Il nuovo album della band di King Buzzo è l’ennesimo capitolo di una storia che è ben lungi dall’essere conclusa, anzi.
[18.04.2025 | Ipecac | noise rock, stoner rock, sludge]
Parlare di una band storica e fondamentale è sempre un’impresa ardua, ma bisogna pur raccogliere le sfide.
Quando si scrive dei Melvins è obbligatorio darsi delle regole, per cercare linearità nel labirintico universo della band nata a Montesano.
Regola numero uno: Thunderball è il terzo disco dei Melvins 1983 (gli altri due sono Tres Cabrones e Working with God), ossia del connubio tra Buzz Osborne e Mike Dillard, il primo batterista del sodalizio.
Regola numero due: ogni uscita discografica del gruppo va considerata come se fosse un esordio, tanta è l’unicità della proposta musicale di Osborne nella pubblicazione di ogni album.
Regola numero tre: l’intera discografia dei Melvins è un’opera monumentale, con più di trenta album in studio all’attivo, innumerevoli dischi dal vivo e tantissimi singoli in catalogo, che deve approcciarci all’ascolto di Thunderball allo stesso modo di tutti gli altri lavori, ossia con la consapevolezza di trovarsi di fronte a una tessera di un vero e proprio mosaico musicale.
Regola numero quattro: i Melvins non esistono. Esistono e resistono, invece, da più di quarant’anni, l’arte e la creatività di quel genio che è Buzz Osborne, abile a mescolare con convenienza le formazioni in studio e sui palchi e capace di stringere prolifiche collaborazioni con talenti della sua stessa statura, vedi Jello Biafra e Mike Patton.

Tra inserti elettronici ed esoterismi mistici.
L’album si avvale dei contributi di Void Manes e Ni Maîtres, che impreziosiscono il lavoro con i loro rumori elettronici per un tocco sapiente di astrattismo sonoro.
King of Rome inaugura il disco, traccia noisy che rimanda nel titolo all’album del 2004 Pigs of the Roman Empire, altra procreazione intrisa di contaminazioni elettroniche create dal musicista britannico Lustmord, forse il più simile alla pubblicazione odierna.
Credo ci sia una connessione, una precisa volontà, un’esca lanciata all’ascoltatore. Se provate a riprodurre la chilometrica titletrack (più di ventidue minuti), noterete che l’outro si armonizza quasi alla perfezione con i primi attimi di Thunderball.
Vomit of Clarity introduce e ci prepara a Short Hair With A Wig. Gli inserti elettronici in quest’ultima, il contrabbasso legnoso di Ni Maîtres e le chitarre geometriche compongono un rituale tribale ritmato dalle pelli di Dillard. È un atterraggio alieno nel deserto del Sahara, in territorio Tuareg. Undici minuti irripetibili.
L’esoterismo mistico di Victory of the Pyramids ci conduce ancora di più verso Oriente, oltre i confini dell’umano, in un viaggio dell’anima a ritroso nel tempo, dall’antica Roma alle piramidi egiziane, tra re e regine.
“I’ve been losing my mind / The queen’s ghost runs in my bed”. È geografia spirituale.
Venus Blood chiude un disco che aggiunge ulteriore originalità alla già ricca discografia di Buzz e soci (il preferito di chi scrive resta comunque Hostile Ambient Takeover del 2002), il cui maggior pregio è una ostinata e invidiabile (nonché riuscita!) capacità di reinventarsi.
Mi piace inoltre pensare che il disco sia uscito appositamente ad aprile, il mese della scomparsa e del ritrovamento del corpo di Kurt Cobain nel 1994. Leggevo di scorrazzate adolescenziali dei due, alla presenza anche di Mike Dillard, per le strade di Aberdeen nello Stato di Washington alla metà degli anni ’80…
Un genere indefinibile, il genere Melvins,
Thunderball è un disco stoner in salsa noise con appunti elettronici. Oppure, se preferite, dal genere indefinibile. Melvins, appunto.
Manca pochissimo al giorno del mio compleanno. Io corro a comprare il disco. Mi faccio un regalo dall’inestimabile valore per la mia discoteca casalinga, nell’attesa di andare a vederli dal vivo in uno dei concerti italiani in programma per la prossima estate.
Io ho raccolto la sfida. I Melvins ne lanciano un’altra: “Noi ricominciamo da qui. E voi?”
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Last modified: 21 Aprile 2025