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Mad Chickens – Kill Hermit!

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In un progressivo evolversi di personalità e ottima capacità compositiva, il trio abruzzese dei Mad Chickens continuano la loro strada, seguitano a brillare di una elettricità distintiva che compare anche nel nuovo e secondo album Kill, Hermit!, una tracotante attitudine a pigiare  pedaliere per tirarne fuori l’anima maledetta e lo spirito costernato di un Rock che si assume tutte le spigolosità emaciate di intonazioni amare che tra progressioni sperimentali, noise, Nirvana e Courtney Love “Kill, Hermit/Gun In My Head alticci (ma và), L7 storte e profumi di narcoticismi a go-go  “Mr. Harvey, (Light A Candle Glory)”, “Black Magic/Black Allergic”  fa breccia tra stereo infiammati e woofer tra le nuvole.

Laura De Benedictis chitarra/tastiere/voce, Valeria Guagnozzi voce/chitarra e Nicola Santucci alla batteria – questa la formazione al completo –  suonano un disco stimolante, di buon livello e di profilo ottimo, inquieto e conflittuale come si conviene se si vogliono perpetrare la varie “maledizioni” del rock, molto sporcato da sistematiche altimetrie distorte e molto rivolto al meglio di una certa scena “psichelicamente beat d’antan” targata 60’s/70’s e giù di li, quella dei voli pindarici senza ritorno e dei radenti psichedelici; dodici tracce varie e di tessiture diverse che aggiungono ogni qualvolta un timbro e un’ ammissione innocente di contaminazione riscontrabili raramente nell’oggi dell’underground, come la ballata acustica made in Grace Slick “Fell In Love”, l’hit surfer “Broken” o l’attraversamento all’ascolto della tenera e gravitazionale sequenza di “The Tin Man”, brano Folk-Prog che lascia una scia languida e stranita come nella meglio tradizione Curved Air.
La definizione calzante affibbiabile a questo trio è quella di una stimabilissimo “rock band in progress”, ha un modo di maneggiare musica che non si placa sugli stilemi lisi e consunti di fare Rock pur di valvolare rumori e prestanze, ma di ricercarne le vene nascoste prendendo dal contemporaneo e dal “vintage thing” i filamenti e poi trasformandoli in piccole gemme stupefacenti, come gli “sforzi viscerali” che “Liar Dog pt. I e II” conseguono nel fine ascolto.

Se è vero che gallina vecchia fa buon brodo, queste tre galline pazze ma giovani ci mandano a noi nel brodo, ma di giuggiole! Consigliato per chi cerca cosa buone e sfocate.

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Aedi – Ha Ta Ka Pa

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Una delle più promettenti e deliziose realtà della penisola viene da San Severino Marche e risponde al nome di Aedi. A distanza di circa tre anni dall’opera prima Aedi Met Heidi, esce proprio nel 2013 il loro lavoro più ambizioso, Ha Ta Ka Pa, realizzato sotto l’ala protettrice di Alexander Hacke, basso, chitarra e voce nei mitici Einsturzende Neubauten. Tale sodalizio, si mostrerà evidente nell’evoluzione del sound della band che, messe da parte le atmosfere pastorali degli esordi, acquista un’energia e una forza eccezionale, rispetto al recente passato.
Ritmiche quasi Math si alternano a sferzate chitarristiche stile Built To Spill nel brano d’apertura “Animale”, certamente uno dei punti più alti dell’opera nel suo miscelare quel Rock alternativo anni 90 a potenza quasi crossover senza disdegnare momenti Punk Cabaret alla Dresden Dolls (vedi anche la parte che anticipa la chiusura di “Fohn”) quando il piano delirante insegue la chitarra, sullo sfondo di una voce angelica e demoniaca allo stesso tempo.

La voce di Celeste Carboni, melodiosa, anche quando alza i toni in vocalizzi mefistofelici che ricordano Diamanda Galas (“Animale”, “Idea”) riesce a essere leggera, morbida ed eterea mostrando non solo la sua timbrica affascinante ma anche discrete capacità e qualità canore.
L’importanza di Alexander Hacke, nello sviluppo del suono nuovo degli Aedi diventa palese negli episodi in cui le ritmiche si fanno tribali e assillanti e le chitarre distorte, sferzanti e taglienti (“Idea”).
I legami col recente passato, fatto di avanguardie folk e rock minimale, della band marchigiana non mancano (“Rabbit On The Road”), cosi come si possono intravedere strizzate d’occhio alla scena Indie più attuale (di scuola Arcade Fire) in pezzi come “Fohn”, brano gradevole, vertiginoso e trascinante all’ascolto ma senza il piglio innovativo che ci ha fatto apprezzare gli Aedi passati. Certamente, se preso come un intramezzo necessario per dare slancio a Ha Ta Ka Pa, è un pezzo più che riuscito, ma le cose migliori sono altre. Discorso simile per “Nero” che invece sembra riprendere le sonorità cupe e introspettive, specie nella sezione ritmica, degli ultimi Radiohead e per “Prayer Of Wind”, che tuttavia ricalca stilemi più vicini al Dream Pop (anche se la parte corale nel finale non può non far pensare ai canadesi già citati) mantenendo intatta quella vena ancestrale che pare fare la fortuna dei marchigiani. Non è quindi un semplice divertissement quest’avvicinamento alla scena Indie ma lascia lo spiraglio per una futura possibile nuova evoluzione, fortemente rischiosa da un punto di vista artistico ma che può certamente aiutare ad ampliare la fetta di pubblico interessata al sound Aedi. C’è da dire che, soprattutto grazie allo stile canoro bucolico di Celeste Carboni, la popolarizzazione del loro sound non sembra possa mai trasformarsi in mera banalizzazione, ma sarà tuttavia il futuro a darci tutte le risposte in merito.

Dopo le note leggere e dreamy di “Tomasz” arriviamo alla parte più interessante dell’album, che inizia con la spettacolare “Yaca”, fatta di chitarre acidissime, tribalismi martellanti e atmosfere lisergiche anni sessanta/settanta. La voce lucente di Celeste vibra in un’apparente monotonia ipnotica, quasi a ricordare Grace Slick e i Jefferson Airplane di “White Rabbit”. La chiusura è affidata a “The Sound of Death”, litania languida in crescendo di quasi solo voci (in questo caso Celeste non è sola), con accompagnamento chitarristico Slow/Sadcore e velatamente folkeggiante che diventa sempre più folle, distorto, pazzoide e frastornante a mano a mano che l’enfasi vocale aumenta la sua intensità. Il modo migliore per chiudere un disco che mantiene le promesse fatte cinque anni fa e che lascia nuove speranze per i talenti del nostro paese. Un disco assolutamente da ascoltare e una band da non lasciarsi sfuggire.

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