The Mars Volta Tag Archive

The Black Queen – Fever Daydream

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Greg Puciato è circondato da un alone mistico, ha attorno a se l’aura del miracolato, di colui che ha raggiunto traguardi importanti partendo dal basso, con tenacia e spirito di sacrificio. Nel 2001 ottiene il posto vacante di vocalist nei Dillinger Escape Plan, band di cui era fan, scalzando dal ruolo Sean Ingram dei Coalesce. Insomma, non il primo arrivato. Nel 2014 prese parte al mega-progetto Killer Be Killed, unendo le forze con certi signori che rispondono al nome di Max Cavalera (SepulturaSoulflyNailbomb), Troy Sanders (Mastodon) e Dave Elitch (The Mars Volta). Il risultato fu un disco di brutale Thrash Metal che collocava l’old style nell’epoca moderna. Anche lì Puciato svolse la parte del leone, fungendo da vero perno d’aggancio tra le due ere.

Oggi lo ritroviamo insieme a un nuovo compagno d’armi, Joshua Eustis, già con Telefon Tel Aviv e Nine Inch Nails. Viste le credenziali, le aspettative sono altissime. Fever Daydream è un album dall’atmosfera cupa e greve: la foschia dell’intro “Now, When I’m This” si tramuta prima in ghiaccio con “Ice To Never”, poi in densa oscurità in “The End Where We Start”: tre canzoni in cui emergono prepotenti  i fantasmi di Nine Inch Nails e Depeche Mode. “Secret Scream” è il brano più orecchiabile, con il suo tempo cadenzato e quel chorus che entra in testa immediatamente.
È quasi una missione impossibile scindere una traccia dall’altra, perché questo è un album che va assaporato tutto insieme, come se fosse un’unica grande composizione. Le uniche eccezioni sono “Distanced”, dallo stile simile a quello dei Black Light Burns, il side-project di Wes Borland dei Limp Bizkit, e “That Death Cannot Touch”, con i colpi di rullante rubati ai Fine Young Cannibals di “She Drives Me Crazy” (sentire per credere, il paragone è inevitabile). Mi stuzzica definire l’esordio dei The Black Queen come un disco anni 80 per chi odia gli anni 80. Sicuramente uno dei migliori lavori usciti in questi primi scampoli di 2016.

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Anubis – Hitchhiking to Byzantium

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Se qualcuno dovesse porvi la domanda, stupida a dire il vero, su quale sia, a vostro avviso, il genere, lo stile musicale che più incarna l’idea di vetusto, cosa vi sentireste di rispondere? Non ho dubbi che il principale indiziato sia il Progressive ed è abbastanza chiaro anche il motivo di tale scelta. Il Rock Progressivo ha, del resto, già nelle sue fondamenta qualcosa di maturo, serioso, poiché voleva essere lo strumento per dare un valore più alto alla musica Rock. I testi e i brani erano complessi, lunghi, articolati e tecnici e non certo adatti a un pubblico grezzo, impreparato e proprio questa lacuna divenne l’arma principale di diffusione del Punk Rock, che, al contrario si basava su velocità, aggressività, semplicità. Con l’avvento del Punk, fu questo, con tutte le sue evoluzioni future, a incarnare l’archetipo di stile “giovane” e, man mano, il Prog divenne la risposta all’insulsa questione che trovate a inizio articolo. Eppure, ci sono band che sono riuscite negli ultimi anni, a rielaborare le lezioni del Progressive tornando a suonarlo non solo per un pubblico di esperti e “anziani” ascoltatori ma anche per le più fresche generazioni. Ovviamente, questo processo è necessariamente passato per le più disparate contaminazioni che ne hanno modificato sia la parte formale sia quella sostanziale, ma è indubbio che quanto fatto da band come i Marillion negli anni 80, i Porcupine Tree il decennio seguente e Tool o The Mars Volta all’inizio del nuovo millennio, è qualcosa di sensazionale.

In tale ambiente, s’inseriscono con cautela gli australiani Anubis, a dire il vero mai veramente capaci di imporre il proprio marchio a un pubblico anche solo moderatamente più ampio e che, con questo Hitchhiking to Byzantium spostano un poco indietro quel processo di rinnovamento del genere di cui abbiamo parlato. Cerchiamo di capirci, non si tratta certo di un lavoro mediocre o di scarso valore, anzi, probabilmente è questo il migliore dei dischi della band capitanata da Robert James Moulding e gli appassionati non dovrebbero certo lasciarsi sfuggire quest’uscita ma il punto è che tanta “classicità” in un disco Prog rischia di diventare un’autorete in pieno recupero, se mi passate la metafora calcistica. La principale novità rispetto alle opere precedenti sta nelle liriche e nella sua composizione. Non più affidate al solo Robert James Moulding ma ora lavoro di tutti i membri della band e quindi non più un unico fluire narrativo ma un insieme di diverse tematiche ed esperienze.  Musicalmente nessuna novità, brani lunghi, epici, accenni di psichedelia, note di piano che fanno da sfondo agli assoli notevoli ma non eccessivamente sopra le righe. Tutto suonato alla perfezione, tanto che non ci sono dubbi che questo Hitchhiking to Byzantium possa essere annoverato tra le migliore uscite Neo Prog dell’ultimo decennio, almeno se a stilare un’eventuale classifica fossero fanatici di quel genere. Il problema è che io non lo sono, o meglio ho uno spettro di ascolti più ampio di qualunque tipo di fanatico ed ho interesse a che un album non sia solo di pregevole fattura ma possa anche rappresentare un passo avanti rispetto al passato, specie quando si tratta di musica che nella sua stessa definizione ha il nemico pubblico numero uno.

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The Mars Volta – Noctourniquet

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Ci avevano lasciato in dote uno strafalcione epico chiamato Octahedron, ma pare che i The Mars Volta con il nuovo “Noctourniquet” abbiano preso il vizio replicante di non esprimere più quasi nulla, almeno a sentire questa sfilza di tracce irose e dispersivamente canticchiabili che si rincorrono alla ricerca del punto forte di un ascolto attento che tarda – o meglio latita – a tirarne fuori soddisfazioni di sorta: forse non ci si era mai abituati fino in fondo al loro delirio d’onnipotenza, del loro istinto di vivere la musica dall’alto verso il basso, tra i pandemonium sacrali prog che agganciavano kraut e affini, sta di fatto che questo nuovo album ce lo potevano benissimo nascondere e risparmiare, loro magari diranno che è un punto di vista musicale versato sullo sperimentalismo acuto di nuove direttrici bla bla bla, noi diciamo: quando non si ha più nulla da dire meglio zittirsi e pensare fitto sul futuro ripercorrendo il passato.

Un infuso confusionario di barocchismi, ematicità, voli a ribasso e virate senza senso, buona parte delle tredici tracce vitali sono ingarbugliate come una matassa infeltrita, qualche luce brilla fiocamente nelle psichedelie di “Noctourniquet”, “Absentia”, un minimo d’attenzione per le incazzature elettroniche che cortocircuitano “Dyslexicon”, “Lapochka” e un occhio di riguardo per l’unica bella commistione che ciondola oziosa dentro questa produzione, ovvero “The Malkin jewel” traccia dalla cinematicità alla T-Rex in un guazzetto di post-punk e sentimenti reggae; il resto è solo egocentricità di una band che cerca di portare il suo pubblico verso nuove spiagge, ma è illusione pura, poiché il pubblico della band messicana è già in subbuglio per via di questo disco anonimo e vuoto, un capitolo sonoro che “capitola” davanti alla liricità drammatica che Omar Rodriguez Lopez, Cedrix Bixler Zavala insieme al nuovo drummer David Elitch –  che ha sostituito Deantoni  Parks – cercano di prendere per i “capelli” pur di tirare in salvo qualcosa.

Gran dispendio di chitarre e tastiere astrali, space pathos da fiera delle meraviglie, ballate sovversivamente mostruose “Imago” e un bel minestrone multi-effects da non riscaldare ma da buttare direttamente nel lavandino delle cose da dimenticare a forza “Zed and two naughts”, e poi ci fermiamo qui per non affondare oltre il coltello; non tutte le ciambelle riescono col buco, è un dato di fatto,  i nostri “caballeros” deludono al quadrato, rinnegano i fasti di un avvio carriera luminoso per perdersi definitivamente nel vuoto del sottovuoto svuotato.
Non ci rimane che gridare:  Aridatece i The Mars (quelli di una) Volta!     

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