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Black Sabbath – 13

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Da premettere che lo scrivente è (era) un incallito pipistrellone succube dello stupendo doom primario dei Black Sabbath, schiavo senza catene della loro “messa nera” fatta di basso compresso, chitarra sulfurea, ritmi e voce luciferini che ascoltava prettamente da mezzanotte in poi ( quando si è giovani queste sono normalità guadagnate contro vicini e genitori indiavolati ma di ben altro), e per anni – pian piano smorzati –  ci si è immedesimati come giugulari pronte a farsi succhiare da Mr. Ozzy Osborne, ma appunto poi tutto passa e tutto svanisce.

Ho appena ascoltato 13, il nuovo lavoro per la riformata band di Birmingham e. con tutta franchezza l’amarezza ha preso il sopravvento, il sound, la pressione atmosferica, il pathos digrignate mantiene qualcosa di allora, ma si sente, eccome si sente, la noia e la stanchezza e la vuotezza che prevale in un tutto sonoro, è come entrare nel Museo Egizio e uscirne con la consapevolezza che mummie e sacerdoti effigiati abbiano ripreso a muoversi per un allestimento pacchiano dettato da chissà quale interesse; le fiamme, i carboni ardenti sempre accesi, il diavolo tentatore sempre in agguato, ma non è più nulla come una volta, l’età gioca brutti scherzi e sarebbe meglio mettersi in disparte per non scadere nel ridicolo del revivalismo a tutti i costi, e questo progetto di Osbourne, The Geezer, Tony Iommi e il nuovo Brad Wilk degli RATM e che ha sostituito alle pelli il mitico Bill Ward, ne è la prova lampante – non di idee – ma di un pastrocchio pubblicitario pur di non rimanere a galla nell’oblio, nel dimenticatoio.

Gotic, Doom, Metal e “venghino venghino siore e siori al grande miracolo del Gerovital” non vanno a concludere niente, i Black Sabbath con questo loro diciannovesimo album in studio rifanno è stessi allo sfinimento – e questo potrebbe essere anche una virtù – ma  è la vivacità, l’energia e la forma che è sparita per sempre, un teatro dei rientri che non aggiunge nulla – anzi credo che tolga al mito – se non una sceneggiata metallica per vecchi ed imbolsiti fan che pur di non ammettere la “resa” di una della più grandi band della storia, ancora sta lì a sbattere la testa alla faccia della cervicale dolorante; “God Is Dead?”, “Zeitgeist”, “Live Forever” o “Dear Father” – per citarne alcune – sono il bardo indistruttibile del logo Black Sabbath, ma fanno parte del Novecento, e senza nessun aggiornamento, senza alcun passo in avanti, va a finire che anche i pipistrelli che affolleranno ancora le loro prossime truculente manifestazioni di lugubre magnificenza, preferiranno darsi a gambe/ali levate pur di non scadere nel ridicolo, pur di non cadere nelle riunion da cassetta. Anche gli animali hanno un orgoglio!

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“Diamonds Vintage” Black Sabbath – Paranoid

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Secondo lp dei Black Sabbath, a distanza di pochi mesi dal debutto ufficiale, Paranoid è la totemica pietra miliare che si erge assoluta e suprema in tutta  la storia, epopea e nera favola del rock duro e metallico e se anche l’heavy metal non sia tutta invenzione loro, quest’album n’è il capostipite e fonte d’ispirazione per orde d’artisti di settore.

Registrato con un allora stupendo mixaggio quadrifonico, Paranoid è un ricco menù di sangue lugubramente dark, urla di morte, nebbie ed insanità mentali condite abbondantemente da percezioni soprannaturali d’ispirazione pseudo-maligna e d’allucinazioni dovute a  droghe e rapporti sessuali incestuosi dove la voce insinuante e viscida d’un giovanissimo Ozzy Osbourne sguazza con piglio satanico e beffardo; un menù tremebondo ma essenziale che in seguito verrà spesso rielaborato con successi più o meno meritati fino a scomparire da dove era venuto.

Anticipatori se non addirittura fautori del rock cosiddetto doom, il Sabbath granguignolesco di Ozzy Osbourne, Bill Ward alla batteria, Geezer Butler al basso e Tony “Tommy” Iommi alla chitarra, impera e scorrazza in tutte le classifiche mondiali, portando il verbo della “cultura mortuaria” e l’ansimo necrofilo dell’oltretomba a filtrare tra le fitte maglie dell’hard rock atmosferico e pregnante d’insicurezze e deliri, creando tutta una trafila di storie e aneddoti – veri e frutto dell’immaginazione – sui comportamenti poco ortodossi e addirittura vampireschi della band di Birmingham.

Ma è anche un’epoca dove la zampata dell’occultismo graffia già altre band del main circuit come i Doors, Stones, Led Zeppelin, Deep Purple – lo stesso Hendrix ne verrà incluso a forza – ed allora questo immane rito filo-satanico si allarga a macchia d’olio tanto da far bandire in tutto il mondo ogni traccia “persecutoria” di questi suoni neri da parte di una schiera di puristi e ortodossi benpensanti che vedono in questo “malsano virus” un pericolo di dimensioni catastrofiche per le giovani e “innocenti” anime adolescenziali.

Il “..people think I’m insane because I am frowning all the time all day long I think of things but nothing seems to satisfy…” sgolato da Ozzy nell’intro di Paranoid diventa manifesto per milioni di “apprendisti stregoni” che fanno dei Sabbath un esempio orgasmico planetare, osannano il riff di chitarra di Iommi che contesta la politica di guerra e difende il ritiro dei soldati dal Vietnam War pigs, sballano copiosi nella psichedelia malata di Planet caravan e si svenano nelle distorsioni e muri di suono che paralizzano Iron man; ora con le dovute distanze degli anni e con il declino del metal, il sudicio subliminale dei Sabbath rimane unico vessillo a tempestare di “paranoica virtù” la memoria e la grandezza di un tempo che certo angosciava per via di multiformi disfunzioni sociali, ma portava a pensare che anche dal profondo buio una vera luce sarebbe potuta uscire. Pipistrelli a parte!

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