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Artic Monkeys – AM

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Tipo strano Alex Turner: considerato dalla critica tra i migliori cantanti della sua generazione, accostato ai nomi più autorevoli del pantheon del Rock su tutti il Modfather Paul Weller; artista capace di togliere quell’odioso ghigno dal volto dei fratelli Gallagher superando il record raggiunto da Definitely Maybe nel 1994 vendendo,con Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not, trecentosessantaquattro mila copie in una settimana, aggiudicandosi così il Guiness dei primati per il “disco di debutto con maggior numero di copie vendute”.

Profeta anti-hype ma al tempo stesso avido opportunista, trasformista a trecentosessanta gradi memore della lezione bowiana,Turner torna a far parlare di sé con AM, quinto e attesissimo album, accompagnato come sempre, dalle sue fedeli Scimmie Artiche. Sin dal primo ascolto ci si rende conto che AM è un lavoro destinato a suscitare pareri discordanti. I fan accaniti si sentiranno in qualche modo traditi dalla loro inversione di tendenza, quelli più distaccati forse ne saranno lieti e, chi ancora non li conosce, probabilmente ci si avvicinerà. Questo disco ci trasporta da subito in morbidi territori Alt Pop in cui suoni più audaci di matrice Rock si amalgamano a languide e pericolose tendenze R&B quasi da boy band; miscela evidente in “One For The Road” pezzo che, col suo cantato melodico alla Justin Timberlake, risulta stucchevole. Una parte oscura si nasconde in AlexTurner, irrequieto beatnik musicale che sembra non trovare pace e quasi quasi mi viene da pensare a un disturbo di personalità ascoltando “R U Mine?” brano che, in un colpo solo, cerca di fondere imprudentemente i Black Sabbath con sonorità Hip-Pop; la cosa sorprendente è che ne viene fuori un pezzo orecchiabile e adatto anche al pubblico più ingenuo.

Un po’ ci si riprende con l’intro di “Arabella” che ha un vago profumo di Morphine e chitarroni anni 70 devoti a Tony Iommi. Vogliono tutto e subito questi Artic Monkeys, lo si capisce da “I Want It All” col suo abbordabile ritornello da Hit Parade contornato da un pulsante Alternative Rock che s’imprime da subito nella mente. Merita di essere citato il video di “Why’d You Only Call Me When You’re High?” perché la dice lunga sull’intento della band; è guardando questo video che capirete molte cose sul contenuto dell’album:protagonista è ovviamente il nostro caro Alex Turner che, con un look alla Gene Vincent, gioca a fare il maledetto perdendosi nei fumi dell’alcol e della mescalina mentre tutto fila via, scontato come un telefilm per teenager,su una base alla Craig David. L’album procede con lentezza fino alla dodicesima e ultima traccia, “I Wanna Be Yours” perfetta per un ballo di fine anno stile America anni Cinquanta. Mi piace pensare che queste sonorità faranno storcere il naso anche a Josh Homme che nel 2009 produsse “Humbug”, disco dalle sonorità squisitamente Stoner ma che già lasciava intravedere una sottile furberia commerciale.

Seppur abili nell’arte del remake-remodel, gli Artic Monkeys di AM mancano di spessore, troppo intenti a confezionare un disco accessibile si dimenticano della sostanza scivolando in una banale palude sonora. Insomma,un lavoro fumoso che non ha di certo alte ambizioni artistiche.

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Black Sabbath – 13

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Da premettere che lo scrivente è (era) un incallito pipistrellone succube dello stupendo doom primario dei Black Sabbath, schiavo senza catene della loro “messa nera” fatta di basso compresso, chitarra sulfurea, ritmi e voce luciferini che ascoltava prettamente da mezzanotte in poi ( quando si è giovani queste sono normalità guadagnate contro vicini e genitori indiavolati ma di ben altro), e per anni – pian piano smorzati –  ci si è immedesimati come giugulari pronte a farsi succhiare da Mr. Ozzy Osborne, ma appunto poi tutto passa e tutto svanisce.

Ho appena ascoltato 13, il nuovo lavoro per la riformata band di Birmingham e. con tutta franchezza l’amarezza ha preso il sopravvento, il sound, la pressione atmosferica, il pathos digrignate mantiene qualcosa di allora, ma si sente, eccome si sente, la noia e la stanchezza e la vuotezza che prevale in un tutto sonoro, è come entrare nel Museo Egizio e uscirne con la consapevolezza che mummie e sacerdoti effigiati abbiano ripreso a muoversi per un allestimento pacchiano dettato da chissà quale interesse; le fiamme, i carboni ardenti sempre accesi, il diavolo tentatore sempre in agguato, ma non è più nulla come una volta, l’età gioca brutti scherzi e sarebbe meglio mettersi in disparte per non scadere nel ridicolo del revivalismo a tutti i costi, e questo progetto di Osbourne, The Geezer, Tony Iommi e il nuovo Brad Wilk degli RATM e che ha sostituito alle pelli il mitico Bill Ward, ne è la prova lampante – non di idee – ma di un pastrocchio pubblicitario pur di non rimanere a galla nell’oblio, nel dimenticatoio.

Gotic, Doom, Metal e “venghino venghino siore e siori al grande miracolo del Gerovital” non vanno a concludere niente, i Black Sabbath con questo loro diciannovesimo album in studio rifanno è stessi allo sfinimento – e questo potrebbe essere anche una virtù – ma  è la vivacità, l’energia e la forma che è sparita per sempre, un teatro dei rientri che non aggiunge nulla – anzi credo che tolga al mito – se non una sceneggiata metallica per vecchi ed imbolsiti fan che pur di non ammettere la “resa” di una della più grandi band della storia, ancora sta lì a sbattere la testa alla faccia della cervicale dolorante; “God Is Dead?”, “Zeitgeist”, “Live Forever” o “Dear Father” – per citarne alcune – sono il bardo indistruttibile del logo Black Sabbath, ma fanno parte del Novecento, e senza nessun aggiornamento, senza alcun passo in avanti, va a finire che anche i pipistrelli che affolleranno ancora le loro prossime truculente manifestazioni di lugubre magnificenza, preferiranno darsi a gambe/ali levate pur di non scadere nel ridicolo, pur di non cadere nelle riunion da cassetta. Anche gli animali hanno un orgoglio!

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