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Benjamin Clementine – At Least for Now

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Come non innamorarsi di questo ragazzo, partito dalla periferia di Londra alla volta di Parigi, dove ha vissuto senza casa, suonando per strada, nei bar, negli hotel? Benjamin Clementine si siede al pianoforte e si scoperchia l’anima. Arriva dal Soul di Nina Simone, dal songwriting di Leonard Cohen, ma anche da Erik Satie, Antony Hegarty, Jimi Hendrix. C’è nella sua musica, piena di parole e gonfia di una voce calda, ritmica come un martello o liscia come velluto, tutto un mondo, leggermente sfalsato rispetto al nostro. Dalla dolcezza appuntita e struggente di “Gone”, perla che chiude il disco e che ha lo spessore di un classico d’altri tempi, alle ritmiche salterine di “Adios” che accompagnano linee melodiche spezzate o rapidissime, ironiche, fino ad arrivare al parlato e a momenti quasi lirici: At Least For Now è un esordio complesso ma profondo, che porta dentro dei semi preziosissimi, che, coltivati bene, sotto il sole, possono portare alla nascita di una personalità importante, un folle che si muove tra Pop, Jazz, Soul, Spoken Word e musica classica come se non avesse un passaporto: i confini solo linee tracciate nel niente, unica stella polare una musica piena, intensa, vibrante. Come non farsi rapire dall’intensità di “Cornerstone”, dall’effetto straniante da musical di “Winston Churchill’s Boy”, dalla malinconia folle, quasi animale, di “Quiver A Little”, dal Pop stiloso e radiofonico di “London”? Arrangiamenti scarni, molto pianoforte, una voce dalla personalità imponente, qualche percussione, archi che appaiono e scompaiono: tutto costruito ad arte intorno a Benjamin Clementine, gradita nuova scoperta di questo 2015. Ci metterà qualche ascolto a conquistarvi, ma se avete un cuore non vi deluderà.

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Laura Marling – Once I Was an Eagle

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Piccole sirene incomprese si fanno grandi. Proprio così a furia di rimestare nei fondi insondabili di certe sfighe personali e non si finisce prima o poi di farsi le ossa e crearsi il giusto quadrato d’ascolto in cui dilatare finalmente il confine delle righe scritte tra la musica e darle in pasto al vento e agli ascolti di massa. La cantautrice inglese Laura Marling si è fatta donna a tutti gli effetti e in questo Once I Was an Eagle il suo vecchio involucro di eterna adolescente di autrice del “vorrei” scompare dietro le quinte e al su posto arriva una “fragilità fortificata”, perfetta per non far passare più insidie e paure a venire.

Ha vinto la scommessa col mondo intero questa bella artista e mette in mostra una lunga sequenza di brani per stabilire la distanza tra sé e i limiti della creatività figurativa, la sua ora è una musica e una parola cantata profonda ed evocativa, rimangono in qualche pizzo i fantasmi e i diavoletti del suo ieri tristagnolo, ma poi un modo di guardare negli occhi nuovo appare, ripulito e meno chiuso. Magari ci vogliamo soffermare un attimo sul suo sofismo musicale? Siamo sempre sugli equilibri tenere e acidi di un Folk basicamente acidulo, ma le aperture che la Marling offre si sentono eccome, come del resto gli innesti di atmosfere di ricerca che sfiorano il Tibet e certe sue sensazioni “I Was an Eagle”, “Take The Night Off” o l’ancient Folk di casa propria “Once”, “Undine” tutte cose che hanno le tinte inconfondibile del nero notte, quello si che non è mai cambiato, ma rimane il segno distintivo di una donna musicista che nel suo nuovo mattino ascolta ancora quelle voci invisibili, ed è questo il valore intrinseco del tutto.

Chitarra acustica, una Joni Mitchell nel cuore e i Pentagle nei ricordi, gingilli indiani e ambientazioni boschivo/intimo come tele da riempire, offrono una cantautrice in piena forma, una dolcezza screziata sempre sul filo teso  della malinconia da ascoltare al buio e accarezzarla con delicatezza, una melodia femmina che rende al massimo se presa nei momenti viola della sera “Little Love Caster”, nei mandala percussivi di “Pray For me” e nel piccolo capolavoro di “Little Bird” un canto in solitaria assoluto che parla, dice e pensa in salsa latin la sua saudade di brezze e forme di donna, quella donna che la Marling orami calza tra cambi di scenario, di arcobaleni ed effetti ricchi di pathos.

Come si cambia, diceva la Mannoia, e al diavolo se non è vero!

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Alice in Chains – The Devil Put Dinosaurs Here

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Quattro anni fa – diciamocelo con chiarezza – Black Gives Way To Blue ci aveva lasciato più che con un amaro in bocca, troppo forte il dislivello creativo e di sollazzo maledetto del dopo Stayley, e ancor più forte lo stordimento mai rappreso della perdita di quest’ultimo, ma ora come per azzittire le numerose illazioni su di loro, gli Alice in Chains al comando di Cantrell ci riprovano con The Devil Put Dinosaurs Here, il disco che – più o meno – ribadisce il lugubre fascino malato delle altre produzioni, anzi con più affondi funerei e malinconici che spaziano come amebe impazzite nelle riappropriazioni delle colorazioni dark del marchio AINC.

Molti – appunto – sono immobili nelle convinzioni e  fanno ancora il paragone estetico e vocale Stayley/William DuVal, ma sono solo quegli attaccamenti umorali di chi non si convince ancora alla sostituzione “forzata”, ma quello che conta è che la formazione rinasca dalle castranti modalità di confronto e seguiti a forgiare una nuova stagione d’oro e di una rinnovata coscienza e questo disco – incastonandolo tra estasi e rinascita – torna ad esprime in grandeur quella esperienza mistico-animistica  del sulfureo, quelle meravigliose e prodighe ombre profonde che sacralizzano l’insacrabile; dodici tracce che hanno lo spirito della notte, psiche ed entusiasmi maestosamente sostanziali sono l’ossatura di un album che porta la band americana ai punti caldi della loro storia, dei loro demoni nascosti e i fantasmi cordofoni della loro arte mefistofelica.
Disco a due mandate, da una parte la discesa negli inferi fumiganti della dissolutezza atmosferica “Pretty Done”, la titletrack, “Phantom Limb”, alcune appartenenze doom Sabbathiane “Stone”, “Hollow”, dall’altra gli strati benevoli dell’appunto “rinascita, quel forte respiro di apertura immacolato come a redimersi verso un paradiso slabbrato “Voices”, “Lab Monkey”, la bellissima ballad “ Scalpel” o l’abbraccio di un sole d’inverno “Choke”; grande armonia e altrettanta voglia di essere presenti, gli AINC sono di nuovo sui sentieri della padronanza sonora, e ancora sulle orme di quel loro insaziabile viaggio ai confini dell’assurdo reale che dell’angoscia,  dell’ossessione e della estenuante necessità di ripetersi nella immaginifica di un non raziocinio, ne scarica il fasto e l’irreversibile cianotica bellezza.

Un marchio che non avrà mai fine!

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“Diamanti Vintage” Killing Joke – S/t

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Il  loro è stato – sin dall’inizio – un gioco al massacro, una delinquenziale proposta elettrica ogni oltre limite che andò a “disturbare” in maniera oltraggiosa i malcostumi e le svenature tardo romantiche della new wave, la loro proposta – mai studiata a tavolino come si potrebbe assurgere – non era altro che frutto copioso di una schizofrenia sociale che batteva i pugni della rabbia ovunque. I Killing Joke di Jaz Coleman, in questo loro omonimo debutto infiammabile, stilano rasoiate che sanguinano un concentrato tossico di decadenza punk, Garage dei bassifondi ed un funky trasversale che abbraccia in un sol giro Pere Ubu, Siouxsie And The Banshees e quant’altro, nove tracce, nove tribalità che andarono a graffiare le pelli delicate di tantissimi gruppi refrattari al cambiamento.

Ovunque senso di ossessione, destabilizzazione, mal di vivere e disagio, una matrice elettrica quadrata di ritmi, scatti nervosi e la fredda intemperanza delle zone periferiche di una Londra sempre più in rivolta, sempre più coinvolta in cambiamenti rutilanti; le distorsioni si sprecano, la marzialità impera e lontani appannaggi percussivi africani si fanno audaci e battenti, come a rivendicare una sceneggiatura messianica, woodoo, ma sono sensazioni che schiaffeggiano e poi vanno via, ma la carnalità è tanta come pure le accelerazioni che la band inglese cerca di inserire anche in un abbozzo di una dance robotica “Bloodsport”. Coleman, Ferguson, Geordie e Glover – questi gli eroi dannati – partoriscono questa struttura primitiva di rock contaminato che è una esplosione di interesse e di critica, un disco negativo che attira positività da ogni parte, e tutto ciò da la spinta vitale a una falange di band che si vogliono –  e lo faranno –   appropriare dello stile e relativi dettagli.
Una parabola – appunto –  che farà anche scuola per marchingegni sonici come futuri Ministry, NIN, Deftones e similari, una sequenza industriale di chitarre  a machete, ritmi epilettici e voce sguagliatamente cool che crea atmosfere quasi luciferine, il battuto di “Tomorrow’s World”, “The Wait”, la wave saltellante “Complications” e il rock militante di “Primitive”, per arrivare al delirio finale di “Change”, brano in cui tutto si fa ancor più scuro, asciutto e pronto per un uso spasmodico delle pedaliere.

La loro musica diventa un must e che ancora fa cattedra, una formazione ed un disco che ha definito nuovi confini dove riferirsi una volta ingaggiata la lotta con la modernità.

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