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Bad Religion – True North

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Alla faccia dell’età e di tutta l’avanguardia che la musica “rumoristica” del punk-melodico ha portato in avanti come le lancette di un orologio assurdo, i Losangelini Bad Religion sono ancora qui a dare lezione e alfabeto sonoro a tanti e ancora tanti, le loro produzioni, oltre ad aver superato abbondantemente la metrica, danno ancora biada ad un mondo refrattario e si stagliano focosi come sempre, magari con qualche accento smussato, all’arrembaggio di nuovi terreni d’ascolto da colonizzare.
Una band che tra amplificazioni al limite, vette raggiunte e magari qualche inciampo di carriera (The New America), vive una seconda giovinezza senza scadere nel ridicolo di un “revival” anacronistico, ma con la forza garante di una formazione che ancora può confrontarsi con gruppi della stesse specie e uscirne per l’alto, e “True North” arriva proprio nel momento in cui questo confronto è vivo e teso tra i grandi punkers ancora in circolazione; sedici tracce che bollono come dentro una grande marmitta, punk’n’roll di classe e hooks a presa rapida, riff e anthems dispettosi che si danno appuntamento in una tracklist veloce e pirica, ovviamente con il calcolo dei tempi che passano inteso come stilema, ma che ancora schizza potenza e “gioventù bruciata”.
La band di  Greg Graffin da vita ad una baldanza che ha tanta personalità ancora da vendere, un omaggio implicito a non arrendersi mai nonostante le mode e il trust che trancia storie e modelli a proprio piacimento e misura, e loro – questi impenitenti giovanottoni – non se lo fanno dire due volte e perpetuano “la razza” con gli scatti elettrici di “True north”, “Past is dead”, “Lands of endless greed”, facendosi un po riflessivi “Hello cruel world”, ma tanto è l’istinto primordiale del punk a riemergere dal profondo e i Bad Religion tornano a ringhiare – amorevolmente – in “Crisis time”, “Popular consensus” fino a rimangiarsi la tavoletta dell’acceleratore di “Changing tide” traccia speed che saluta senza inchino e scappa con tutto il disco dietro.
Si una vera garanzia e se vogliamo un vecchio incantesimo a 200 orari che si rinnova ogni volta che loro ritornano tra di noi e che- sebbene tutto – non imbrogliano mai sulla loro reale base anagrafica.

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Propagandhi – Failed States

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Molto  probabilmente hanno fatto un patto col diavolo, sicuramente, altrimenti non si può giustificare l’eterna giovinezza sonica che i canadesi di Winnipeg, i  Propagandhi,  si tirano dietro, tutto è come – quasi – agli esordi del combo capitanato da Chris Hannah, anzi, mettiamoci in più anche una ulteriore spanna di incazzatura, perché a loro piace, a loro serve per denunciare – come sempre –  la politica corrotta, i poteri forti dell’economia e le diseguaglianze sociali dentro, fuori e di lato del Canada e del mondo circostante.

Failed States” è il sesto disco di questa formazione velenosa, la nuova ventata di rabbia, ribellione e denti aguzzi che in dodici scudisciate sonore mette in riga ed incute rispetto l’ascolto, fa salire la pressione sanguigna fino agli attici dello stordimento fisico; chiaramente e da immemori tempi figli adottivi dell’onda americana dei Nofx, la formazione – che ricordiamo essere dopo un’ultima rivisitazione della line-up  formata dal già citato Hannah voce e chitarra insieme a David Guillas chitarra, Jordy Samolesky batteria e Tod Kowalski al basso – riconosce degnamente anche certe limitazioni che il loro sound va ponendo man mano che i tempi corrono, ma la fustigazione del loro istinto giustiziero è più forte e rapida di un verdetto, di una condanna.

Con ancora in testa un loro fulminante album del 93, How to clean everything, la summa artistica di questa band è pressappoco la stessa, anche perchè il genere sonoro espresso non concede variazioni di sorta ma che continua a rappresentare la coscienza etica di una è più generazioni in fallimento; chitarre, fuzz, corse elettriche, funambolismi melodici e urla, rabbia, saliva e dolcezze lampo picchiano la tracklist come una pena da scontare, non mancano lancinanti metallismi a tergo di rimebranze di Iron Maiden, Judas PriestDevil’s creek”, lo speed doom acre che sfiata dai woofer di “Rattan cane”, le pedaliere doppie che sanguinano tra le macerie di “Cognitive suicide”, “Dark matters” e le esalazioni potenti alle quali nuove roccaforti dell’HC  – vedi International Noise Conspiracy, Subhumans e altri – ne fanno fede “Lotus gait”.

Sono in piedi da anni (1986), e da anni sparano da matti, inutile bloccarli, sono della vecchia generazione e alla pensione non ci pensano affatto, preferiscono la guerriglia amplificata che la becera bontà di facciata. Come dargli torto?

Comunque da avere.

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