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Blonde Redhead 10/03/2015

Written by Live Report

Blonde Redhead @ Hiroshima Mon Amour, Torino, 10/03/2015

La prima data del tour, quella di Torino, è stata senza ombra di dubbio una attesissima, fin da quando i Blonde Redhead hanno annunciato le tappe per il nuovo tour di Barràgan , dove la città della Mole compariva appunto in pole position. Parlavamo di Barragàn dunque, album essenziale e minimalista, che ha molto diviso la critica. Per questo il live si fa ancora più interessante, un evento da non perdere, e così è stato. Dopo un brevissimo momento di incertezza iniziale (un attacco di batteria non perfettamente riuscito), i gemelli Pace e Kazu Makino si guardano per qualche istante e recuperano l’intesa: da quel momento in poi la perfezione. Non parlo tanto di perfezione nell’esecuzione, ed in ogni caso non starò a puntualizzare su qualche incertezza nella voce di Kazu. Parlo più che altro di perfezione a livello emotivo. L’atmosfera onirica che viene a crearsi catapulta chi ascolta nella parte in cui risiedono i desideri più intensi, aiutando a mettere da parte le paure e le tensioni che ci fanno credere che non possano mai realizzarsi. Perfino l’amore può diventare reale sulle note di “The One I Love” . Ad aiutare l’ingresso in questa atmosfera da sogno ci pensa anche la scenografia minimalista: nessuna installazione, solo un’atmosfera fumosa per tutta la durata del concerto accompagnata da luci soffuse. La prima parte del concerto è dedicata a Barragàn, per dare spazio poi all’esecuzione di altri cavalli di battaglia, accolti dagli applausi di un pubblico per la maggior parte del tempo molto composto, che raramente si lascia scappare qualche urlo di consenso. Il concerto è finito, volto disteso, si torna a casa dopo aver conquistato la tanto agognata serenità, almeno per una notte.

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“Diamanti Vintage” Rem – Document

Written by Articoli

I REM,  band capitanata da Stipe,  ha già forzato i pareri critici del popolo underground americano, è riconosciuta in tutti gli stati ove ci sia un ballroom per suonare rock, in ogni piazzale di un college dove poter giostrare in santa pace accordi e melodie elettriche, ma si rimaneva comunque nel seminterrato della notorietà, ancora aggrappati al mondo degli outsider, e occorreva un qualcosa per fare il grande salto, il passo grande verso l’uscio “di casa”.
Prova e riprova arrivano ad incidere dischi di ottimo livello, ma sempre lì ad un centimetro dal tutto; l’occasione gli viene data dal produttore Scott Litt, e nasce “Document” il quinto di carriera e picco discografico che li catapulta immediatamente nel giro che conta, un disco che non suona solamente ma parla di politica e di diritti civili, un registrato che fece e fa spessore culturale oltre ogni limite di ascolto, e che tutt’ora rimane il manifesto “programmatico” dei REM per tutti gli anni a venire. Canzoni che rimangono appese alla storia del rockerama mondiale, canzoni destinate a cambiare per sempre gli obiettivi sonori dell’accademia alternativa di milioni di altre band e che praticano la libertà ed i sogni di generazioni che vogliono finalmente esibire i loro ideali di autodeterminazione.
Michael Stipe alla voce, Peter Buck chitarra, Mike Mills basso e Bill Verry alla batteria, sono un “quadrilatero” di poesia che si aggancia immediatamente ai refrain, quelle quasi filastrocche che si attaccano all’orecchio come un tic e che non se ne vanno più, e con queste nove tracce realizzano un disco il cui suono diventa il marchio e il modo di dire “suono alla REM”, il simbolo universale di una classe unica e mai contestata; pop alternativo e nomade, rock espansivo e quadrato, tutte caratteristiche che porterà la band di Athens (Georgia) a vendere cifre da capogiro, ma non si montano la testa, riescono a rimanere loro stessi convincendo chiunque con quel mood di semplicità che li contraddistingue. Document è un disco di rinnovamento, un distacco sonoro dai precedenti lavori che apre un nuovo corso ed una nuova “inquietudine” per tanti rivali e per altrettanti detrattori, ma la storia cancella tutto e rimangono nell’aria gli inni contro i privilegi e le assurdità “Finest  Worksong”, “Welcome to the occupation”, la rivisitazione del brano degli WireStrange”, oppure chi non ha mai versato una lacrima ascoltando “Fireplace” o cantato a squarciagola sudando e gioendo a mille con “It’s the End of the world as we know (and I feel fine)” e “The one I love”?   Nessuno può dire di no.

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