Max Sannella Tag Archive

Black Sabbath – 13

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Da premettere che lo scrivente è (era) un incallito pipistrellone succube dello stupendo doom primario dei Black Sabbath, schiavo senza catene della loro “messa nera” fatta di basso compresso, chitarra sulfurea, ritmi e voce luciferini che ascoltava prettamente da mezzanotte in poi ( quando si è giovani queste sono normalità guadagnate contro vicini e genitori indiavolati ma di ben altro), e per anni – pian piano smorzati –  ci si è immedesimati come giugulari pronte a farsi succhiare da Mr. Ozzy Osborne, ma appunto poi tutto passa e tutto svanisce.

Ho appena ascoltato 13, il nuovo lavoro per la riformata band di Birmingham e. con tutta franchezza l’amarezza ha preso il sopravvento, il sound, la pressione atmosferica, il pathos digrignate mantiene qualcosa di allora, ma si sente, eccome si sente, la noia e la stanchezza e la vuotezza che prevale in un tutto sonoro, è come entrare nel Museo Egizio e uscirne con la consapevolezza che mummie e sacerdoti effigiati abbiano ripreso a muoversi per un allestimento pacchiano dettato da chissà quale interesse; le fiamme, i carboni ardenti sempre accesi, il diavolo tentatore sempre in agguato, ma non è più nulla come una volta, l’età gioca brutti scherzi e sarebbe meglio mettersi in disparte per non scadere nel ridicolo del revivalismo a tutti i costi, e questo progetto di Osbourne, The Geezer, Tony Iommi e il nuovo Brad Wilk degli RATM e che ha sostituito alle pelli il mitico Bill Ward, ne è la prova lampante – non di idee – ma di un pastrocchio pubblicitario pur di non rimanere a galla nell’oblio, nel dimenticatoio.

Gotic, Doom, Metal e “venghino venghino siore e siori al grande miracolo del Gerovital” non vanno a concludere niente, i Black Sabbath con questo loro diciannovesimo album in studio rifanno è stessi allo sfinimento – e questo potrebbe essere anche una virtù – ma  è la vivacità, l’energia e la forma che è sparita per sempre, un teatro dei rientri che non aggiunge nulla – anzi credo che tolga al mito – se non una sceneggiata metallica per vecchi ed imbolsiti fan che pur di non ammettere la “resa” di una della più grandi band della storia, ancora sta lì a sbattere la testa alla faccia della cervicale dolorante; “God Is Dead?”, “Zeitgeist”, “Live Forever” o “Dear Father” – per citarne alcune – sono il bardo indistruttibile del logo Black Sabbath, ma fanno parte del Novecento, e senza nessun aggiornamento, senza alcun passo in avanti, va a finire che anche i pipistrelli che affolleranno ancora le loro prossime truculente manifestazioni di lugubre magnificenza, preferiranno darsi a gambe/ali levate pur di non scadere nel ridicolo, pur di non cadere nelle riunion da cassetta. Anche gli animali hanno un orgoglio!

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16 Lovers Lane – Propaganda

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E’ un esordio degno di nota, anche perché è un disco che dimostra di voler continuare a  cercare nuove direttrici per il suo portamento waveing, per le sue scolorite immagini atte a concepire un sistema d’ascolto ovattato, avvolgente e intensamente catarifrangente che ti affoga con sé fin giù sotto le inesorabili assonanze pulsanti del suo accoramento dolciastro.

Il quartetto veronese dei 16 Lovers Lane con Propaganda ci porta a scoprire il loro mondo verticale, dieci tracce di Ambient liquida e cinematica costruite in lussuriosi bagni di esili melodie malate, con le occhiaie e macilente immerse di basse frequenze fino  a raggiungere quella poetica maudit delirante che sa di tundre e guerre interiori, ossessioni e ipnotismi, un piccolo ma denso viaggio imperdibile ai confini delle ombre che a tratti solfeggiano rubini di brina folkly del profondo nord di una straniante Enya nella tripletta  “When I Sleep”, “William III”, “On Your Own”.

La maggior parte del registrato è un austero quanto qualitativo abisso sonoro che segue sincopi e flussi migratori di melodie fredde e incessanti, un gusto siliceo che modula onde e risacche notturne “Bad Poetry” e scuri meandri apneici sopra il bianco e nero dei tasti di un pianoforte “Hell (For Piano)”, mentre con “Stay” si cambia letteralmente registro, un pop sofisticato e classico che, accoppiato alla melodia americanizzata della stupenda ballata “Always Mechanical Clouds”, fanno da cerniera lampo ad un disco d’esordio da legare stretto, molto stretto alle intenzioni dei prossimi “acquisti” per le proprie e privatissime collezioni di chicche sonore.

I 16LL in questa list mostrano tutte le carte di una poetica che sa di incredibile, quasi a dodici pollici, un andamento lieve e continuo che costruisce da solo un intero disco, echi e controvoci, grigi e lune chiare che operano in un labirinto sonico nel quale – e ve lo raccomando di cuore – perdersi dentro sarà gioia e dannazione. Garantito!

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“Diamanti Vintage” Portishead – Dummy

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Il Trip-Hop con Dummy dei Portoshead ha il suo regno assoluto, lo scettro e la corona di un ragguaglio indistruttibile, la sua pietra miliare che, insieme ai Massive Attack e Tricky, non sarà – a tutt’ora – mai rimossa da nessun altro, e la Bristol caliginosa di nebbia e basse frequenze si innalzerà nei Novanta a capitale mondiale del genere.

Un disco cinematico, di talento e visioni atmosferiche letterarie, le pellicole degli anni Sessanta che tornano a srotolarsi per una nuova vita lungo gli strascichi di un Pop vellutato, invisibile e colorato al neon, digressioni sonore dal Soul al Bossanova, raffinatezze e sincronizzazioni che suggestionano l’ascolto come si fosse dentro una bolla d’aria, e poi quel divino decadentismo che si evolve e striscia esistenzialista come una foglia alla fine del suo ciclo vitale; Beth Gibbons voce, Adrian Utley chitarra/basso/theremin e Geoff Barrow alla produzione svelano il lato oscuro dell’anima inglese, apportano quella dolcezza amara e ovattata che ibridata dagli effetti sintetici a loop,  lo scretch mutuato dall’Hip-Hope quella melodia trasversale al French touch, diventa una formula sognante e trippy che ha lasciato segni indelebili in una generazione notturna, al limite del buio.

Undici brani preziosi, teneri e minimalisti, idonei per percorrere costellazioni oniriche e stati di grazia virtuali, la sensualità impalpabile della Gibbons è alle stelle, le impronte Jazz “Strangers”, “Pedestal”,  il soul rarefatto “Roads”, il Dream Pop di “Sour Times”, o la liquidosità eterea di “I Could Be Sweet” producono una serie di vibrazioni quasi estatiche, registri che si allungano e accorciano a seconda della struttura ipnotica o meno che il brano certifica, stop & go “Wandering Star” che vanno ad interpretare il pulse di tempie dilatate e vene a scorrimento aperto; definita la Billie Holyday dello spazio, la Gibbon insieme al sodale Utley firmano un disco che è una vera opera d’arte cosmique, quelle istantanee molecolari che una volta messe in moto sconvolgono con la dolcezza amara qualsiasi secondo della durata del disco e dove la parola “perfezione” trova finalmente e definitivamente collocazioni nella musica degli umani “umanoidi”

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Motel Connection – Vivace

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Prosegue la full immersion dei Motel Connection – Samuel, Pisti e Pierfunk dei Subsonica – nelle camera dell’eco, nelle zone sonore e abbaglianti dell’Electro-Pop in cui transitano compulsivamente dilatazioni ritmiche della dance che accelerazioni di stampo House e step, e Vivace ne è il sesto episodio della band, il sesto nervo scoperto al quale il trio da corpo e volume per una “nottata” forsennata e splendente come poche.

In tanti dicono meno epico del precedente e reduce da una crisi d’ispirazione che invece, aguzzando bene testa e muscoli, pare non pervenire e tantomeno rintracciare, tutto è un super slam dancey e ritmo ad intermittenza, è un tutto sound dove si scatena la voglia incontenibile del ballare, del ballabile e del ballereccio, tracce al fulmicotone che arrivano spingendosi come elettroni impazziti, grazie e goduria per chi affolla club e dancefloor alternativi, il tocco di classe sincopato della Jovanottiana “tribù che balla”.

Anni Novanta ed happening a josa, e forse il disco più compiuto da quando i MC si sono messi in piazza coi loro progetti collaterali, una forza che ha la dimestichezza totale di quello che fa vibrare sotto il suo potere, tracce “performance” possiamo insinuare che evidenziano a tutto tondo il trionfo della Techno-Dance, Dance e ancora Dance, e con il trio in questa nuova sparata di suoni stroboscopici il rapper Ensi nella caotica valanga di concetti “Vertical Stage” e Khary WAE Frazier in “Know”, e ancora l’intervento di Drigo e Casare dei Negrita, tutto il resto sono mine vaganti di sound e loud all’inverosimile che stordisce e diverte con le sue benemerite funzioni di piacere; undici tracce esplosive che non concedono tregua o momenti di calma, panacea per l’estate più che alle porte e viaggi cosmopoliti nel segno della trasgressione e del divertimento, come la fraudolenza canaglia di “Computer Power”, e “Praise God”, l’attimo stunz stunz  acido “Overload City”, una tinteggiata dei nero mistero “Eyes From Hell” e alla fine il rilascio totale di ogni volontà a fermarsi dai vortici insaziabili di “Vertigo”, chiusura che lascia un fiatone della madonna.

Ovviamente per osannanti folle della Techno colorata, per altri meglio andare a cercare uno squisito gelato all fruits da leccare avidamente.

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Pills nädal kakskümmend kolm (consigli per gli ascolti)

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“Le Pills rappresentano il piacere che la mente umana prova quando gode senza essere conscia di godere.”

 

Silvio Don Pizzica
Surfer Blood – Pythons    (Usa 2013)   Power Pop, Alt Rock     3/5
Un disco freschissimo, estivo e con melodie eccezionali. Perfetto per accompagnarvi per i prossimi tre mesi. Pop in salsa Smiths, Vampire Weekend e Strokes ma nessuna idea che possa dirsi minimamente nuova.
Human Thurman – Bye Bye Umani   (Ita 2013)   Alt Rock    3,5/5
Un disco che può sembrare confusionario per la moltitudine di influenze e diverse scelte stilistiche utilizzate ma che, con gli ascolti, rivelerà essere proprio questa sua diversità di spirito il punto di forza.

Max Sannella
Soul Asylum – Hang Time   (Usa 1988)   Rock  4/5
La favola di 4 adolescenti di Minneapolis che trovano l’asse personale sulla via degli Husker Du.
Soul Coughing – Ruby Vroom   (Usa 1994)   Ibrid Rock   4/5
Background dalle forti tinte off, un art rock accattivante quanto sperimentale. Seminali.
The Style Council –  Cape Bleu   (Usa  1984)    Pop Wave   3/5
Spregiudicatezza e nuovi sodalizi stilistici per una band retrospettiva e dal grigio doc.

Maria Petracca
The Muse – Showbiz   (Uk/Usa 1999)  Alternative Rock   4,5/5
Le origini. Il primo album in studio. Quando le chitarre distorte di Matthew Bellamy arrivavano come lance appuntite al petto, e là rimanevano, immobili. Sospese tra stupore e dolore.

Lorenzo Cetrangolo
Brunori Sas – Vol. Uno   (Ita 2009)   Cantautorato, Pop   4/5
Vincitore della Targa Tenco come miglior esordio, il Volume Uno (autobiografico, per la maggior parte) del cosentino Dario Brunori ha fissato su disco lo standard cantautorale “vintage” di questi anni: canzoni semplici, arrangiamenti retrò, recording lo-fi. Da suonare sulla spiaggia.
Transplants – Transplants   (Usa 2002)   Rapcore, Hip Hop   4/5
Piccolo gioiello a metà strada tra punk e hip hop, una creatura ibrida (un “trapianto”) che vede Travis Barker di Blink-iana memoria alle pelli e un caleidoscopico Tim Armstrong (dai Rancid) a quasi tutto il resto. Il disco scivola che è un piacere tra beat californiani, ironia sopra le righe e durezza da ghetto.
AFI – Sing The Sorrow   (Usa 2003)   Alternative Rock, Post-Hardcore   3,5/5
Gioiellino da quella scena americana di punk preciso, melodico, pettinato, un po’ plastificato. Alcune idee ingolosiscono (“Death of Seasons”), altre ci lasciano un po’ interdetti. Se siete rocker (o punx) duri&puri, girate alla larga.

Marialuisa Ferraro
Foals – Holy Fire   (Uk 2013)   Alternative   5/5
Praticamente da sola la tripletta Inhaler, My Number e Bad Habit fa la forza di quest’album. Suggestioni diverse per genere, ispirazioni, contenuti letterari, sensazioni.
Queens of The Stone Age – …Like Clockwork    (Usa 2013)   Stoner Rock    2/5
Ssssse. A me loro non fanno impazzire e ok, sarò partita prevenuta, ma questo disco pretende di essere ruffiano per piacere un po’ a tutti e finisce per non piacere a nessuno, per di più mi trasmette davvero molto poco…

Ulderico Liberatore
Gary Wrong – Knights of Misery   (Usa 2013)   Total Punk   4/5
Stufi delle solite canzonette Pop Punk?! Ecco una band singolare che potrà resuscitare in voi lo spirito
lo spirito antagonista e anarcoide distrutto dai Green Day.

Diana Marinelli
Genesis – Foxtrot   (Uk 1972)   Rock Progressivo   5/5
Bellissimo Rock targato Genesis per un album emblema degli anni settanta. Oltre che a consigliarne l’ascolto mi permetto di consigliare anche di ascoltarlo su vinile.
Myranoir – Ely è Leggiera   (Ita 2013)   Dark Psichedelico, Ambient   3/5
Myranoir nella realtà è Valentina Falcone, musicista che scrive musica dall’età di quattordici anni. Una musica Cantautorale, Psichedelica, con una puntina di Dark e soprattutto coraggiosa nell’affrontare temi importanti come l’anoressia.

Simona Ventrella
Fine Before You Came – Come Fare a Non Tornare   (Ita 2013)   Post Rock    4/5
Dopo una pausa di circa un anno e mezzo il quintetto milanese ritorna con un mini-album. Cinque brani che svelano una nuova veste del gruppo, più matura, cruda e ricca. Il disco è scaricabile gratuitamente dal loro sito, un motivo in più per ascoltarlo.
Omosumo –  Ci Proveremo a Non Farci Male   (Ita 2013)   Elettro Rock   3,5/5
Progetto b-side per Dimartino, Roberto Cammarata e Angelo Sicurella, che si cimentano in questo EP con attitudini e sonorità distanti dalle forma canzone ai quali siamo abituati. Elettronica , synth, chitarre indiavolate e ritmiche da dancefloor, e un bellissimo video del brano omonimo, tutto direttamente da Palermo.

Marco Lavagno
Goo Goo Dolls – Magnetic   (Usa 2013)   Pop Rock   2,5/5
Più ottimista e diretto del precedente “Something For The Rest of us”, ma anche più gommoso e molle. La formula spesso vincente questa volta si infrange in uno scontato sorriso. L’onestà per fortuna rimane intatta.
Lucio Dalla – Canzoni   (Ita 1996)   Pop, Cantautorato   3,5/5
Anche nei momenti meno ispirati Dalla tira fuori interpretazioni come “Ayrton” (pezzo scritto da Paolo Montevecchi). E con estrema naturalezza il pilota ora vola in cielo e persino il suo bolide prende corpo. Una di quelle canzoni per cui vale la pena comprare un album.

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Rokia Traorè – Beautiful Africa

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Rockia Traorè, l’artista del Mali (esiliata in Francia) non è molto avvezza – anzi quasi per nulla – a far parlare di sé o di partorire dischi a catena, le sue sono lunghe riflessioni pensate per anni, lunghi primi piani  sulle condizioni del suo popolo e del resto del mondo, la sua terra è scombussolata da guerre e dalle ombre dell’Islamismo integralista; sei anni fa il suo ultimo album Tchamanchè ed ora un nuovo episodio liberatorio, Beautiful Africa, album pieno di vibrazioni energiche, una naturalezza sorprendente e coloratissima di donna libera e autodeterminata, tracce che come anelli di congiunzione legano insieme tradizione e percorsi europei tanto da apparire un arcobaleno selettivo di bellezza e pop ibrido, contaminato in un arte – la sua – imprendibile e imperdibile.

Si,Pop e roots che si abbracciano, chitarre, basso e strumentazioni di oggi incontrano lo n’goni, ritmi ancestrali che sposano l’human beatboxer , il linguaggio Bambara che fronteggia gli idiomi del vecchio continente, un tutt’uno misticheggiante di spirito che scorre come sangue nelle vene,  che vola come sabbia sul cemento delle idee; disco strapieno di musicisti più o meno conosciuti come il batterista inglese Sebastian Rochford, (Polars Bears), i coristi Maliani e Mamah Diabatè allo n’goni, la chitarra di Stefano Pilla  dei Massimo Volume, il basso danese di Nicolai Munch-Hansen e l’australiano Jason Singh all’Human-beatbox, certamente un parterre di rilievo per questa tenera autrice, dolce ambasciatrice di un mondo caldo e scottante, costantemente filtrato da veli jazzly, sospiri francesi e frenesie della terra madre.

La sua voce è un diamante sofferente, rugiada sabbiosa che innesca un ascolto profondo, la filastrocca amara e corale “Ka Moun Kè”, il blues arido del Mali che soffia divinità in “Kouma”, la dolcezza terribile e notturma di “N’Tèri” e “Sarama”, e lo scatto rock-pop che stilizza la titletrack sono gioielli inestimabili,  fintanto che arriva di sorpresa il funk tribale di “Sikey” che strappa per alcuni secondi l’attenzione su tutto il resto, ed è allora che ti accorgi che il disco ti ha rapinato l’interiorità.

Imperdibile senza come senza ma.

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Vuoto Apparente – Storyteller

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Tracce intrise di utopie, amori, ricordi, constatazioni e illusioni, parole che fanno tiro alla fune tra amarezza dolcificata, pensieri che vorrebbero essere ottimisti oltre il livello di guardia delle nuvole: questa è la bella condensa che staziona nella poetica del cantautore siciliano Riccardo Piazza in arte Vuoto Apparente qui con l’official Storyteller, e la sua è una voce, un richiamo o eco fisico e consumato tra le pieghe delle storie che racconta e che parlano sincere, che fanno intravedere il rosso porpora delle loro venosità, dolci e risentite, ma sempre sul dondolio di chi le dice col cuore gonfio e un sorriso sempre abbozzato sulla faccia.

Cantautorato apprezzato tra il Pop e qualche immaginazione Rock, sette brani che inseguono i decibel dell’anima per esplorare e distillare poetiche a mezz’aria, urbane e lunatiche ma con sempre quel “fondino” – come in un bicchiere di rosso appena scolato – sul quale si rispecchia l’inclinazione di un giovane artista a tratteggiare senza mai incidere di forza situazioni passeggere o sconquassi profondi, raccontandole e stornandole come in un notes intimo ma disponibile a confidarle a tutti, ed è questa la forza di Vuoto Apparente, anche se il suo è un vuoto pieno di cose da conoscere e assaporare. Ironia e sarcasmo, verve e malinconia sono i punti forza dell’arte di questo siciliano, parole semplici e sguardi in tralice tra la società e le stanze di vita quotidiana, le analogie con colori smorti e squarci accecanti di luce, ma tutti contemplati con la purezza descrittiva di un osservatore dentro, che fa della canzone una pellicola da srotolare ogni volta che se ne avverte il bisogno di rivisitarla, di riviverla appieno.

E’ il primo passo discografico, ma già la racconta lunga, e l’occasione di  intercettare l’aria libera di un Benvegnù in “Dall’America Con Amore”, lo snodamento southerm che fila in “Farfalle Nel Metrò”, il voltarsi nel letto sfatto di una notte insonne “Il Mattino Non ha Loro in Bocca” o il field da fiore in bocca e cuore spezzettato “Fatti di Parole” è di quelle da non perdere. Le mode passano e le tecnologie musicali soffocano ma intercettare queste nuove penne di poesia ci fanno sperare bene e dedurre che il fattore semplicità è il vero miracolo di questi anni Zero sonici, il vero toccasana che conforta e ci rende più forti.

Lui è Vuoto Apparente, tanti altri sono solamente Vuoti A Perdere, e non è la stessa cosa. Consigliato!

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“Diamanti Vintage” The Prodigy – Music For The Jilted Generation

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Rivoluzione mastodontica in campotechno, gli inglesi The Prodigy fanno tracimare e conoscere nel mondo la controcultura rave, il clangore fulminante dell’elettronica, il mega big beat che, con i Chemical Brothers, The Crystal Method e Fatboy Slim, riempirà le tempie di più di una moderna generazione. Nel 1994  il dj Liam Howlett e soci danno alle stampe “Music For The Jalted Generation”, e nulla fu come prima, un disco che scoperchiò per sempre la teoria che l’ingegno creativo era cosa da invasati, drogati del mega sound.

Distorsioni sonore e vocali, intelligenze artificiali e tappeti di samplers a tutto volume, ritmi, Jungle, Dance-Punk, Techno e Break Beat, Alternative Dance con accelerazioni repentine, sterzate energiche ed organiche di disturbi sensoriali; poi una volta miscelati a dovere si danno ai livelli volumetrici del suono che, sparato a decibel assurdi, diventano la meccanizzazione alternative della goduria ottundente. Un disco che si è guadagnato in poco tempo la posizione di chiave di volta della techno di massa, la variazione e lo sciame dei suoni di nuova generazione e che va a scalare vertiginosamente hit parade e chart di mezzo mondo con la forza della sua ragione “contro”.

Regno di Drum & Bass e di una stupenda mescolanza d’inserti Hip-Hop e Metal a profusione, le tredici tracce che costituiscono l’ossatura al tungsteno del disco sono un potenziale mostruoso di hooks-hit che faranno la fortuna di palinsesti radiofonici, e porteranno la band alle più alte vetta di notorietà, simbolo e dannazione di milioni di ravers in cerca di jump-lives per abbandonarsi alle frenetiche onde di altrettanti mega sound-system armati di tonnellate di watt e watt; questo era il primo passo della formazione britannica alla notorietà di base, poi col successivo The Fat Of The Land tutto prenderà ancor più fuoco e suggellerà definitivamente la storia del quartetto. Brani come “Voodoo People”, “Poison”, “Their Low” – traccia quest’ultima che portò terribili tensioni con i Cypress Hill per via di certe assonanze molto vicine – a loro detta – al plagio di un brano proprio dei CH – e la sarcastica risata che rimbomba dietro il ritmo convulsivo di “Clautrophobic Sting”, sono pezzi di storia che ancora girano a mille, che ancora sono profezie cui molte giovani formazioni chiedono consiglio.

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A Copy For Collapse – The Last Dream On Earth

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Vivere in prima persona un viatico virtuale con le cuffie incollate agli orecchi e le sensorialità staccate da terra fa sempre un bel certo effetto, è un insieme di emozioni che ti fanno trattenere il respiro e orbitare in un qualcosa di plastico, gommoso, senza forma se non quella di un sogno il solitaria, dove tu piccolo astronauta casalingo, per una volta tanto ti senti eroe di mondi lontanissimi, inimmaginati. Tutto questo è il riassunto di una avventura, di un trainspotting hollywoodiano? Affatto, è A Copy For Collapse, il progetto del musicista pugliese Daniele Raguso e The Last Dream On Earth ne è il viaggio, il traveller su cinque strati di atmosfere, un tenue e maestoso arredo mentale per musiconauti  melanconici e avvincenti ascoltatori di altro, di apparizioni sonore che ritraggono in continui flash indiscusse matrici dreaming.

Elettronica buia e interni luminosi, una di quelle porte sonore che si aprono e chiudono senza che te l’aspetti, un lavoro elegante e sotto vuoto da interior sound-designer che l’artista pugliese architetta nella penombra cromatica di una tranquillità sinuosa quanto sintetica, nove incursioni tra Dub, Elettronica, Wave e Chillout Toro Y Moi e allunaggi corposi alla Board Of Canada che delineano ricche geometrie e pacatezze sconfinate, rari addensamenti uggiosi e immobilità che passano distratti per lasciare il colmo senso di libertà fisica e interiore, per finire – a fino ascolto –  reduci di una meraviglia riverberata e a galleggio di una bidimensionalità esemplare.

Una cascata di vibes, echi e atmosfere che sono in fila per raccontare – a pelle – un racconto avvincente che rapisce fin dal primo giro, un film senza immagini e una immagine che si fa film sin dalle prime battute, minimalismo e pastorale cosmica fanno il sangue impalpabile di questo esperimento senza peso corporeo, e tracce come i contrasti ipnotici di “State of Mid”, la tribalità sintetica “Grey Sky”, le conturbanti ritmiche istigatrici alla dance Ottantiana “Lysergic Lullaby” o l’interiorità senza fondo contemplata nelle acquosità di “Walking From Reality” completano lo stato mnemonico di una soluzione alterata che scatena – col suo tempo incalcolabile – il confine mai segnato della notte.

Mettetevi comodi e rilassatevi, e buona andata!

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Pills dudek du semajno (consigli per gli ascolti)

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“Ascoltando Pills calme e malinconiche, quando, nell’isolamento di una malattia, il nostro passato si riduce a pura materia di contemplazione, siamo come trasportati in un senso dell’esistenza alto e rarefatto. E nelle Pills è qualcosa di una giustizia austera e tuttavia compassionevole, che toglie ogni cruccio al ricordo delle nostre sconfitte, e amorosamente ci distacca dai nostri stessi desideri..”

Silvio Don Pizzica
Sigur Rós – Kveikur    (Isl 2013)   Post-Rock, Dream Pop     3,5/5
Un tre e mezzo che domani sarà un quattro. Gli islandesi riescono a reinventarsi senza distruggere la loro natura. Un disco fremente come lo era Takk ma meno furbo di Takk, capace di suscitare atmosfere belliche con sonorità industrial per poi sfociare in paesaggi di Ambient delicatissimo. Una sorpresa, visto che non è proprio il loro esordio
These New Puritans – Field of Reeds   (Uk 2013)   Art Rock, Post-Rock   4,5/5
Dopo un esordio non brillante e un’ottima seconda prova, la band britannica sembra giunta al capolavoro di una carriera. Devo ascoltare ancora tante volte, prima di dare un giudizio definitivo ma quelle contenute in Field of Reeds più che canzoni suonano come opere d’arte. Disco dell’anno?
BeMyDelay – Hazy Lights   (Ita 2013)   Folk Rock   3/5
Per l’italianissima Marcella Riccardi un lavoro difficile da inquadrare, tra rimandi al Folk, al Blues e alla psichedelia, evidentemente sincero e pieno di sè che però  non riesce a trovare una propria dimensione compiuta, lasciandoci in un limbo privo di emozioni

Max Sannella
Ritmo Tribale – Psycorsonica   (Ita 1995)   Rock   5/5
Da Milano la risposta alle allucinazioni americane, un pezzo di storia rock italiano fondamentale degli anni 90
La Crus – La Crus   (Ita 1995)   Rock Cantautorale   4/5
Forte accento di cose importanti nella nuova canzone italiana, Giovanardi marca stretto poesia ed intimità d’autore
Mau Mau –  Soma La Macia   (Ita 1992)    Etno-Rock   4/5
Il circus fantasmagorico di Morino, tra calienti tracciati e ritmi world la rivoluzione meticciata per nuove frontiere sonore

Maria Petracca
A Toys Orchestra – Technicolor Dreams   (Ita 2007)   Alternative Rock   4/5
Ci sono sogni sonori di tutti i tipi in questo disco: tranquilli, malinconici, movimentati, aggressivi, macabri ed infine incubi che provocano veri e propri attacchi di panico. Tante tonalità emotive, in perfetto stile Technicolor
The Cure – Wish   (Uk 1992)   Rock, Dark   4,5/5
Quando la musica ha un carattere schivo ed introverso al quale si alternano momenti di euforia. Quando “To Whish Impossible Things” ti sbatte in faccia la triste verità: i tuoi desideri sono rimasti semplicemente tali. Quando lanceresti le gambe al vento gridando al mondo “Friday I’m in Love”

Lorenzo Cetrangolo
In Zaire – White Sun Black Sun    (Ita 2013)   Psichedelica, Rock    4/5
Disco concettuale e per gran parte strumentale per una band capace di portarti in viaggio lungo sentieri poco battuti ma molto interessanti. Da trip
Mamuthones – S/t   (Ita 2011)   Etnica, Ambient, Drone   3,5/5
Riti tribali e atmosfere inquietanti. Un disco da non ascoltare nella solitudine della notte. Tornate uomini primitivi tra le ondate ritmiche e ossessive di questi sette brani indefinibili
Ehécatl – S/t   (Fra 2011)   Stoner Doom, Psichedelica    3,5/5
La sezione ritmica dell’apprezzatissimo trio stoner francese Blaak Heat Shujaa sforna un disco di “stoner doom precolombiano”. Ascoltare per credere

Marco Lavagno
Linkin Park – Minutes to Midnight    (Usa 2007)   Rock, Crossover   3,5/5
Rick Rubin mette le mani su una miniera d’oro ma dal cuore di plastica. Plasma da dentro e dona linfa e personalità a vene sintentiche. I Linkin Park finalmente escono dalla triste omologazione del mainstream americano
Jovanotti – Ora   (Ita 2011)   Pop, Elettronica   5/5
Questa elettronica è calda, fuoco puro. Un’artista che trapassa i decenni e le mode con il suo immortale sorriso

Ulderico Liberatore
Christine Plays Viola – Innocent Awareness    (Ita 2008)   Darkwave   4/5
Uno modo originale di essere. I CPV hanno portato avanti un genere in cui in Italia non avrebbe scommesso nessuno ma loro ce l’hanno fatta ad uscire dal bel paese e presentarsi sui palchi europei con grande stile

Diana Marinelli
Carnicelli Martelli – Chitarra Pianoforte    (Ita 2012)   Musica Classica    5/5
Due importanti concerti di musica classica, eseguiti dal chitarrista siciliano Marco Vinicio Carnicelli e la pianista bolognese Alice Martelli. J. Rodrigo e Mario Castelnuovo Tedesco per una tecnica classica impeccabile.

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A Violet Pine – Girl

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Dal primo all’ultimo pezzo. da “Pathetic” a “Pop Song For Nice People”, l’esordio discografico Girl dei Violet Pine è un mondo totalmente obliquo, da leggere in virtù della libertà espressiva e della bellezza amniotica che porta dentro i suoi panni sonori. Difficilmente da collocare dal punto di vista dei rimandi iconografici – se non per quella vena sottomessa alla Autechre, Mogwai – il disco è un’apnea in ambienti liquidi che hanno la potenza/virtù di creare interazioni differenti, differenti nel calibro e nella trasposizione alternativa per nostalgie e carezze sintetiche.

Siamo su territori da percorrere con l’ausilio sognante di buone cuffie stereo per intraprendere un viaggio in sospensione, un trip emotivo al silicio che non invade e spadroneggia lo spazio cognitivo e dreaming dell’ascoltatore, ma lo guida come un soffio insperato di boria grigio-scura, dieci tracce inafferrabili che descrivono con visione e perizia galleggiante un futuro possibile o  quello che magari vorremmo ma non stiamo vivendo, ovvio da non confondere con quelle traiettorie di musica per uomo-macchina tanto care a Tsukamoto Shinya, anche perché sembrerebbe una sperimentazione al paradosso, ma poi la “creatura” dei nostri A Violet Pine marcia da sola, glissa molte delle appartenenze assai pericolose in questa “cosmica wave satellitare” e tira dritto nel suo girovagare multistrato.

Qui non c’è  e non ci saranno i nomi di futuri composti chimici per musica in provetta, nessun motore di ricerca sonica per i motori di ricerca web 4.0 , ma solo una sana alienazione allucinata che viaggia, scruta, viaggia e delinea, e ancora si mette in contrapposizione o allinea ai giochi di una lamina d’urgenza interiore, alle inevitabili scosse malleabili e di bellezza a fior di aria che nei battiti ancestrali della titletrack, tra gli echi scandaglio di “Even if it Rain”, dietro il brivido spennato e assassino “Family” e la sperimentazione minimalista e senza punto d’appoggio gravitazionale “Fragile” amplia e spalanca un terzo occhio su immense morbosità e demarcazioni delle quali ne abbiamo esigenza per staccarci – anche per un lasso di tempo determinato – dal maledetto magnetismo terrestre.

Grazie del passaggio e al prossimo giro d’atmosfera!

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Il Maniscalco Maldestro – …Solo Opere Di Bene

Written by Recensioni

Odiosi, casinari, massicci, amari e roboanti, in poche parole strabilianti, una di quelle band che sono redditizie per ogni genere di orecchi: lanciatissimi da Volterra tornano Il Maniscalco Maldestro, il groviglio sonico che più di tutti porta a significato il senso delle ottime cose, affogando i minimalismi e le angosce di tanto nerdume intorno in un vortice di imprevedibilità e baldoria precostituita, un ascolto che una volta imbracciato il flusso delle loro canzoni, di redimersi ad altri stili non se ne parla proprio.

Solo Opere Di Bene non è un passaparola fittizio per nascondere una aspettativa di parole secche e pastrocchi non rifiniti, ma un disco esplosivo, scatenante e da corteggiare in quanto è vero, vivo e senza compromessi, una tracklist a “sceneggiate” musicali per una acty-band tra le più promettenti in giro. Deliziosamente squilibrato e fuori, alieno alle mode, il disco dei toscani stampa un caos variegato, uno Zappiano move-it che salta come un indemoniato al cospetto di certi vezzi Caparezziani, e in mezzo le eccitazioni distorte di gole arrossate, tastiere sixsteen, rockettate a taglio, teatralità e poesia  a testa in giù, praticamente tutto quello che può trasmettere energia e simpatia brutale, dopodiché la stravaganza di un modo di concepire musica rifinisce questo magmatico dodici tracce, che più che tracce potremmo decifrarle in piccole esperienze sensoriali senza nessun THC a dare di manforte, a fare da ulteriore spessore “tecnico”.

Autentico bordello organizzato, i IMM sono una efficace quanto artistica quadratura alternative, quella dimensione anarco/jump-inducting che, esaltando le radici di una certa “commedia dell’assurdo”,  riesce a colorare, trasmettere e (ri)trasmettere la condizione del teatro della vita, quei salti,  urli e quadri iconoclastici delle “stanze di vita accanto” che sarebbero tanto piaciute ad un Pasolini se non addirittura ad un Malaparte;  scaffalata nella mente la riproposizione personalizzata di “Nessun Dolore” di Battisti avanza il passo guascone e Gaetaniano di “Briciole”, lo zampettare Gipsy su aria alla Buscaglione “Niente d’Importante”, lo Swing da cartoons che sghembeggia divino in “Confessioni Di Un Italiano Medio” prima del Funk/Ska di “Declino Lento” per terminare la corsa in una murder-ballad “Resto Qui”, sibilo, confessione e coro scorato di un’anima/anime in pena che sigla alla grande questa impazzita scheggia di schiettezza di provincia.

Ce ne fossero! Il nuovo Signor Disco dè Il Maniscalco Maldestro, bello e rischioso come uno zig-zag sulla tangenziale di notte e  senza lampioni.

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