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L’Inferno di Orfeo – L’Idiota

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Passano due anni dal precedente Canzoni della Voliera e tornano i piemontesi L’Inferno di Orfeo con L’Idiota, un disco decisamente irriverente e con sfumature di Rock da buttare giù a grandi sorsate, rivoluzione interiore al passo con i tempi moderni sempre più bui. L’Idiota nasce sulla base dell’istinto, i pezzi vengono buttati energicamente senza rifletterci troppo, si passa poche volte verso la parte della ragione e i componimenti risultano crudi e viscerali nonostante i riff esprimano in qualche modo una miscela di tristezza e allegria. “La Manovra” apre l’album con una classica canzone italiana dai variegati paragoni di confronto ma con una freschezza comunque personale che narra di un mozzo alle prese con le proprie considerazioni rivolte al capitano della nave incapace di condurla. “La Guerra è Qui” è un pezzo molto interiore fedele alla classica tradizione del Rock leggero cantautorale made in Italy, un modo per riflettere sui sconsiderati atteggiamenti della vita quotidiana. Ballatona dai toni tristi per capirsi meglio.

Non rimango certamente di umore buono. Chitarroni Rock in “Arrampicate” dove L’Inferno di Orfeo tira fuori le proprie radici Prog Rock che non seguono esattamente il passo di quello attuale, sound molto “vecchio” ma non del tutto arrugginito. Si cerca di fare Blues con la traccia “L’Amore ai Tempi del Barbera” e in qualche modo il risultato risulta piacevole nonostante la mia attenzione è rivolta più verso il testo e la voce simil bruciata dalle sigarette che sulla musica. “L’Arte della Manutenzione” dovrebbe essere un brano dal ritmo incalzante ma non riesco mai a lasciarmi trasportare e l’effetto divertimento in poco tempo si trasforma in noia mortale. Non sono abituato a cambi improvvisi di genere, ogni pezzo sembra appartenere ad una diversa band, faccio fatica a rimettere insieme i pezzi. “Col Senno di Voi” inizia a dare il giusto senso al mio ascolto, sarà quella spiccata somiglianza (soprattutto nell’intro) a “Color me Once” dei Violent Femmes o quell’Ambient più cupo, una buona prestazione.

Il pezzo che titola l’album “L’Idiota” è una cavalcata in stile Folk e anche qui trovo piccole ma piacevoli sorprese, forse per la somiglianza voluta all’Indie Folk dei Marta Sui Tubi. L’Inferno di Orfeo descrive “Il Paese che Dorme” come una favola dei giorni nostri immortalata da una polaroid ed effettivamente si sente la paura di sentirsi abbandonati, le sensazioni impazziscono e il brano merita davvero la giusta considerazione. Per la prima volta durante l’intero ascolto de L’idiota sono riuscito a sentirmi sullo stessa frequenza de L’Inferno di Orfeo, riesco a metabolizzare il contenuto e renderlo in qualche modo personale. Ancora Rock che purtroppo non digerisco in “Uguale il Mare”, giuro di essermi impegnato ma la stanchezza delle idee prende il sopravvento. Non trovo il metodo di contatto. Il disco si chiude con “Paola” e gli strumenti elettrici lasciano spazio a quelli acustici per una canzone delicata e dolce quanto un brano dei Negramaro con la voce a fare da padrone. Fermamente senza fissa dimora il mio giudizio verso L’Inferno di Orfeo, quello che non mi piace eguaglia quello che mi piace e la confusione alla fine lascia L’Idiota tra quei dischi che di certo non segneranno quest’annata musicale. Insomma, c’è tutto per fare il salto di qualità basta scegliere la strada da intraprendere.

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Nympea Mate – Endio

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Ma avete mai osservato il vizio di paragonare alcuni luoghi, paesaggi, città ad altri luoghi, paesaggi, città più o meno vicini nello spazio-tempo? Questo vizio in genere mi fa incazzare. Mi fa incazzare perché il posto in questione perde di identità e anche di dignità.
Anche nella mia città, Rivoli, ma ancora di più nella vicina Torino, mi è capitato più volte di ascoltare deliranti discorsi di mediocri turisti (io sono un pessimo turista perchè non ho visitato quasi niente, ma per fare il turista non basta aver fatto tanti viaggi) che si sforzano a giocare a Memory con le celle della loro memoria, arruffando paragoni azzardati tra Torino e città europee più o meno vicine a noi.

In questo gioco a volte la città viene esageratamente sopravvalutata, perdendo così il meraviglioso contrasto delle sue radici nobili e industriali, oppure viene sminuita a cittadella di montanari operosi che è diventata così cool grazie a locali radical chic vicino al fiume e alle Olimpiadi.
Lo stesso identico discorso vale per la musica sfornata dal capoluogo piemontese e delle sue zone limitrofe. Spesso surclassato dalla immeritata prepotenza milanese, l’underground rumoroso sabaudo incassa colpi duri e rimane in cantina. Per poi non parlare di chi azzarda ad afferrare il bollente testimone dei mostri sacri oltre oceano o oltre Manica. Qui Torino diventa la Berlino priva di fremente luce artistica, le mummie del museo egizio diventano l’ombra della Stele di Rosetta e la Fiat una piccola costola della General Motors. E tutti i gruppi che senti nei sudici club allagati dalle piene del Po diventano schifosi tributi maldestri a Velvet Underground e New Order, se non peggio a Nada Surf e Radiohead.

Questo è quello che capita a una band chiamata Nymphea Mate, composta da quattro ragazzi ben piantati in terra sabauda e innaffiati con pioggia londinese. Tanto british da essere catalogati spesso come gruppo “brit-pop”, termine che mi da i nervi proprio come molte altre stupide catalogazioni: “indie”, “alternative” o “power-pop”.
I ragazzi suonano inglesi, è verissimo, ma non rinunciando ad interessanti variazioni sul tema come i chitarroni pesanti di “Billy Vanilla” e “Song for The Leader” che sembrano più di Josh Homme che di Noel Gallagher o le melodie della opener “Sir Constance” che sembra il nuovo singolo dei Band of Horses in rotazione su Virgin Radio. Insomma una buona porzione di U.S.A. se la ritagliano, e pure negli episodi migliori del disco.

I suoni e gli arrangiamenti vantano un grande equilibrio nel limbo tra i due universi pop e rock, le due realtà firmano un momentaneo armistizio e vivono in pace e armonia in ogni brano di “Endio”. Tra chitarroni rock’n’roll che ammiccano allo stoner, melodie ammiccanti e un tappeto sottostante (semplice ma efficiente) che guida la banda, le due parti ostili si abbracciano, si toccano e a volte si lasciano andare in una folle danza come nello scoppiettante finale di “Waiting for The Bang”.
Tutto sembra cotto a puntino, salato il giusto, ma manca di spezie. Mancano allo stesso tempo quel pizzico di personalità e quella spolverata ruffiana che farebbero entrare dritto dritto un loro brano nella top 10 di NME.
Insomma il disco scorre, ma proprio come la fastidiosa pioggerellina londinese ti lascia un po’ bagnato e non entra nelle ossa. Anzi con un buon impermeabile non arriva neanche alla pelle.

 

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