Casa – Variazioni Gracchus

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Il progetto ruotante attorno al fondatore e unico membro fisso Filippo Bordignon è già dalle sue origini caratterizzato dalla totale mancanza di un preciso punto di riferimento; pur trattandosi di una band genericamente riconducibile all’Avantgarde Rock, la lunga discografia (otto album in dieci anni) e la vita espressiva dei Casa hanno proposto uno stile in continuo rinnovamento e mutamento con l’attività di musicisti a mescolarsi a produzioni ed esecuzioni più simili all’arte contemporanea (spesso con lo pseudonimo di Plus o Little Jew Quartet) con vere e proprie esibizioni performanti, scioccanti, talvolta urtanti e sempre molto legate all’interazione con gli ascoltatori, elemento fondante questo e spesso ricercato con dimostrazioni al limite del buon gusto.

Da queste premesse, non c’è certo da aspettarsi un nuovo disco dei vicentini sulla stessa impronta dei precedenti “Crescere un figlio per educarne cento”, “Una fine continua” o “My Magma”; e, infatti “Variazioni Gracchus” è qualcosa di nuovo, se vogliamo. Interamente strumentale, l’album è stato registrato insieme a diversi artisti appartenenti alla sfera della musica classica, scelta non casuale perché la prima differenza con tutta la discografia precedente, sarà proprio un approccio più spartitico rispetto alla ricerca in ambito rock e alle improvvisazioni estremizzate.

Per giungere a questo risultato, Bordignon prende il via partendo dal racconto di Franz Kafka “Il cacciatore Gracchus”, parte di una controversa raccolta postuma edita da Max Prod nel 1931 e in edizione italiana solo quarant’anni dopo e dalle opere minimaliste degli anni Cinquanta e Sessanta di La Monte Young, da quelle micro tonali di decenni dopo di Tony Conrad e di Angus Maclise (fino al 1965 membro di The Velvet Underground) per costruire la prima traccia “Galileo ritrovato”, poco più di nove minuti in cui protagonista è un vecchio piano verticale della Boston, scelto per la sua somiglianza timbrica con quello usato dalla cantante Jazz Patty Waters in “Sings” del 1965 e fisarmonica, viola, violoncello e oud a far da dirompente cornice. La parte successiva, dalla seconda all’undicesima traccia, presenta una struttura solo sottilmente difforme, con il piano protagonista assoluto questa volta e una maggiore distensione nei suoni rispetto all’introduzione, se si escludono “Variazione I” e “Variazione IV”. I brani, tra cui si distingue “Variazione V” dedicata ad Alessandra Maldifassi, autrice della sigla del cartone “Pat ragazza del baseball”, presentano una particolare struttura che unisce una velata ricerca d’immediatezza melodica, a un’innata necessità di non seguire la strada più automatica della composizione. I suoni sono spesso affini tra loro, anche nell’alternarsi dei brani, come a creare un preciso filo conduttore dato dall’idea stessa di effetto acustico.  L’ultima parte, denominata “Le partenze che ci allontanano” è composta di tre movimenti in cui tornano ad affiancare il pianoforte, il flauto e il violoncello, inscenando dunque atmosfere più ariose, comunque molto evocative e spirituali eppure meno astratte e introspettive e in cui svetta la conclusiva “Movimento III” che mette in musica il bar-do, stato intermedio tra la vita e la morte.

La scelta di Bordignon di rimettere le mani su intuizioni musicali vecchie di decenni senza prendere in considerazione l’idea di scivolare nelle derivazioni seguenti a questo minimalismo, basta da sola a dare l’idea di quanto sia coraggiosa e, forse, provocatoria la scelta artistica dei Casa. Nulla è fatto per tendere una mano all’ascoltatore; quello che ci è richiesto è solo la massima concentrazione sui suoni e sui concetti che sottendono. La nostra reazione diventa parte integrante dell’opera, a voler forzare la mano è come se il nostro stato emotivo nello scorrere dei quarantotto minuti fosse tutto quello che il musicista si pone come obiettivo. Ovviamente Variazioni Gracchus deve anche essere considerato nel suo essere opera soggetta a un pubblico, fosse anche limitato, e su questo non possiamo garantire null’altro che una riproposizione senza troppi passi avanti di uno stile già abbondantemente studiato negli anni a partire dallo stesso La Monte Young e John Cage. Del resto, Bordignon non sembra inseguire un’idea di rinnovamento per la musica quanto piuttosto per se stesso e di infondere un approccio più attento all’ascolto per chi ha orecchie per ascoltarlo; in un periodo in cui sembra essersi persa la voglia di “perdere tempo” nell’ascolto e i giudizi sono partoriti con la velocità con cui premiamo il tasto play del nostro stereo, l’opera tutta del vicentino non è che manna da assaporarsi con calma e con lo sguardo al cielo a vederla scendere come neve.

Last modified: 20 Febbraio 2019

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