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Julianna Barwick – Will

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Dopo i buoni riscontri ottenuti con The Magic Place, lavoro minimale per piano e voce, e col successivo Nepenthe, registrato in Islanda da Alex Somers, dove il suono si faceva più ricco grazie alla collaborazione dell’ensemble d’archi delle Amiina e del chitarrista dei Múm, Julianna Barwick torna con questo Will, album piuttosto atteso per quanto uscito in un periodo nel quale pagare dazio ai vari Radiohead, James Blake ed Anohni risulta pressoché inevitabile.
In questo nuovo lavoro la Nostra torna a scrivere e produrre da sola, senza però farsi mancare il sostegno, in svariati brani, del violoncello di Maarten Vos, dell’elettronica di Thomas “Mas Ysa” Arsenault (presente in un paio di episodi anche alla voce) nonché della batteria di Jamie Ingalls nel pezzo conclusivo del disco.
Il canto, che per la Barwick è un linguaggio etereo e simbolico (difficile riconoscere parole se non qualche titolo dei brani) ma assolutamente capace di farsi a suo modo graffiante (come se su esso, per dirla alla Fernando Pessoa, o se preferite alla Bernardo Soares, aleggiasse la minaccia di un temporale che però infine si verificaaltrove), in questo disco si fa meno centrale, completamente immerso nelle textures realizzate dal Minimalismo strumentale andando così a creare un effetto, se possibile, ancor più evanescente che in passato.

Registrato in perenne viaggio, isolandosi in luoghi più o meno desolati tra Stati Uniti e Portogallo, Will vive di questa propulsione risultando volutamente meno compiuto e definito dei precedenti lavori dell’artista di Brooklyn ma, nonostante questo senso di incompletezza, indubbia è la sensazione di trovarsi di fronte ad un disco dalle grandi potenzialità e con alcuni momenti che risultano essere tra i migliori in assoluto che la Barwick abbia fin qui inciso, per quanto uno sviluppo migliore avrebbe aumentato l’incanto, ad esempio, della già ottima apertura di “St. Apolonia” e del suo doloroso eco (mai come in questa occasione risulta evidente la formazione nei cori ecclesiastici della Nostra) al quale il violoncello aggiunge ulteriore drammaticità o, ancor più, della misteriosa “Wist” che invece così proposta regala più che altro un senso di bellezza incompiuta.
L’ammaliante voce della Barwick, incorporea e stratificata, regala vertigini in brani spettrali basati su synth piuttosto statici ed essenziali che svaniscono impercettibilmente (“Nebula”), dona carezze durante le armonizzazioni con la voce di Arsenault tra armoniose tessiture di violoncello e synth (“Same”), si rivolge a cose care, ma lontane e perse, in deliziose fusioni tra voce e piano dal grande potere mistico (“Big Hollow”), si sposta, tra tasti di pianoforte premuti dal peso della malinconia ed echi violoncellistici, verso il Neoclassicismo descrivendo il desiderio di casa di un’anima che ha viaggiato troppo (“Heading Home”) e crea, in luoghi indefiniti e illimitati, scrigni dorati contenenti questi pensieri, queste speranze e queste illusioni realizzando con la complicità della voce di Arsenault, qui ancor più flebile, dolci intrecci catartici e contemplativi (“Someway”).
La conclusiva “See, Know” col suo ritmo più sostenuto va un po’ a stridere con il resto del lavoro, la batteria crea trame circolari piuttosto corpose ed i synth si fanno molto più insistenti che altrove contrastando con la voce, sempre delicatissima.

Viaggio interiore perennemente coperto da un velo di nebbia dal quale però è sempre possibile scorgere uno spiraglio di luce; come se dopo The Magic Place, dedicato ad un vecchio albero della fattoria dove la Barwick visse la sua infanzia e Nepenthe, farmaco che nella mitologia greca lenisce il dolore, la Nostra con questo nuovo full length abbia trovato una personale forza di volontà che, per quanto fragile, le permette di vivere e curare le proprie malinconie dentro di sé, dovunque si trovi.
Will è un disco che prende più di uno spunto dai lavori precedentemente pubblicati dando però più sostanza ai riverberi ed ad un sintetismo, escludendo il brano conclusivo, sempre giustamente misurato che permette alla Barwick di risultare ancora più incorporea durante le sue stratificazioni corali confermando le sue innate doti vocali ed il suo gusto compositivo, ciclico e minimale, con quello che è sicuramente il suo lavoro più aleatorio ed impressionistico. Una soluzione che in futuro, su lavori maggiormente coesi, potrebbe regalarci dischi che rischieremo di portarci dentro per molto, moltissimo tempo.

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Múm – Smilewound

Written by Recensioni

Il panorama musicale islandese, mai come negli ultimi anni, ha attirato così tanto l’attenzione su di sé. Sulla scia dei successi internazionali di Björk prima e di Sigur Rós dopo, sono emersi band della forza di Amiina, Agent Fresco, FM Belfast, Of Monsters And Men e i Múm. Pur con declinazioni molto diverse in ogni esito, la formula che sta alla base delle composizioni di questi artisti sembra essere sempre la medesima: una commistione di Pop, musica colta, folklore, elettronica, ciascuna in percentuale diversa a creare un panorama musicale variegatissimo ma anche immediatamente collocabile sul piano culturale-geografico.
Uscito il 6 settembre scorso, Smilewound, l’ultimo disco dei Múm, sembra essere una summa di tutte le precedenti esperienze della band. Il disco si apre col singolo “Tootwheels”, un brano dal sapore particolarmente trip-hop, con un contrappunto di archi pizzicati e pianoforte che lascia lo spazio a sonorità elettroniche da carillon. “Underwater Snow” è una ballad con un’introduzione pianistica alla Yann Tiersen e il cantanto alla Julia Stone (o Emiliana Torrini, se vogliamo pescare fra i connazionali della band). Una rivisitazione degli artifici elettronici anni 80 sembra essere la base di “When Girls Collide” (come della successiva “Candlestick”, in fondo), con un motivetto in loop ipnotico e quasi fastidioso, che però ben si amalgama con le voci spesso in deelay. “Slow Down” ricorda particolarmente Björk ed è forse la traccia più studiata e costruita, con un continuo slittamento di accenti ritmici e l’uso massiccio di rumori coloristici. “One Smile” è il brano che più si discosta dall’omogeneità stilistica del disco: la melodia principale, affidata a un metallofono, rimanda all’estremo oriente e la freddezza del timbro di questo strumento viene subito scaldata dalle chitarre e dagli archi, in un crescendo ritmico-dinamico che diventa una specie di cavalcata nervale frenata solo dalla delicatezza vocale. Per “Eternity Is the Wait Between Breaths” sembra che i Múm si siano rivolti nuovamente a Tiersen: il brano sarebbe perfetto per una sonorizzazione cinematografica, con il mix di rumori sintetici e patina vintage con cui è costruito. “The Colorful Stabwound” è probabilmente la traccia più Pop di tutte, sia per la linea melodica, ben più lineare e convenzionale, sostenuta solo dal basso che scandisce l’incalzante ritmo della batteria, sia per la costruzione strofica.

“Sweet Impression” sottolinea moltissimo la precedente impressione sulla parentela fra la voce dei Múm e le rese canore di Emiliana Torrini e Julia Stone. La mia traccia preferita, comunque, è “Time to Scream and Shout”,  meravigliosamente ossimorica, visto che invece di essere urlata, l’esecuzione è placida, greve, con atmosfere trasognanti alla Himogen Heap. Piccola chicca del disco è la collaborazione per “Whistle” con Kylie Minogue che, chi l’avrebbe detto, si amalgama perfettamente col sound della band e non solo non disturba, ma conferisce addirittura un certo tocco di grazia al brano. Smilewound è un album veramente da ascoltare, un bello spaccato della produzione di una band e un gradevolissimo susseguirsi di ispirazioni e suggestioni.

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