ha niente a che vedere con “Guardia ‘82” come lo conoscete, tranne che per la citazione del titolo). Come un bardo beffardo, il cosentino barcolla per la sua strada e ci racconta i piccoli mondi moderni che s’intravedono ai bordi del marciapiede. Amore disilluso (“Amore con Riserva”), confessioni tristi e ubriache (“L’Asino e il Leone”), la gioia della vita sofferta, dura, sogghignante. I ricordi degli anni ottanta che tanto hanno fatto amare Brunori a chi come me è cresciuto in quel decennio, è veloce e fugace e meno diretto rispetto agli esordi. Stavolta basta una parola, un Cynar o una Sambuca, per ricordare nostalgici passati passati insieme. Brunori è una star e sta facendo i conti col suo destino. Sempre melodie accattivanti, immediate (meno del passato, a essere sinceri), pungenti come le sue parole, più delle sue parole, ora più misurate visto il contesto. La struttura della colonna sonora appare già al primo ascolto molto più frastagliata del solito.

Se, in Vol. 1 soprattutto e in Vol. 2, si riusciva quasi a vedere un filo legare il primo e l’ultimo brano, ora quel filo manca o meglio è più difficile da scovare e questo finisce per dare al tutto una maggiore profondità pur nel consueto direct style di Brunori. Stile che da ora sembra sempre più qualcosa di personale, lontano dai rimandi a Gaetano (ricordate “Rosa”?), De Gregori o Bennato. Brunori continua a raccontarci la banale consuetudine senza banalità e soprattutto senza facili scorciatoie. Ancora una volta Brunori ci mette di fronte a noi stessi, nudi davanti alla nostra anima. E tutto intorno diventa un sogno danzante su note di piano soffuse. Stavolta ai bordi della strada Brunori non ha incontrato nessun povero Crito se non proprio te che te ne stai a piangere e ridere seduto al tavolo di un bar col tuo bicchiere in mano fino alle nove di sera. Brunori riesce ancora una volta a incarnare il ritorno del pop cantautorale italiano più classico aggiungendo un pizzico di neve che suona poesia e in questo trionfo dell’apparire chiamata Italia, non può che far bene al cuore. Detto questo non resta che entrare da protagonisti nella favola. Detto questo, non posso che confessarvi l’essermi trovato di fronte ad un buon lavoro, se messo in contrapposizione all’opera di Papaleo e Littizzetto che non si presenta (“non si presenta”! Non cominciate a dirmi che non si critica un film senza prima, prima vederlo) certo come una gemma della moderna cinematografia italiana (vista la simpatia per Hornby, spero di sbagliarmi di grosso). Ovviamente, resta da verificare quanto riesca a essere funzionale e in sintonia con l’opera visiva di Pellegrini. Tuttavia, al di fuori del legame con la pellicola, Brunori riesce comunque a realizzare un lavoro invidiabile (da tanti), che pur aggiungendo poco, in termini d’innovazione e crescita, al percorso artistico del cosentino, in ogni caso rappresenta un altro solido mattone nel muro solido della sua carriera sempre più vigorosa. Dove scema l’immediatezza (poche effettivamente le melodie di facile memorizzazione) vive lo stesso una scintilla scagliata già in Vol. 1 e luccicante ancora nella mezzanotte di Vol. 2. I brani non deluderanno i seguaci veri (forse i fan da “pezzo”, si! Quelli che di Sas conoscono esclusivamente “Guardia ’82” o “Italian Dandy”) e forse accresceranno il numero di estimatori. Se solo il cinema (il film, meglio) riuscisse a dare ancora più magia alle canzoni, all’immaginario. Se solo riuscisse ad aumentarne la portata seduttiva, allora potremmo veramente sognare. Fin qui c’è Brunori. La seconda parte dell’ album è, invece, in mano al compositore Gabriele Roberto. E la faccenda cambia. A dispetto di titoli quali “Il Duello”, “Videochat” o “L’Edicola”, i sei brani sono prettamente strumentali erappresentano un elegante modern classical vivido e affascinante che (non è detto che non) riuscirà ad acquistare maggiore forza espressiva o meglio a indirizzare in maggior misura l’emozionalità delle note, con l’aiuto delle immagini. I pezzi, brevissimi, sono scritti per una colonna sonora e la cosa suona evidente. Le note fluttuano come spire di fumo pronte a essere ingoiate in un unico respiro nel momento in cui le forme prenderanno vita. Qundo vista e udito avranno una sola anima. E alla fine arriva Duke Ellington a ricordarmi che suonare il “bop” è come giocare a Scarabeo senza vocali. Cosi io me ne vado al bar a ingollare Peroni con un tipo senza baffi che mi sembra di conoscere, insieme con quel sorriso amaro che solo i grandi sanno profondere.

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Maria Antonietta – Maria Antonietta

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Avere vent’anni e sentirsi liberi di fare tutto quello che si vuole, le cose poi senza logica cambiano inevitabilmente in peggio. Io quando avevo vent’anni ero uno stronzo. Il disco di Maria Antonietta esce proprio quando il bisogno di rivoluzione interiore inizia a bussare pesantemente alle porte di un’insoddisfazione ormai dilagante. Certo, Maria Antonietta arriva portando nelle corde vocali un timbro fresco che spezza la tradizione delle angeliche voci italiane, una ragazza ribelle della quale innamorarsi in maniera perversa, un diavolo tentatore in tutina fetish. Il diavolo è donna.

E vede bene in questo progetto Dario Brunori in veste di produttore tutto fare, strappa questa ragazza dalla scena new wave/post punk (Young Wrists), gli impone la lingua italiana creando una donna bionica dell’indie rock. E diciamo pure con risultati nettamente positivi, ne sentirete parlare fino allo sfinimento, tanto nel bene quanto nel male. Maria Antonietta debutta con un disco libero di farsi apprezzare marcando le voglie sessuali di ventenni arrapati in cerca di sfogo, chitarre acustiche e scopate al centro del mondo (perchè sono le donne a volerci portare a letto, Quanto eri bello). La voce poi ti entra dentro come una lama affilatissima, il dolore risulta piacere innescando un circolo viziosamente pericoloso. Ci siamo ormai dentro fino al collo. Una cantante capace di raccontare storie blasfeme con la naturalezza di una diva maledettamente importante (Maria Maddalena e Santa Caterina), l’esordio solista di una cantante fuori dall’ordinario. I pezzi giocano sulla semplicità d’esecuzione, strutturalmente poveri ma con la capacità di fissarsi rapidamente nella testa, l’espressione diretta del semplice, bello e subito senza troppa filosofia. Un esordio discografico significativo per Maria Antonietta, la ragazza più cattiva della musica indipendente.

 

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