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La Linea del Pane – Utopia di un’Autopsia

Written by Recensioni

Stranissimo, nel nostro panorama musicale, trovare una band con una profonda matrice cantautorale e un certo distacco dalla canzone di protesta. La Linea Del Pane non ha niente a che vedere con i Ministri, Il Teatro degli Orrori, Il Management del Dolore Post Operatorio. Niente. Né le sonorità, né i testi, né la costruzione delle linee melodiche o delle liriche. A ispirare la band sembrano piuttosto riferimenti del passato: De Gregori, De André (quello delle ballate d’amore più che quello delle canzoni politiche), ma anche il più recente Giorgio Canali, per quanto riguarda i testi, Marlene Kuntz, Negrita, e, stranissimo, persino i Dire Straits, per le sonorità.

Il disco, Utopia di un’Autopsia, si apre con il brano “Apologia della Fine”, in cui si sente anche qualcosa dei romani Eva Mon Amour, tanto nel modo di cantare, quanto nella versificazione. “Urlo di Ismaele” apre con sonorità acustiche che le danno un taglio più pop e leggero, subito controbilanciato dalla grandissima elaborazione del testo, pieno di figure retoriche e costruito su un lessico complesso. Dissonanze alla Marlene Kuntz caratterizzano “Tempo da Non Perdere”: il testo è artificioso, con l’andamento di una ballata, in cui spostamenti di accenti tonici rispetto a quelli ritmici dell’accompagnamento, tradiscono una probabile composizione letteraria antecedente all’arrangiamento strumentale. “Favola non Violenta (Indovinello 1)” è una ballad d’amore (almeno in apparenza, perché è facile, nel corso del brano, trovare spunti riflessivi per altre tematiche), tutta imperniata su un arpeggio un po’ Indie e un po’ pulp; in “Specchio” è impossibile non cogliere un riferimento letterario a Dorian Grey, musicato tra sonorità Alternative anni 90 forse un po’ sentite, ma impreziosite da una certa commistione con timbri Prog. Questi ragazzi sono colti, probabilmente anche un po’ hipster per il compiacimento con cui trasudano la loro conoscenza. Non c’è nulla di male. Anzi. Solo una volta giunti ad “Ambrosia”, se ne ha un po’ le scatole piene di tutto questo artificio retorico, nonostante il crescendo musicale sia veramente efficace e riesca a far ancora sentire il brano con un certo interesse. Certo è che da qui la mia concentrazione è calata. Non è questione di volere a tutti i costi leggerezza o immediatezza. Sarebbe davvero molto superficiale da parte mia e di qualsiasi eventuale ascoltatore. La questione è che sembra che a La Linea del Pane manchi la capacità di accalappiare l’attenzione per poi servire il loro messaggio nella bella confezione articolata, complessa e aulica che gli hanno riservato. Ed è un peccato. L’album prosegue, comunque, con “Occhi di Vetro” e “Gli Alberi d Sophie” in cui si nota quanto il cantato sia impeccabile, ma piuttosto monocorde: lo è stato per tutto il disco, ma qui inizia a pesare anche questo aspetto. Personalmente ho trovato bellissima la successiva “Favola Non Violenta (Indovinello 2)”, con un arrangiamento alla Band of Horses davvero curioso e coraggioso, dato il testo in italiano. Della penultima traccia, “Nekropolis”, voglio sottolineare l’impiego degli archi: difficilissimo nel Pop-Rock inserire nel tessuto strumentale violini e loro parenti senza cadere nella melensa banalità del già sentito, ma La Linea del Pane li sfrutta con grande maestria, tra colpi d’arco e dissonanze dai valori larghi. Ben fatto. Utopia di un’Autopsia chiude con “Solstizio d’Inverno”, malinconica, riflessiva, nostalgica, avvolta attorno alla voce narrante. Non poteva essere diverso, in fondo.

Nel complesso è un disco davvero ben costruito, che risente della staticità di un certo atteggiamento meditabondo e monocorde, aggravato dalla vocalità del frontman, pulitissima e tecnicamente perfetta, ma incapace di slanci melodici e agogici, che puntellino e colorino i brani. L’artificio retorico che sottende la stesura dei testi, poi, è davvero eccessivo in molti casi. La canzone finisce per essere quasi un esperimento linguistico o un arzigogolato scioglilingua tra allitterazioni e rime. Preso singolarmente ogni brano sarebbe una buona speranza per la musica nostrana, l’intero disco non mi fa dire lo stesso.

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The Wave Pictures – City Forgiveness

Written by Recensioni

Spero che in vita vi sia capitato di vedere quel gran bel film di Alan Ball intitolato American Beauty; se lo avete visto vi sarà facile ricordare lo sguardo nella scena finale del protagonista Kevin Spacey. Avete visualizzato? Ecco, quella è la mia stessa espressione dopo aver ascoltato per novanta minuti il nuovo, doppio album, dei The Wave Pictures. Il gruppo e nella fattispecie il leader David Tattersall si contraddistingue per essere decisamente prolifico in quanto a canzoni prodotte; pensiamo che dal 2004 a oggi, ogni anno ha visto l’uscita di un loro album. Volendo fare i calcoli si perde facilmente il conto e se dovessi fare un paragone di basso respiro, neanche la pizzeria sotto casa, in serata Champion’s, sarebbe in grado di reggere il ritmo. Ma procediamo con calma; come sono arrivata alla morte celebrale dopo novanta minuti di Indie Rock britannico fino al midollo? Ho provato a trovare una risposta che non fosse qualcosa del tipo “signorina lei è troppo stressata”, o “non si ascoltano i dischi dal computer”. Purtroppo la maledetta verità e che David e soci ripetono per venti brani il medesimo schema, basso, chitarra, batteria all’interno di un territorio estremamente definito, sul quale innestano in maniera alternata varianti che toccano il Blues “Chestnut”, il Rock anni 70 “Better to Be Loved”, con un giro ispirato senza dubbio da “Have You Evern  See The Rain”,  e anche un po’ di Calypso “WhiskY Bay”.

Tra la miscellanea di schemi e varianti sul tema che nemmeno Queneau pensava possibili quando scrisse “Esercizi di Stile”, non tutto è da rifilare nel cassetto dell’oblio; ci sono pezzi toccanti e godibili come la ballata struggente “The Yellow Roses” e pezzi in cui il ritmo diventa trainante e il sound si fa nuovo come in “Shell” e “Narrow e Lane”, anche se quest’ultima viene sporcata dal solito assolone tanto caro al gruppo. L’impressione generale che emerge dall’ascolto è quella di un’urgenza espressiva da parte del leader, che però si concretizza in tante canzoni buttate lì, nel mucchio. La scelta di farsi guidare dall’impeto della scrittura piuttosto che da un desiderio di qualità fa si che testualmente ci sia un buon margine per liriche argute e ironiche che però cede il passo sul piano dell’innovazione  e della ricerca musicale, nel quale si vedono solo timidi spiragli.

Nel complesso ogni brano assomiglia sempre a qualcosa di già ascoltato e spesso portato alla ribalta da qualcun altro; un esempio fra tutti sono i brani “ The Ropes” e “All My Friends” rispettivamente e marcatamente simili ai Talking Heads la prima, e ai Dire Straits la seconda. L’impeto, il guizzo, il genio compositore sono tutte cose necessarie per un musicista, senza le quali forse, sarebbe solamente un ripetitore automatico privo d’anima. D’altro canto, questo fuoco vitale dovrebbe essere rivolto verso il dettaglio, la ricerca, la sperimentazione.  In due parole, un artista dovrebbe dare in pasto ai propri fan il meglio, non il tutto. City Forgiveness non lo fa, non si sposta di un millimetro dal solco tracciato dal 2004 e tutta la laboriosa attività del gruppo svanisce nel mare magnun delle loro stesse venti tracce. Se si fosse fatta una selezione a monte tra queste avremmo avuto un disco interessante di cui parlare.

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Acid Tales – Here Comes The Storm BOPS

Written by Novità

Gli Acid Tales sono un gruppo di origine molisana che vede nella sua formazione il contributo di Vincenzo Cervelli, scrittore romano. La band si forma nel 2011 e mette il Rockpiù tradizionale al centro della sua musica cercando di creare un clima da cantautorato made in USA fatto di quel mix più vario di Blues, Folk e Countryche caratterizzavano gli Stati Uniti negli anni settanta.

Here Comes The Storm è l’extended play, primo lavoro degli Acid Tales. Quattro brani di buon Rock vecchia maniera. Apre il disco “Lose… Win” chitarra ritmata e voce dura per questo pezzo di vita vissuta; si prosegue con “A New Day”, rullata e arpeggio aprono il brano che avanza in un crescendo evocativo come se cercasse di buttarsi qualcosa dietro. Sembrano la versione Rock dei Social Distortion. “Here Comes The Story” brano omonimo che da il nome all’EP è anche il brano che più lo caratterizza, una storia raccontata con assoli alla Dire Straits. Chiude questo lavoro “Lookin Truth”brano che, a mio modo di vedere,  sintetizza l’album meglio degli altri.

Nulla di nuovo sul fronte Acid Tales, un extended play ben curato che ricalca la più recente storia del cantautorato statunitense.

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