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AC/DC – Rock or Bust

Written by Recensioni

Una leggenda. Un suono che è una roccia. Ma che ora, a quarant’anni di distanza dall’esordio, pare proprio iniziare a sgretolarsi. Questa è l’impressione prima dell’ascolto di uno degli album più attesi e più chiacchierati della carriera degli AC/DC. Il masso ormai enorme, direi monumentale, perde in serie due pezzi. Prima la dipartita forzata di Malcolm Young per problemi di salute e poi la follia di Phil Rudd, coinvolto in strane faccende criminali in patria (ma sembra comunque abbia registrato l’album). Vero che la band non si è fermata neppure davanti alla scomparsa del frontman Bon Scott, ma quello era il 1979 e Angus Young aveva 23 anni. Ora Angus è un piccolo ometto di 58 anni, sempre più minuto e senza capelli. Senza il fratello, ora pare pesare tutto sul suo minuto groppone. Tutti saremo d’accordo col dire che finché c’è Angus ci sono gli AC/DC e il loro suono ha dell’immortale, ma questo disco pare avere tutti i presupposti per essere quello del pensionamento. Dopo l’ascolto che si può dire? Sorprese? No di certo, ma “Rock or Bust” non suona per nulla come un addio ed è un album perfettamente AC/DC, né tra i più ispirati né tra i peggiori dell’era Brian Johnson (mi spiace ma quelli con Bon Scott sono lontani anni luce). L’assenza di Malcolm è colmata dal nipote Stevie Young, stesso sangue e stesso sound (sfido chiunque a capire dove stanno le differenze) e il songwriting è un po’ meno ispirato rispetto al precedente “Black Ice”, ma di certo migliore delle produzioni degli anni 80 (tolto il gioiello “Back in Black”). La title track apre le danze con un riff monolitico, lento al punto giusto, un carro armato che avanza piano ma capace ancora di spianare tutto. Il testo non lascia scampo all’immaginazione: “we are a good time band, we play across the land…In rock we trust, it’s rock or bust”. La voce di Brian Jonhson è più in forma che mai e (diciamo la verità) la produzione di Brendon O’Brien è capace di rendere oro anche pezzi non memorabili come “Miss Adventure” e “Rock The House”. La sua manina magica si sente nei pezzi più vicini a “Black Ice”: “Rock The Blues Away” ha il mood festaiolo di “Anything Goes”, mentre “Dogs of War” pare essere uno scarto della scura marcia presentata otto anni fa in “War Machine”. Entrambe rimangono comunque meno ispirate e suonano decisamente meno fresche. Pure il singolo “Play Ball” punta sull’immediatezza ma suona scontato ed è salvato solo da un assolo da manuale dell’inconfondibile eterno ragazzo. A dire il vero Angus solleva le sorti di molti brani di “Rock or Bust” con i suoi vibrati e le sue pentatoniche che come sempre invocano ai vecchi demoni di Robert Johnson.
Per sentire un pezzo davvero accattivante bisogna aspettare “Baptism by Fire”: riff veloce, basso e batteria galoppanti e Brian che pare rendere tributo al suo predecessore. Fiamme, groove da manuale e Blues tirato a mille. Si, anche così, questa rimane una delle migliori Rock band in circolazione. Produce quarant’anni dopo la sua nascita un album senza infamia e senza lode, ma che comunque strappa un sorrisino e non lascia tregua al piede. Dite quello che volete su di loro, ma sono ancora la sicurezza di schiacciare “play” e ballare intorno alla roccia, ammirarla, ridere del tempo che passa, ricordando quanto sia vitale e necessario il loro Rock’N’Roll. Dimenticando per un attimo tutta la merda che ci gironzola intorno.

 

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