Indie Folk Tag Archive

Recensioni #04.2018 – Tutte Le Cose Inutili / I’m Not A Blonde / Glen Hansard / Jeff Rosenstock / Dirtmusic

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The Heart and The Void – The Loneliest of Wars

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10 SONGS A WEEK | la settimana in dieci brani #01.12.2017

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Oregon Trees – Hoka Hey

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10 SONGS A WEEK | la settimana in dieci brani #21.04.2017

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10 SONGS A WEEK | la settimana in dieci brani #21.10.2016

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Moro & The Silent Revolution – Home Pastorals

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In uscita il prossimo 6 Maggio per la Gamma Pop, Home Pastorals rappresenta il terzo album del cantautore Massimiliano Morini, il quale completa con esso il discorso intrapreso con il precedente EP Homegrown, un lavoro che ha riscosso un notevole successo come testimoniato dal fatto che il brano “City Pastoral” sia stato scelto come sigla per il programma enogastronomico Orto e Mezzo, in onda sull’emittente LaEffe. Ed è proprio il pezzo sopracitato ad aprire le danze con le sue melodie Folk che ricordano da vicino i nuovi esponenti del genere come Fleet Foxes e Dry The River (a proposito, pare sia confermata la loro partecipazione al Siren Festival di Vasto che si terrà quest’estate). Stavolta per un lavoro che potrebbe segnare la svolta, Moro ha deciso di farsi affiancare dalla fidata crew di musicisti The Silent Revolution, formata da Lorenzo Gasperoni (chitarra), Franco beat Naddei (tastiera, ma anche artefice del mixing e del mastering), Denis Valentini (batteria), Elisa Piraccini e Paola Venturi (backingvocals). Una scelta che risulterà determinante per tutta la durata del disco e che raggiunge l’apice in alcuni episodi come “YouDeserve”, canzone che sembra camminare in bilico tra i Pearl Jam e i Queens Of The Stone Age, entrambi colti nelle loro versioni più soft.

Man mano che si va avanti, tra armoniche a bocca e percussioni tribali, vengono alla luce tutti gli spettri musicali che hanno influenzato il song-writing: dai mewithoutYou (“Down”) fino ai The Shins (“Home Away”). Menzionerei in modo particolare l’oscura “The Years”, dove la voce, a più riprese, rompe, trionfalmente, la monotonia del ritmo cadenzato dell’esecuzione. Home Pastorals è un disco intimista, mai sopra le righe, ma non per questo banale. Non ci sono cadute nell’ovvio, l’artista è ben conscio delle sue potenzialità, le sfrutta tutte e ci confeziona una perla rara nell’opaco oceano in cui, purtroppo, naviga al giorno d’oggi la musica nostrana. Dopo i riminesi Girless And The Orphan, un’altra promessa mantenuta dalla scena Indie-Folk del bel Paese.

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Town of Saints – Something to Fight with

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Vengono dal nord i Town of Saints: Harmen Ridderbos (voce e chitarra) è olandese, Heta Salkolahti (voce e violino) è finnica e fanno coppia fissa nella vita privata e in quella artistica da quando si sono conosciuti in Austria e hanno iniziato a fare i busker. L’incontro con il batterista Sietse Ros sancisce la nascita di una formazione completa che ha fatto del live il suo trampolino di lancio. Something to Fight with, disco d’esordio, segue infatti una lunga serie di concerti in tutta Europa e un Ep di sette tracce, Never Sleep. Sin dalle prime due tracce, “Stand Up” e “Trapped Under Ice”, si chiarificano due punti importanti: questi ragazzi sono tecnicamente molto bravi e fanno un Indie Folk super sentito ma che non sembra mai saturo di nuovi contributi. Debitori, per quanto riguarda le chitarre soprattutto, ai Band of Horses, come si sente chiaramente in “Direction”, non disdegnano neppure la lezione degli Arcade Fire o degli Of Monsters and Men, come emerge in “Euphrates” dove le volute del violino contrappuntano il canto e quasi ci trasportano in un ideale pub irlandese con davanti una bella stout scura dalla schiuma densa.

“Going Back in Town” ha un’introduzione più malinconica che lascia subito spazio a un duetto vocale acceso e ritmato, in cui lo scambio melodico richiama Angus e Julia Stone, soprattutto per il cantato della Salkolahti, molto affine a quello della Stone o della islandese Soley. Un trattamento molto simile viene impiegato per la costruzione di “Dress Up Night”, resa più particolare dalle sincopi con cui dialogano violino e batteria. I riferimenti ai precedenti del genere continuano a sentirsi distintamente ancora in “Easier on Papier”, mentre la ben più movimentata title track, “Something to Fight With” sembra un incontro tra i Mumford and Sons e i Gogol Bordello. Freschissima e quasi Pop è “Carousel”, leggera e particolarmente disimpegnata, che cede il passo a un ben più riflessiva “New Skins”, che inizia come una ballad cantautorale e di nuovo viene rincanalata nell’universo Folk dall’ingresso del violino. A chiusura di un metaforico cerchio, il disco si chiude con “Stand Up II”, brano che racchiude con una certa perizia i tratti distintivi di questa band: le sonorità calde del violino abbracciano quelle delle chitarra acustica ma si contrappongono a quelle della chitarra elettrica, la batteria marca i sedicesimi a decretare l’importanza della pulsione cinetica, il cantato costruito solo sulla vocale a contribuisce a un crescendo dinamico che conclude il pezzo ex abrupto.

Qualcuno ha già scritto che i Town of Saints non aggiungono e non tolgono nulla a formazioni ben più grandi (per fama, competenza ed esperienza). Tendenzialmente sono d’accordo. In fondo è roba già sentita. Eppure vale la pena concedersi un’oretta piacevole con questo disco, che se proprio non aggiunge niente di nuovo, quanto meno contribuisce, con un punto di vista in più, a rendere composito il genere.

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Local Natives – Hummingbird

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Mentre in altri ambienti musicali marcati indie è iniziato un evitabile declino asfaltato da chili di produzioni apatiche e vuote, dischi come questo “Hummingbird” dei Losangelesini Local Natives paiono – in controtendenza –  lievitare in una fragranza ottimale senza risentire minimamente fiacche e condizioni castranti, una quasi “sempre evoluzione” che comunque si capisce e capta senza usare tante vocali o aggettivi.
Arrivati al secondo giro discografico il quartetto capitanato da Kelcey Ayer recupera buon terreno e – nonostante il debutto con Gorilla Manor del 2009 faccia ancora  stragi di consensi in tutto il globo – questo nuovo registrato appare come un fiatone sul collo di quest’ultimo, una nuova dichiarata maestà onirica e indipendente che fa luce con i propri brillanti vaporosi, emozionanti; leggermente ombroso, vettorato su coloriture grigio topo come a differenziarsi dal precedente, l’album è di un morbido melanconico che culla, scompare e culla, un dondolante visionario che realizza momenti sospesi e orfani di gravità che non fanno fatica alcuna a costruirsi – in musica – un’alternativa più che credibile.
Folk terso e indie sparuto, uniti e legati in un vero e proprio mondo impalpabile, arie graduate e Aaron Dessner dei National che è “immischiato” nella tracklist per un mid-perfezionismo immaginario che lascia gocce di sogni qua e la; un disco a strati congiunti, anime liberate che svolazzano tra ombre di Grizzly Bear, Arcade Fire, tenerezze intricate col pop “Mt. Washington”, bolle di sapone eteree “Black ballons” , una dolce sbandata psichedelica “Ceilings” e tutte quelle ammiccanti assimilazioni di stampo Zulu Winter che fanno jogging sulla via lattea di “Bowery” e  che chiudono con una lancinante dolcezza intoccabile ogni tentativo di cambiare rotta.
Per intraprendere un trip d’essenze e note efficaci fatevi pure avanti, non manca nulla.

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