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Two Guys One Cup

Written by Interviste

Quando credi che la serata sia già finita e ti appresti ad affrontare il bicchiere della staffa, di norma non ti aspetti più di tanto dal resto della giornata. Invece, a volte, succede qualcosa che può sorprenderti piacevolmente e che può portarti a prolungare ancora la serata (ed anche a continuare a bere, ma questa è un’altra storia). Disilluso e stanco mi trovo per caso ad ascoltare, nel buio del Qube di Pescara, un duo di power rock veramente valido ed a me fino ad allora sconosciuto, i Two Guys One Cup. Stefano Galassi, il batterista, picchia sodo e pare non perdere mai la concentrazione mentre Federico Falconi suona come un invasato la sua chitarra e coinvolge con le sue liriche anglofone. Ma dove sono finito? Non volevo farmi un solo bicchiere ed andare a casa? Invece, dopo una ventina di bicchieri della staffa, ecco che parte inevitabilmente la chiacchierata.

Two Guys One Cup. Dove nascono, cosa fanno e dove vogliono arrivare?
Noi veniamo da Teramo, ed il nostro genere può essere associato al rock indipendente, anche se di preciso non sappiamo classificarci. Riguardo a dove voler arrivare beh, vorremmo diventare famosi solo per avere una giustificazione nel portare gli occhiali da sole di notte. È da artisti. Con le lenti specchiate, magari.

Parliamo un po’ della vostra musica. Quali sono le vostre influenze? Vi ispirate a band come Japandroids o Death From Above 1979 che vi somigliano molto sia per formazione che per musicalità o le vostre scelte sono diverse?
Noi non abbiamo propriamente delle ispirazioni, a parte magari Hives, Mojomatics e roba simile. Facciamo semplicemente quello che ci piace e cerchiamo di farlo nei nostri limiti. Puntiamo molto suoi suoni, essendo un duo dobbiamo spingere su quest’aspetto per creare un sound compatto.

Il panorama italiano musicale al momento: vi appassiona o vi fa schifo? Come vi ponete al suo interno o meglio, c’è un posto per voi al suo interno?
La scena italiana è morta anni fa. Non c’è spazio per i giovani, per le band underground o per chi cerca semplicemente di fare musica che non sia mainstream. Però siamo ottimisti: forse, un giorno, qualcosa si ricostruirà e noi saremo lì, pronti ad occupare il nostro posto.

Quanto pensate che la formula del duo sia vincente? Come nasce l’idea di suonare con una line-up così scarna?
È sicuramente un’idea vincente al 100%, poiché ci aiuta ad essere più liberi ed indipendenti. Essere in due ci aiuta molto in questo, non ci sono fronzoli e cerchiamo di essere più diretti possibile. La difficoltà arriva soprattutto durante i live: in due devi spingere per cinque, cercando di trovare il suono e la potenza giusti per non far rimpiangere una formazione classica di più elementi. È difficile anche perché il pubblico nota molto più i tuoi errori: se sbagli in una band “canonica”, non risulta così evidente come quando si è in due.
La scelta poi nasce fondamentalmente dall’amicizia e dalla voglia di cercare qualcosa di veramente impegnativo che ci soddisfacesse a pieno: in due è più facile far collimare le idee, ma un altro conto è farle suonare bene quando si hanno a disposizione solo chitarra e batteria.

A proposito di cose difficili: la scena musicale della vostra regione è già di per sé scarna ma anche inficiata da un mare di cover/tribute band. È difficile suonare per voi nella vostra regione?
La musica ormai è solo una questione di soldi. A chi gestisce questo mercato non importa la qualità o la novità, ma la quantità di gente che porti. Ed il problema non è solo in Abruzzo, ma in tutta Italia ed anche all’estero: a Londra abbiamo visto che suonano una marea di cover band, anche se chi ha proposte originali ha molto più spazio rispetto che da noi.

I vostri testi sono in inglese. È una scelta portata esclusivamente dalla musicalità del prodotto finale o legata alla voglia di uscire fuori dall’Italia?
Non abbiamo mai pensato di fare testi in italiano perché fermarsi qui vuol dire morire. Se vuoi campare e farti conoscere qui con la musica è meglio fare del pop, e non è di sicuro il nostro caso. Cerchiamo di andare avanti con i nostri pezzi per espatriare, restare unicamente qui è deleterio. Prima c’era più spazio per gruppi emergenti o originali, sia nei centri sociali che nei locali si suonava parecchio, forse perché c’era anche più cultura musicale. Oggi Dj Set e cover band spadroneggiano e fanno molti più numeri che una band sconosciuta; questo ti porta a desistere, ma allo stesso tempo ti sprona ad andare avanti per dimostrare che la tua è comunque una proposta valida.

A questo proposito: cosa manca alla cultura musicale italiana rispetto a quelle anglosassoni o mitteleuropee?
Il valore della musica è differente. Si è perso il gusto di ascoltare rock o punk qui in Italia, non si trasmette più il fatto di ascoltare musica come cultura ma solo come forma di disimpegno. Poi ricerca e cultura in ambito musicale sono scomparse. Tutto questo si riflette anche sul pubblico, che cerca sempre di più una forma di intrattenimento “leggero” piuttosto che fermarsi ed ascoltare. La gente forse non sa che esistono band che spingono allo stesso modo davanti a quattro o quattrocento persone. Noi siamo così, abbiamo limiti di carattere tecnico ma sul palco diamo tutto e lo facciamo per passione, di certo non per darci delle arie. Poi c’è chi va a suonare, prende i suoi soldi ed il giorno li usa per mangiarsi una pizza. Noi non siamo così.

Parlateci un po’ del vostro disco Life Beyond the Door e dei vostri progetti futuri.
Life Beyond the Door è uscito da un mese ed è completamente autoprodotto, ascoltatelo, ne vale la pena. Inoltre siamo già in studio con altre idee, anche se è prematuro parlarne. La prossima data sarà a Roma, seguiteci su facebook per scoprire tutti i nostri live.

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Gambardellas – Sloppy Sounds

Written by Recensioni

Quando ho scoperto chi e cosa fossero i Gambardellas sono stato immediatamente colpito dalla fortissima immagine di un piatto di pasta al cioccolato. Prendete la pasta: è buona, piace a tutti, in bianco, al sugo, con la carne, con le verdure. Prendete il cioccolato: fondente o al latte, bianco o nero, anch’esso incontra il favore della maggior parte della popolazione mondiale. Ora, se siete dei puristi gastronomici, storcereste il naso solo a pensare ad un bel piatto di spaghetti con la Nutella©. Non negatelo, non fate quelli col palato fino e la mente aperta e storcete quel cazzo di naso. Storto? Bene. Poi la assaggiate e vi rendete conto che, per quanto la nostra tradizione dovrebbe escluderne l’esistenza, la pasta al cioccolato vi piace. Vi sorprendete e pensate che vostra nonna non l’avrebbe mai preparato per voi quel piatto di spaghetti con tanto di buonissima salsa marrone ‘ngoppa.
Portando questo paragone in termini musicali ecco inserirsi i Gambardellas, che per pasta hanno il loro sound bello rock e definito, e come cioccolato il loro deus ex machina, Mauro Gambardella appunto, che poi risulta essere l’epicentro di tutta la creatività dietro a questo fresco e interessantissimo progetto. Mauro non è di certo nuovo al mondo del rock indipendente (ricordiamo che ha fatto parte di band come George Merk, Thee Jones Bones, the R’s e Paletti) ma, in quanto batterista, è stato sempre confinato dietro a piatti e fusti col solo compito di trovare ritmi e portare tempi. Quando ha provato a dire qualcosa in più proponendosi come compositore, pare sia stato sempre guardato come l’alieno della situazione o, per meglio dire, come un piatto di pasta al cioccolato. Essendo io musicista (per modo di dire), in effetti, non ho quasi mai incontrato né sentito parlare, a parte qualche eccezione degna di nota, di un batterista compositore; bene, questa è sicuramente una di quelle eccezioni. Succede che, non scoraggiato dai rifiuti di chi non riusciva a capire come un batterista potesse scrivere un pezzo, Mauro si rimbocca le maniche, chiama qualche amico (fra cui Fabio “FabztheDale” Dalè dei Mamakass) e decide di cucinarselo da sé il suo piatto di spaghetti al cioccolato, e con ottimi risultati.

Nasce così questo Sloppy Sounds, disco di esordio della band, che con i suoi 9 brani 9 di garage rock ben contaminato, intelligente e diretto colpisce immediatamente e si fa riascoltare senza indugio. Pezzi anglofoni belli tirati, ritmiche ottimamente studiate e una pulizia nella registrazione non comune (il missaggio è a cura di Fabio Trentini, già produttore tra gli altri di Guano Apes e Mas Ruido) rendono la ricetta sicuramente vincente: alcune tracce sembrano hits partorite da qualche illuminato d’oltremanica pronto per la top chart (Tito, Josh), altre sono sicuramente delle perle per intenditori (Shine Again), altre ancora ti scolpiscono in mente i loro andamenti r’n’r (Needs), ma tutte lavorano bene all’interno dell’insieme e fanno di Sloppy Sounds un disco davvero completo. Non si accettano improvvisazioni e abbozzi: i brani sono, nella loro linearità, eseguiti alla perfezione (con delle sezioni ritmiche che suonano come in certi dischi dei Faith No More) e arrangiati con sapienza e meticolosità, facendo del disco un affresco dettagliato dove nulla è lasciato al caso dalla prima all’ultima battuta. L’unica pecca (se di pecca si può parlare) è forse la copertina, un po’ troppo semplice e povera forse, ma sono miei gusti personali e, come è risaputo, io non capisco una mazza. Fossero così tutti i lavori primi delle band emergenti italiane avremmo una scena da far invidia a tutti i paesi anglosassoni che macinano rock in quantità industriali. Che inglesi ed americani venissero a mangiarsi da noi un bel piatto di pasta al cioccolato: ai fornelli ci sono i Gambardellas, il successo è assicurato.

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Small Giant – Now We’Re Gone

Written by Recensioni

Ai tempi della mia remota adolescenza le primissime scelte musicali che operavo si basavano principalmente, oltre che sul genere, sulla copertina. Sì, quella cosa che tutti oggi chiamano cover per aumentare il proprio livello di figaggine. Una buona cover fa di un ottimo disco un disco eccezionale, lo completa e gli dona quel valore aggiunto che altrimenti non potrebbe ben veicolare la sua fruizione e distribuzione. Non provate neppure a pensare che sia un mero accessorio non facente parte di un disco nella sua totalità: dimostrereste che di musica non ne capite proprio un cazzo. Ben lungi da chi ci legge. Bene, la cover di questo album lo identifica in maniera egregia, e non è roba da poco nel mondo del fai da te di oggi, dove tutti si sentono fotografi o grafici con uno smartphone in mano. L’immagine è quella di una libreria piena di libri e giocattoli (molto ben realizzata) piena di citazioni provenienti dal passato (vi invito a cercarle), un rimando voluto all’età dell’adolescenza che fa da filo conduttore in questo ep di italo dance, così come ama definirla il suo autore Simone Stefanini, già conosciuto ai più per essere il chitarrista dei Verily So, ma che in questa sua escursione solista si presenta come Small Giant. Anche lo pseudonimo da lui scelto è dei migliori, essendo che qualsiasi adolescente si sente un piccolo gigante dentro. Molti anche fra le gambe, ma questa non è sede per dibattiti di tipo freudiano, qui si parla di musica, e di musica continuiamo a parlare.
Questo Now We’Re Gone nasce come vero e proprio tributo ad un certo tipo di musica degli anni ’80 e da subito attira l’attenzione per la sua semplicità e la sua pulizia, dirottando l’ascoltatore più che sulle citazioni, sulle intuizioni e le atmosfere che i brani lasciano traspirare coinvolgendolo nei suoi suoni essenziali ma tiepidi e rassicuranti.

A partire dagli arrangiamenti dei brani, l’album suona compatto e delicato, le sue melodie si intersecano alla perfezione ed esondano (notare il termine esondare, anch’esso reminiscenza delle mie interrogazioni di geografia in piena adolescenza) in un ordinato e ben bilanciato ascolto. Now We’Re Gone si articola molto bene a partire da We Were Fuckers, con il suo sound pacifico, passando per le tastiere frenetiche e la chitarra selvaggia di The Night Apollo Died (Apollo Creed, proprio lui), o alle più introspettive Murakami e The Other MeDivisi, con il suo vocoder ed i suoi suoni fortemente pacifici ci trasporta dritti dritti in una qualsiasi domenica pomeriggio del 1987, mentre è evidente lo struggersi da quindicenne trasportato avanti nel tempo in Another Way to Die. La bonus track, Neverending Story, è proprio quella Neverending Story, colonna sonora della pellicola che un po’ tutti conosciamo e che, nonostante l’ottima realizzazione, sembra a mio parere leggermente troppo ridondante ma tutto sommato azzeccata per completare l’insieme. Il sound del disco nasce da basi elettroniche molto semplici arricchite da tastiere e chitarre molto ben studiate (The Night Apollo Died su tutte) e parti vocali di tutto pregio. Il tutto per merito anche delle ricchissime collaborazioni, come quella di Laura Casiraghi degli Starcontrol, o Davide Lelli dei The Please, per passare aStefania Salvato dei Talk To Me, ad Emanuele Voliani dei Bad Love ExperienceLuigi Cerbone degli Elara, oltre ai due Verily So Marialaura Specchia e Luca Dalpiaz, fino alla più prestigiosa di John Neff dei lynchani Bluebob.
L’album suona quasi come una sperimentazione a tutto tondo dove poter affondare la zanne più del solito e dove anche la sua etichetta, la Fairy Sister, sperimenta la sua stessa esistenza, essendo questa la sua opera prima.
Now We’Re Gone è sicuramente un’ottima prova che lo stesso Stefanini affronta a testa alta, parlando linguaggi a volte diversi dai suoi abituali ma con grande dimestichezza, pronto a mettersi in gioco per divertimento ma anche per cercare un po’ se stesso, proprio come tutti i buoni adolescenti non mancano di fare.

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Calcutta – Forse…

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È scientificamente provato che vivere l’esperienza del viaggio nel tempo ha pesanti ripercussioni sul fisico e sulla mente. Io, ad esempio, ne ho vissuta una proprio di recente ed ora mi sento debilitato e fuori forma, faccio fatica a concentrarmi ed a portare a termine qualsiasi semplice azione quotidiana. A parte lo shock di essere catapultato ai giorni della mia adolescenza dove tutto sapeva di brufoli e marmellata, il trauma più grande è stato trovarmi faccia a faccia col me stesso di 20 anni fa che, traslucido di fronte allo stereo, mi ripeteva: “Non farlo, nooo!”. Un evidente caso di paradosso temporale, che avrà pesanti conseguenze sul mio futuro e forse anche sul mio passato. Forse prima di quell’incontro ero un ricco e lardoso figlio di puttana che se ne stava stravaccato sul suo yacht a contare soldi e prendere il sole… Ma veniamo al punto.
È successo che con estrema curiosità ho inserito nel lettore del mio stereo questo Forse… di Calcutta, un giovane cantautore di Latina che si propone forte solo della sua voce e della sua chitarra acustica, e già penso ad una di queste nuove leve dell’indipendenza nostrana tutta barba, occhiali da nerd e melodie esili esili pronte a buttarti nella malinconia e nella depressione. Invece nulla di tutto questo. Parte la prima traccia, Senza Aciugamano, che è da subito molto piacevole e ricorda lievemente i Grant Lee Buffalo per ritmica ed impatto, ma non solo… Il brano si fa ascoltare senza alcun impedimento e prosegue naturalmente fino alla fine, ma è netta una sensazione di deja-vu che ne permea l’esecuzione. Non riesco a capire cosa sia, bisogna andare avanti…
Solo al terzo brano il collegamento è ovvio. Me ne rendo conto quando davanti a me si materializza il poster di Lucio Battisti che mia cugina teneva orgogliosamente sulla parete più grande della sua camera e che ora è proprio qui, davanti a me, evocato dal timbro rauco e distante del nostro Calcutta. Mica roba da poco, direte voi. E no, rispondo io, ma ce ne sarà davvero bisogno? Vado avanti e non mi scoraggio, anche se i miei jeans sono improvvisamente diventati a vita alta. Calcutta si muove bene fra liriche accattivanti e acrobazie semantiche, ti lascia canticchiare ciò che hai appena ascoltato imprimendotelo bene in mente, a volte anche abbandonando strade già tracciate per avventurarsi in interessanti escursioni meno melodiche come in Nicole o nella spiazzante Il tempo che resta sing along, ma l’impressione che resti troppo ancorato al passato è evidente nella maggior parte dei passaggi. Intendiamoci, non che sia un plagio del buon Lucio con tanto di motocicletta e hp, ma questo Forse… ne respira appieno le arie peraltro conosciutissime e si confonde un pochino col già ascoltato. Pregevolissime sono comunque le citazioni (Arbre Magique), simpatico il tormentone dell’amico Enrico (Enrico), trascinante il non-sense (Cane) e interessanti le liriche (Pomezia, dalla quale Flavio Scutti ha tratto anche un video), ma forse non abbastanza per convincere chi ne è incuriosito ad apprezzare in toto il progetto che tuttavia si fa ascoltare ed apprezzare in quanto ad esecuzioni ed idee. Purtroppo la pesante eredità a cui si aggancia e che mi trasporta indietro nel tempo ne sminuisce la preziosità e non ne premia la bellezza anche se, ed è da rimarcare, è di certo un buon disco. È da sottolineare che il nostro si deve essere già cimentato col buon Lucio nazionale e che ne è sicuramente profondo conoscitore nonché artista che ha saputo far suo uno stile piuttosto che limitarsi ad imitare, ma per farsi conoscere ed apprezzare dal pubblico per le sue doti cantautoriali forse dovrebbe discostarsene ancora.
Comunque dal giorno in cui ho ascoltato Forse… comincio a rimpiangere i pantaloni a vita alta: controindicazioni da viaggio nel tempo.

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Operation Light/Universe – Operation Light/Universe

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Quando: un qualsiasi giorno invernale lavorativo (nota: fuori fa un freddo cane).
Dove: il bagno di casa mia, con la vasca piena.
Perché: è la fine di una giornata stressante (nota: di quelle che ti fanno incazzare).
La pratica del bagno serve a distendere i nervi e lavar via dal proprio corpo impurità e tossine varie e la eseguo con estrema dovizia, con acqua calda ma non bollente e con fare lento, ma non da bradipo. Mi immergo quindi con misurata soddisfazione, conscio che questa sarà la parte migliore della mia giornata.
Per completare il quadro serve solo un’adeguata colonna sonora, così metto su Operation Light/Universe dell’omonimo duo livornese, e subito penso che mai scelta fu più azzeccata. Quando partono le note di Signal sento i muscoli distendersi nell’acqua piena di bagnoschiuma, mentre assieme ai fumi del vapore l’arpeggio iniziale mi rapisce e mi solleva. Chiudendo gli occhi ho una sensazione di benessere che mi trasporta altrove, in alto, oltre la stratosfera, sono nell’Universe…
Ma dopo un po’ riapro gli occhi. La dose di benessere che mi faceva trasmigrare si è stemperata fino a sparire. Altrove ma a poca distanza le casse del mio stereo continuano a suonare la stessa melodia da parecchio. Ma è proprio la stessa? Esco dalla vasca. Sgocciolo. Fuori un freddo boia mi fa ritrarre tutto il retrattile, ma me ne frego. Voglio soltanto scoprire se ho mandato il disco in loop. Invece no. Il disco va come dovrebbe. Torno allora dubbioso in bagno e mi ripropongo di ascoltarlo accuratamente. L’acqua però ora è tiepida, i muscoli di nuovo in tensione: così mi asciugo rimirando la pozza  che ho creato uscendo, e sono conscio che dovrò asciugarla prima di scivolarci sù e spaccarmi qualcosa (nota: effettivamente ho rischiato di farlo, solo grazie ad un colpo di reni straordinario ed alla posizione felice del portasciugamani sono ancora qui fra voi). Ora non mi resta che ascoltare di nuovo.
Operation Light/Universe è un lavoro a quattro mani di Alessio Carli (guitar, bass, keyboards, programming, synth) e Alessandro Sebastian Morandi (guitar, soundscape, textures, loops) che esce per Inconsapevole Records, interessante etichetta livornese (anch’essa) di Ian MacKayeiana ispirazione. Il disco contiene otto brani strumentali dalle atmosfere rarefatte, dove la chitarra la fa da padrona e basi e tastiere seguono dimesse ma con stile. Il duo toscano si rifà esplicitamente a gruppi come Boards of Canada e Mogwai, reinterpretandone le direttive con sufficienti  gusto e personalità, attraverso una discreta scelta dei suoni e delle architetture, pronti talvolta anche a sorprendere con delle brusche ed inattese sterzate. Purtroppo gli Operation Light/Universe cadono nella per me troppo pretenziosa idea di trasmettere un’unica “immagine” attraverso il filo conduttore di una melodia che assomiglia troppo a se stessa in ogni brano. L’opera nella sua completezza ne risente al primo ascolto così come nei successivi, seppur l’impressione di ripetitività va progressivamente attenuandosi. Succede così che anche brani ben studiati, come il singolo Iridium Flare o la buona 88 Constellations, funzionano da soli ma non se accorpati nell’insieme dell’album che non trova la varietà in un’esposizione episodica, ma mostra per lo più la continua reinterpretazione dello stesso tema dalla prima all’ultima nota. Un peccato considerando che gli Operation Light/Universe avrebbero potuto dare ulteriore prova delle loro indiscutibili doti architettonico-sonore, ma siamo solo agli inizi (la band si è formata nel 2011) e, come si suol dire, le basi ci sono. Attendiamo speranzosi.
Ora mi tocca davvero asciugare quella pozza…

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