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Jesus Was Homeless – The Message

Written by Recensioni

Leggo: “nati in California, distribuiti in Giappone”, manca l’aggiunta che in Italia spaccano di brutto, ma a dirlo sono anche i numerosi commenti che si leggono ovunque circa la mole di suono e di scrittura che i romani Jesus Was Homeless documentano ogni qualvolta che escono con la forza di un power d’assalto, e “The Message” è l’ennesima prova di un talento oscuro che motiva e svezza l’ascolto alle poche cose che vale la pena di circoscrivere nel sostantivo underground.
Elettronica e rock uniti nel destino, estetica sonora che trasporta ogni secondo della sua corsa – tra stereo e fondi d’anima – la coerenza di essere sé stessa, in quella fluidità e personalità dalle colorazioni a volte striate di wave, a volte marcatamente libertarie, un vocabolario tecnico e di passione che porta i JWH tra le migliori pulsazioni underground che la nostra scena possa innalzare a vessillo di purezza e scrittura; un disco che suona e si riferisce “alle grandi platee” d’oltre frontiera, libero dai legacci del “deve convincere” per già grassettare pagine memorabili di suono  ed impatto come pochi. Disco di hook radio, arie elettriche post-punk e la vivacità emo imbronciata degli anni zero, queste le credenziali di una band in rotta di collisione con le “sfigherie” di moltitudini e chiassose falangi indie-nerd che coprono il sistema emergente delle nuova musica, un terzetto che trascina l’ascolto in un pregevole limbo di scansioni e fotogrammi che tratteggiano il fervore canadese dei Simple Plan o le implosioni dei Ten Foot Pole.
Otto takes che hanno il potere di piacere, la cognizione di “girare bene” e la melodia scintillante di un cuore in costante mutazione color nero seppia, tracce che risintonizzano uno dei segreti meglio custoditi del rock, ovvero quello di praticare la libertà senza se, senza ma e senza paura di farsi chiamare “cloni” di qualcosa che comunque è sempre postato più in alto nella gradazione della creatività; ora vinta questa visione pragmatica, l’ascolto si libera per legarsi agli shuffle Ottantiani di “Violet line”, “The ride”, alle atmosfere striate dei Placebo che sciamano nelle volte della bella “So dirty”come nella concessione pop alla U2 di “In L.A.” e “Our eyes”, poi la,lucidità di avere tra le mani e negli orecchi un qualcosa di ottimo – senza gridare alla miracolistica – ma ottimo, fa il resto.
JWH, un gruppo su cui puntare,  una band da non lasciar sfuggire come fanno le migliori menti che scappano all’estero

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