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10 funghi allucinogeni per colazione

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Othismos – L’Odio Necessario

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Un sound molto sporco e cattivo quello degli Othismos, gruppo composto da Luca (chitarra e voce), Caino (basso e voce principale) e Giacomo (batteria). Più violento di un disco dei Napalm Death o degli Obituary, questo L’Odio Necessario ha deliziato le mie orecchie per poco meno di mezz’ora ma, credetemi, non ascoltavo un Metal così piacevole da anni. Un perfetto mix di Rock, Hardcore, Grind, Stoner, Doom, Sludge, Thrash e chi più ne ha, più ne metta. Avvertenza: questo disco non è per i deboli di cuore (o meglio di orecchio)! Caino urla come in preda a un dissennato e violento furore scandendo però perfettamente le parole tirando fuori tutto “L’Odio Necessario”. “Inno di uno Stato Fallito” è una chiara dichiarazione della direzione che prenderanno gli otto brani successivi pur essendo poco più di cento secondi strumentali, una vera e propria summa di ciò che vi aspetta e forse un titolo che vuol rendere omaggio al nostro paese martoriato da politici corrotti e annientato dalle tasse che dominano supreme la nostra economia. “Non Discitur” è la partenza migliore o il punto di arrivo massimo di un disco che non lascia spazio alla concorrenza, un non plus ultra dell’Heavy Metal moderno. “Nessun Sole” è segnata da cambi velocissimi di tempo scanditi dal drumming di Giacomo e affronta tematiche religiose (“Vita e morte sono mie… Io sono il mio Dio”). L’inizio di “Coma” sembra invece essere uscito da un disco degli Anthrax, ma subito le influenze Grind si fanno sentire acutizzando al massimo la violenza sonora. “Il Signore degli Impiccati” comincia invece in maniera “tranquilla” per trovare la sua strada dopo neanche un minuto. In “Mantra”  è la voce di Luca a far da padrona non facendo rimpiangere per nulla quella del suo “socio” Caino e sinceramente sarebbe stato bello sentire duettarli come facevano i Marlene Kuntz di “M. K.” quando gridavano a squarciagola Ehi critichino!. I generi del gruppo di Cuneo e degli Othismos non hanno nulla in comune, è vero, ma una doppia voce avrebbe dato maggior tono al brano. “Antitesi” e “La Discesa” proseguono con dignità il discorso affrontato finora ma in maniera un po’ più complessa e programmata prima di dar spazio a “Nessuna Promessa di Cambiamento”, degna conclusione di questo capolavoro Metal che è L’Odio Necessario. Non so sinceramente cosa promettano  per il futuro gli Othismos, ma sono sicuro che almeno oggi daranno uno schiaffo e nuova linfa all’Heavy Metal nostrano. Tenete d’occhio questo gruppo  e non lasciatevi sfuggire L’Odio Necessario.

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Recensioni | agosto 2015

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Ben Miller Band – AWSOF (Country, 2014) 8/10

Un secondo album spettacolare per il trio Ben Miller, Doug Dicharry, Scott Leeper che unisce in dodici tracce dal sapore Country tutta la propria esperienza e classe, miscelando Bluegrass, Americana e Southern Rock in un sound estremamente tradizionale ma che riesce a non emanare mai lo sgradevole odore di anacronismo.

Gab de la Vega – Never Look Back (Cantautorato, Punk, 2015) 7,5/10

Il cantautore Punk Folk bresciano Gab de la Vega torna e stupisce tutti con dieci nuovi pezzi e un’interpretazione di “Never Talking to YouAgain”, un grande classico degli Hüsker Dü. Un po’ ricorda quanto fatto recentemente da Tv Smith, ma c’è anche tanto di Bob Dylan e Neil Young. Da non lasciarselo sfuggire!

Stearica – Fertile (Post Rock, Math Rock, 2015) 7,5/10

Essere scaraventati al muro dalla potenza del suono non è cosa che succede troppo spesso. Gli Stearica ci riescono, in versione digitale quanto in versione live, a botta di drumming energici, bassi e chitarre distorti.

Lydia Lunch/Retrovirus – Urge to Kill (No Wave, Post Punk, 2015) 7/10

Lydia Lunch scrive il capitolo del progetto Retrovirus, riunendo sul palco Weasel Walter alla chitarra, Tim Dahl al basso e Bob Bert (Sonic Youth) alla batteria. Nove tracce per ripercorrere la carriera della “big sexy noise queen” e una ciliegina sulla torta: la cover di “Frankie Teardrop” dei Suicide.

OoopopoiooO – OoopopoiooO (Sperimentale, Ambient, 2015) 7/10

Due maestri del theremin creano un nome impronunciabile, sintomo di un universo distorto, onirico, pazzoide. Quella pazzia sana, che fa andare oltre le spesse barriere del Pop e mischia strumenti, giocattoli, elettronica, parole e voci che sembrano arrivare dalle zone più nascoste del nostro cervello. Tredici brani che sembrano difficili al primo ascolto ma che alla fine ci sembreranno vicini alle orecchie come ronzii di insetti.

All About Kane – Seasons (Pop Rock, 2015) 7/10

Gli All About Kane alla loro seconda prova discografica intitolata Seasons, confermano l’ottimo esordio con Citizens e aggiungono alla loro dna british un pizzico di sperimentazione che si spinge verso il Pop e l’Alternative. Seasons è un interessante insieme di melodie leggere e mood movimentati; canzoni come “Old Photograph” e “Hurricane” si fanno amare fin da subito per piacevolezza e orecchiabilità. Nonostante spesso la voce del cantante ci ricordi molto Brian Molko dei Placebo, gli All About Kane riescono a mantenere viva la propria identità per tutto l’album, offrendo all’ascoltatore qualcosa di interessante e ben realizzato. Anche se uscito da qualche mese lo consigliamo per tutti i viaggiatori estivi che hanno voglia di una sferzata di aria fresca.

My Own Prison – Sleepers (Hard Core, 2015) 7/10

Cagliaritani, i My Own Prison, dimostrano con questo loro lavoro di conoscere decisamente bene l’hard core e di possedere tutta la tecnica per poterlo personalizzare. Tutto il disco è fondato sull’infuenza grind e su un cantato growl che muove su ritmi serratissimi di basso e batteria (al limite dell’agilità), che non si concedono tregua neppure in “Sleepers Eve”, caratterizzata da un timbro chitarristico dal sapore Indie-Pop, o nella più intima “Temper Tantrum”. Dieci tracce per un full lenght davvero pieno di energia, decisamente per gli appassionati del genere.

Solkiry – Sad Boys Club (Post Rock, 2015) 6,5/10

A due anni di distanza dall’album d’esordio, torna il quartetto australiano con il suo dinamico Rock strumentale di chiarissima ispirazione mogwaiana. Un disco potente e variegato, che riesce a cullare tutto lo spettro di emozioni che si accavallano nei sogni ad occhi aperti e che ha l’unico difetto di mostrarsi troppo incapace di osare davvero, risultando troppo banale e ripetitivo nella scelta pura dei suoni.

A Minute to Insanity – Velvet (Grunge, Stoner, 2014) 6,5/10

Il Grunge non è morto. Gli A Minute to Insanity da Cosenza lo dimostrano con orgoglio in questo ep. La chitarra e la voce “consumata” di Francesco Clarizio, insieme al basso di Antonio Trotta e alla batteria di Francesco Lavorato, ti riportano lì, in quegli anni Novanta che non sono ancora messi in archivio del tutto.

Attribution – Whynot (Rock’n’Roll, 2015) 6,5/10

Potente e autorevole questo Whynot dei bergamaschi Attribution, album che mescola un’attitudine classicamente Rock and Roll ad una commistione di generi che invece di risultare indigesta esalta le qualità di ogni singolo componente (prezioso l’uso dei fiati). Da ascoltare soprattutto il divertente Funk di “Scofunk” e la bella rivisitazione di “Cold Turkey” di John Lennon.

La Sindrome della Morte Improvvisa – Ep (Stoner, Noise, Hard Rock, 2013) 6,5/10

Un vero e proprio calderone: fondete Stoner, Noise e Hard Rock e otterrete la giusta ricetta sonora; un sound che appartiene più all’America che all’Italia e forse in questo la lingua non aiuta molto (sarebbe stato più giusto cantare in inglese!). Nonostante ciò un lavoro maturo negli arrangiamenti e perfetto nella registrazione

Snow in Damascus – Dylar (Elettronica, Shoegaze) 6/10

Atmosfere cupe e sonorità che spaziano tra Elettronica e Shoegaze, per un disco d’esordio che nel complesso suona come un buon lavoro di tecnica, ma che non colpisce per la sua originalità.

Moira Diesel Orchestra – Moira Diesel Orchestra (Alternative, Post Grunge, 2014) 6/10

Orfani degli anni Novanta, i MDO ricercano costantemente sonorità a metà tra il Seattle sound e dei seminali Litfiba. Tra qualche errore di gioventù e troppi eccessi di imitazione emergono alcuni momenti interessanti come “Nostema di Posizionamento Globale” o “Ardore” che per qualche minuto cancellano i molti reminder. Rimandati.

The Moon Train Stop – EP (Rock, Alt Pop) 6/10

Echi sixties per il trio piemontese all’esordio. Un Pop alternativo luccicante, divertito, ritmato, senza eccessiva originalità ma competente. Quattro brani suonati bene, cantati così così. L’inglese non rende benissimo. Non lasciano (ancora) il segno.

La Sindrome della Morte Improvvisa – Di Blatta in Blatta (Stoner, Noise, Hard Rock, 2015) 5,5/10

Quando si incide un disco che ha il grave compito di succedere a quello d’esordio si pretende qualcosa di più; purtroppo in questo lavoro si mette in evidenza solo la bravura. Mancano i contenuti e le idee nuove. Un piccolo passo indietro quindi è stato fatto nonostante il gruppo si sia aperto ad un lato più “oscuro”.

Night Gaunt – Night Gaunt (Doom Metal, 2015) 5,5/10

I romani Night Gaunt fanno loro l’essenza dei Candlemass unendola alle cupe atmosfere dei Katatonia e alle accelerazioni di puro stampo Celtic Frost. Si resta sempre nell’ambito del Doom Metal, fedeli a un registro prestampato. Senza infamia né lode.

Marco Spiezia – Life in Flip-Flops (Cantautorato, Swing 2015) 5/10

Semplicità ed immediatezza sono le caratteristiche principali di questo disco che non fa ascoltare nulla di nuovo ma che diverte. Canzoni (quasi) sempre veloci ma dai ritmi abbastanza simili. Forse il cantautore sorrentino Marco Spiezia dovrebbe (e potrebbe) osare di più.

The Junction – Hardcore Summer Hits (Indie, Pop Punk) 5/10

Per i tre padovani, il secondo album è una nuova prova con pretese ridotte al minimo sindacale. Pezzi tirati quando basta per provare a non annoiare, qualche buona melodia, un inglese che si tradisce spesso e tantissime banalità, in una miscela di cliché Indie Rock e qualche incursione nei territori del Punk Rock (Pop meglio) da bermuda, occhiali da sole e infradito.

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Bone Man – Plastic Wasteland

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Arrivano direttamente da Flensburg (Germania) i micidiali Bone Man, un trio Stoner Rock dalle molteplici qualità. Marian e soci tornano a mettersi in mostra con un disco che suona come una cannonata ricco di innumerevoli potenzialità. Sono rimasto subito rapito da questo strepitoso lavoro composto nei minimi dettagli con personalità e dinamicità. La sensazione di trovarsi all’interno di una città deserta e degradata dal tempo è forte; immensi grattacieli in rovina danno l’impressione di franarti sulla testa, uno strepitoso e abbagliante tramonto come cornice. Insomma, un’atmosfera inquietante e sinistra. Questo per capire come Plastic Wasteland riesca a far viaggiare la mente grazie alle note distorte e nervose (chissà, forse sarò stato influenzato anche un po’ dall’ artwork).

Il platter del trio tedesco contiene sette tracce e tutte hanno la stessa peculiarità: riescono a farsi ascoltare con scioltezza e in un solo respiro. Il disco si apre con la titletrack che, chiaramente, è il cavallo di battaglia. La successiva “Wayfaring” vi trasporterà su di un versante Southern che farebbe impazzire addirittura i Lynyrd Skynyrd. “Old Brew” è quella che ti fa scuotere e ti fa danzare, il botta e risposta della chitarra e della batteria sono ineccepibili. Sulla stessa linea si muove anche la successiva “Dry Habit”. Con “Graveyards” arriva il momento di fumarsi una Marlboro e sorseggiare un invecchiato Whisky, uno di quelli che ti scombussolano i pensieri; non si potrebbe fare di meglio ascoltando la voce di Marian. Con “Flesh Land” fate spazio al trip mentale; qui notiamo la bravura dei tre ragazzi nell’accordarsi con gli strumenti: un basso cavernoso, ed una chitarra stridula e graffiante il tutto trainato da una pulsante batteria. Il gran finale spetta ad “Undergrowth”, un alternarsi di momenti calmi con altri assordanti, insomma, parliamo di un brano di pregevole fattura . Plastic Wasteland è un vero capolavoro e i Bone Man ne sono i talentuosi artefici. Non ascoltarli sarebbe reato, farveli sfuggire sarebbe come puntarsi una pistola carica alla tempia.

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Mastodon – Once More ‘Round the Sun

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Una chitarra lontana emerge dalla nebbia, la brezza di un vento di battaglia, un unico, secco colpo di piatto, seguito da un fill che introduce “Tread Lightly”, opening song di Once More ‘Round the Sun. Giunti alla sesta prova discografica, riusciranno i pilastri dello Stoner Metal a far ricredere chi ha criticato il precedente album (che personalmente ho apprezzato tantissimo)? Risposta: No. Il nuovo disco ricalca una certa commercialità esposta in bella vista in The Hunter ed appena accennata in Crack the Skye, il capolavoro finora irraggiungibile, che ha rappresentato l’ago della bilancia tra un approccio Progressive Metal di vecchia scuola (il cui marchio di fabbrica sono interminabili intermezzi psichedelici) e delle tinte più dirette, meno cerebrali. A me poco importa: i Mastodon targati 2014 mi esaltano come hanno sempre fatto. In “The Motherload” Brann Dailor non solo picchia duro come d’abitudine dietro le pelli, ma presta per l’intero pezzo la voce (e che voce!), facendo vedere delle virtù ben delineate anche sotto questo aspetto, mostratoci, in passato, solo in qualche sporadico episodio (vedi “Oblivion” nel già citato Crack the Skye). Il singolo “High Road” rivede splendere ai massimi livelli il tono meno raffinato del bassista Troy Sanders, mentre nella title track è principalmente Brent Hinds, con la sua malignità vocale, a spargere il seme della distruzione tutt’intorno. E Bill Kelliher? Lui se ne sta in disparte, con la sua aria da orso bruno imbronciato, a mollare riff mascherati da rasoiate. Ogni tanto se ne esce, come in “Asleep in the Deep”, con qualche assolo dei suoi, e ci viene spontaneo ringraziare Dio per avergli donato tanto talento.  “Aunt Lisa” contende a “The Motherload” lo scettro di canzone più immediata, a cui contribuiscono delle inedite voci femminili inneggianti al Rock ‘N’ Roll. Occhio al refrain di “Halloween”, vi entrerà sotto pelle senza che ve ne accorgiate. Un autentico gioiello.

Se tutto questo vi appare come un’apostasia, vuol dire che avete ancora i prosciutti a celarvi la vista e vi sarà impossibile dar credito a Once More ‘Round The Sun. Tutti gli altri, gli amanti della buona musica, sono i ben accetti e riconosceranno l’ultima fatica dei Mastodon come una delle migliori produzioni di questo prolifico 2014.

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Witches of Doom – Obey

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Ogni tanto quella sensazione ritorna. Si, proprio quella che all’ascolto di un pezzo inizi a fantasticare: pensi ad un luogo, un colore, un paesaggio e addirittura ti riconduce ad un profumo. Non capita spesso come ben sapete, qualcuno dice che bisogna essere predisposti e forse un fondo di verità c’è, ma è anche vero che la band che riesce a farti emozionare in questa maniera deve saperla lunga. Parliamo dei Witches of Doom, una band capitolina nata nel Gennaio 2013 che unisce sonorità Gothic, Stoner e Doom. La loro musica ricorda in primis i Type O Negative e qualche piccola influenza la devono anche ai Katatonia. Obey è il disco d’esordio di questi grintosi ragazzi, si tratta di un pregiato lavoro elaborato nei minimi dettagli: ottime melodie, discreto sound e un eccellente lavoro di mixaggio. Obey è un coinvolgente disco, ispirato e sensuale. Insomma, basta sentire i primi giri di chitarra di “The Betrayal” per capire di cosa stiamo parlando e non solo, le melodie ed il pesante sound della successiva “Witches Of Doom” vi trasporteranno con la mente in cupi e nitidi luoghi. Stesso discorso per “To The Bone”, una traccia dai riff più taglienti e nervosi, probabilmente anche quella più pacchiana del platter. Si passa a “Needless Needle”, anche questa in puro stile Type O Negative con un interessante melodia ed una vena elettronica davvero interessante. “Crown Of Thorns” è la traccia più lenta, consideriamola come la quiete dopo la tempesta: parte con voce e tastiera e solo quasi alla fine c’è la partecipazione di tutti gli altri, ad ogni modo è un ottimo momento per riprendere fiato e ripartire alla grande con la successiva “Dance Of The Dead Files” (ricca di effetti del synth e con una chitarra pomposa). Ultima song da citare obbligatoriamente è la titletrack, che fa da chiusura. Quest’ultima della durata di ben quattordici minuti rappresenta la consacrazione dei Witches of Doom, ovvero quella di una band coordinata, variegata e incisiva. Questa traccia è un ottimo resoconto del gruppo, una chiusura col botto. Ci troviamo di fronte un gruppo di ottime qualità che ha le carte in regola per essere un caposaldo del genere nel nostro stivale. Speriamo continuino cosi.

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L’Inverno della Civetta – L’Inverno della Civetta

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Un’aria gelida entra nelle narici, i polmoni gelano e il cuore accelera all’impazzata. Le pesanti chitarre de L’Inverno della Civetta conquistano spazi indecifrati nelle fantasie più remote. Quasi una violenza psicologica, porta uno strano piacere sottostare. L’Inverno della Civetta per mettere subito le cose in chiaro è un progetto ligure partecipato da molti artisti: Meganoidi, Mope, Od Fulmine, Isaak, Gli Altri, Eremite, Bosio, Kramers, Numero 6, Demetra Sine Die, Giei, The Washing Machine, Madame Blague, Lilium, Merckx. La pressione dei brani riesce ad essere ogni volta diversa, camminare nella nebbia fittissima e sentirsi smarriti nella Post Stoner Rock “Territori del Nord Ovest”, urla e disperazione in un concentrato di sperimentazione sonora. Ma le tante influenze presenti nel progetto hanno la capacità di cambiare velocemente le carte in tavola, i ritmi si fanno indiavolati e fuori continua a piovere incessantemente. La brevissima ma incisiva “Amaro”. L’omonimo disco rappresenta un percorso di paura, di intolleranza verso la felicità, un’avventura segnata dai forti venti e narrata da Lovecraft. Viene quasi voglia di piangere, il sole non sorge mai in “Morgengruss”, sentori di Black in “Bantoriak”. Tutto si svolge secondo una logica ben definita, sembra di vivere nella Svezia più lugubre, mancano quasi sempre le parole nei brani, le atmosfere decidono incontrastate le sorti del disco superando l’importanza dei riff. Indiscutibile la tecnica. Sembra di rivedere Il Santo Niente in “Messaterra”, in particolare per la parte cantata, il sound mi tira velocemente fuori dalla condizione mentale in cui mi ero gettato. Mi trovo spiazzato e non accetto volentieri lo scorrere del pezzo. Ma siamo alla metà del lavoro e le cose potrebbero cambiare fino alla fine.

Infatti, il disco prende una piega decisamente diversa e non nascondo la delusione, non riesco a concepirlo. Dove sono finite tutte quelle atmosfere tanto eccitanti dell’inizio? Quelle che riuscivano a farmi sussultare le emozioni? “Numero 7” addirittura assomiglia ad una canzone popolare gitana, niente contro le canzoni popolari ma non riesco a realizzare cosa ci faccia in questo supporto. Mi scende uno sconforto impressionante e tutta la mia ammirazione viene dimezzata. L’Inverno della Civetta meriterebbe la massima ammirazione fino alla traccia numero quattro, da quel momento in poi le cose cambiano in modo impressionante. Se fosse stato un Ep sarebbe stato qualcosa di epico, purtroppo non lo è, ma prendiamoci pure soltanto la parte “paurosamente” bella. Veramente un grande peccato, un viaggio finito a male.

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Bretus – Bretus (Ristampa)

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Il Doom proposto in Italia va trattato con i guanti e in maniera particolare in questi ultimi tempi ed il motivo è semplice, almeno per il sottoscritto: la mancanza di band capaci di farti entusiasmare nell’ascolto. Non parlo di una mancanza della scena, di band se ne trovano ma molto spesso (e questo è accaduto a chi scrive) sfociano totalmente nello Sludge, nello Stoner oppure nel Ghothic. Nella nostra penisola se vuoi ascoltare qualcosa di buono devi fare affidamento sempre alle solite band come i Doomraiser, L’Impero Delle Ombre, Thunderstorm o Misantropus per citarne qualcuno dei “vecchi” senza sperare sulle nuove leve. Negli ultimi cinque o sei anni l’unico gruppo che veramente mi ha colpito viene da Napoli e sono i Kill The Easter Rabbit, purtroppo anche loro l’ anno scorso hanno messo fine alla loro storia.

Questa sorta di crisi del Doom in Italia è nota ancor di più grazie a piccoli avvenimenti che messi tutti insieme fanno il punto della situazione. Per esempio una nuova edizione dell’ omonimo dei Bretus uscito nel 2010 e ristampato dalla slovena Doom Cult Records questo 2014 ne è la prova. Il nocciolo della questione è ancora più semplice e banale: è possibile che un genere come questo debba riemergere lentamente attraverso delle ristampe di un certo rilievo come questo lavoro dei Bretus? Ad ogni modo anche se questo andazzo lascia un pò l’amaro in bocca con la riscoperta di queste piccole perle il sorriso potrebbe tornare sulle labbra. L’omonimo in questione che anticipa lo split dei Bretus in uscita prossimamente, contiene cinque tracce di stimato valore, sono all’ incirca venticinque minuti d’ ascolto da mandare giù tutti d’un fiato. Ora che è stato riadattato con le nuove tecnologie il supporto suona decisamente meglio, tutti i particolari che prima potevano sfuggire adesso sono accentuati in maniera egregia. Per questo sarà difficile non notarli nonostante la band abbia cercato comunque di mantenere un suono “primitivo”, provando a mettere d’accordo tutti. Complessivamente l’operato dei Bretus è più che discreto, vi basti ascoltare “Sitting On The Grave”, la traccia d’ apertura, che nel bene o nel male soddisfa anche i guru di vecchia data. Un occhio di riguardo va a “Dark Cloaks” che anche se è la traccia più corta mostra comunque le grandi doti tecniche dei musicisti. Infine è d’ obbligo citare “In Onirica”, una traccia pulsante e baritonale, l’ esecuzione di questa mette a tacere chiunque abbia dubbi sulla bravura dei Bretus. La conclusiva “The Only Truth” chiude il lavoro alla grande. C’è poco da rifletterci su questo piccolo gioiello ristampato, si tratta di uno dei pochi lavori ben riusciti sfornato soprattutto da un gruppo nostrano, perderselo sarebbe un sacrilegio.

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Elevators to the Grateful Sky – Cloud Eye

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Primo full length per i siciliani Elevators to the Grateful Sky, dall’artwork splendido e assai azzeccato: Cloud Eye è infatti un piacevole e duro album di Stoner veloce che si miscela alla passione per la Psichedelia anni 70 (come d’altronde faceva in parte anche l’originale scena del Palm Desert ad inizio 90). Gli ETTGS hanno studiato bene la storia, e il loro tornare sulla scena del delitto è competente e preciso, con qualche aggiunta ben ponderata che sposta il baricentro (e meno male, a più di vent’anni di distanza fare la stessa, identica cosa non avrebbe nessun senso). Abbiamo quindi l’intro di armonica di “Ridernaut”, le chitarre Grunge e brillanti di “Turn in My Head”, o i fiati di “Red Mud”, che ci teletrasportano via dal deserto, verso un finale Soul/Blues sui generis che spiazza e soddisfa. Abbiamo le spruzzate Garage di “Handful of Sands”, inframmezzate da succulenti e grassissimi riff di chitarra fuzz, il mezzo Reggae dell’intro di “Upside Up” che in pochi secondi si trasforma in Punk californiano, poi si rallenta verso voci più pulite in “The Moon Digger”, dal sapore Led Zeppelin, un sapore che rimane in bocca anche dopo i pochi secondi dell’autocitazione di “Xandergroove”. Si finisce tra gli spazi di finto Reggae della title track, che una volta partita poi non torna più indietro, e ci si spiaggia sulla sabbia desertica nella definitiva “Stonewall”, lenta e vibrante, come da scuola Kyuss.

Un disco da ascoltare per tutti gli amanti del genere: Cloud Eye rielabora e prosegue il discorso del Desert Rock con competenza e gusto, senza aggiungere troppo ma funzionando alla perfezione, ottimo discepolo di una scuola che, ne sono certo, ci regalerà ancora numerose cavalcate tra le sabbie torride di ritmiche ipnotiche e distorsioni profonde.

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Artemisia – Stati Alterati di Coscienza

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Unire sonorità dedite allo Stoner Rock con quelle del Progressive è una cosa che gli Artemisia ormai sanno fare benissimo. Dal 2006 (anno di nascita del gruppo) ad oggi di tempo ne è passato e i ragazzi hanno acquisito esperienza e maturità, non è un caso infatti che Stati Alterati di Coscienza sia un disco degno di nota. Iniziamo a dire che attraverso i testi cogliamo una ricerca personale degli autori che con grande maestria riescono ad esporli attraverso lo studio di miti e leggende. E’ più o meno un viaggio all’ interno della propria anima, si passa dalla gioia alla paura, facendo di tanto in tanto apparire una sorta di spettro che potremmo inquadrare come una guida ed un ostacolo allo stesso tempo. Insomma parliamo di un lavoro di un certo rilievo non solo musicalmente ma anche per quanto riguarda le tematiche che lasciano ampio margine a personali riflessioni. Analizzando il sound del disco sentiamo subito dei graffianti riff mescolati a sgargianti giri di chitarra, ciò crea un suono a volte ruvido, a volte dolce e quieto. Basso e batteria sono ben coordinati mentre la voce di Anna Ballarin è un vero e proprio tocco di classe, a metà tra sensualità e rabbia, insomma, una chicca. Stati Alterati di Coscienza è un fiore all’ occhiello della discografia degli Artemisia, è un lavoro maturo che racchiude il sapere degli artisti, i testi lo testimoniano. “La Strega di Portalba” è indubbiamente un ottimo biglietto da visita che mette subito in chiaro le potenzialità del disco e del gruppo stesso. “Insana Apatia” mostra l’ interessante sbalzo piano/forte del disco (la quiete e poi la tempesta), è da questa traccia che si comincia a fare sul serio. La successiva “Il Pianeta X” mostra la vera anima Stoner degli Artemisia, anche in questo caso si alternano momenti dove si picchia forte con altri più fiochi. “Mistica” invece suona come un melodico e candido brano dove troviamo Anna davvero ispirata. Le ultime due canzoni che vale la pena citare sono “Vanità” che nei suoi cinque minuti mette in mostra il lato più tranquillo del gruppo e la conclusiva “Presenza”. Stati Alterati di Coscienza è un disco ben riuscito, Anna Ballarin e soci possono vantarsi di aver creato un disco di elevato spessore, i veri rocker potranno ritenersi soddisfatti.

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Pontiak – Innocence

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C’è una musica che si suona con la parte più profonda del nostro subconscio, una musica che rigetta il calcolo, lo studio, la pianificazione, ma che è espressione di un’ansia, di un bisogno, di una necessità. È una musica da suonare di getto, da ascoltare a volumi elevati, che altera la coscienza e le percezioni, che ci sfida a seguirla per sentieri tortuosi scavati da sinapsi libere da costrizioni. Ed è la musica che ci schiaffeggia all’apertura di questo Innocence dei Pontiak: tre brani in fila come ganci di pugile, tra stonerismi e Garage Rock lo-fi, con chitarre-trapani, riffoni Hard Rock, suoni di batteria sporchi e confusi, voci al limite dell’intonazione e ritmi da lento ondeggiare sconvolti in locali che puzzano di birra e urina (“Innocence”, “Lack Lustre Rush”, “Ghosts”). La partenza fa ben sperare: mi convinco che questi tre fratelli cresciuti a Blue Ridge Mountain, Virginia, siano nuovi alfieri della Neopsichedelia, d’altronde sono loro ad ammettere di non aver mai studiato niente, di aver suonato pochissimo al di fuori del loro “trio di famiglia” e di essersi scelti per una questione di immediatezza, di profonda conoscenza reciproca.

Poi parte “It’s the Greatest” e penso sia una pubblicità di Spotify (avete presente?): un organo e poche chitarre, a creare un tappeto che, con la batteria, si inoltra in un mondo più molle e molto più orecchiabile, con riff di chitarra semplici e diretti e una voce parecchio lineare. Non un brutto brano, ma qualcosa che, finita la tripletta iniziale, non ci saremmo mai aspettati. A questo punto temo per il proseguimento del disco: e infatti, con “Noble Heads” arrivano chitarre acustiche da gruppetto Neo Folk e un andamento più Country, e l’unica cosa che ci salva sono le chitarre, gonfie, frementi, che appaiono qua e là a sottolineare l’avanzamento del brano. Aspetto con ansia il momento del ritorno all’energia e all’impatto iniziale, ma sembrano non arrivare mai: “Wildfires” è ancora più Indie, con chitarre acustiche acide e voci lamentose in primo piano, stemperate solo dal mare di cimbali che appare sul refrain. E poi ecco, “Surrounded by Diamonds”: e tornano i fuzzoni, le chitarre iper-compresse, l’andamento ondeggiante, tra i Black Sabbath e una versione meno Metal e più Indie dei Kyuss. Sono un amante dei gruppi che riescono a variare nei dischi, senza fare album con dieci volte la stessa canzone: ma mi chiedo come faranno i Pontiak a portare dal vivo un album del genere, che continua nell’elettricità con “Beings of the Rarest”, batteria torturata e feedback, voce sopra le righe e distorsioni dalle unghie lunghissime. Sembra che i tre brani più morbidi fossero solo una pausa per poi tornare a saturare l’aria con la vibrazioni frementi di un’urgenza molto, molto più palpabile (vedi l’assolo sanguigno che chiude quest’ultimo brano).

Con “Shining” si rimane su questo livello, rumori e pressione sonora che si svuotano in strofe più Indie, con in generale un impianto leggermente più contenuto, uno stile che mi ricorda le raccolte Nuggets sulle band psichedeliche degli anni 60. Il finale improvviso ci stoppa brutale e ci consegna gli ultimi due pezzi del disco: “Darkness Is Coming”, una ballata dalla voce echeggiante di slap delay, chitarre acustiche lontane, e maree di elettriche che spuntano qua e là, in un classico istantaneo, una canzone che potrebbe essere stata scritta trenta o più anni fa; e poi la chiusura con “We’ve Got It Wrong”, satura e ritmica, con qualcosa di britannico nella melodia del ritornello, dal tono ironico e scanzonato.  Insomma, i Pontiak hanno saputo sorprendermi, confezionando un album intenso, di acida e psichedelica follia elettrica ma mai veramente violento, infilandoci dentro tre o quattro episodi di rilassatezza e orecchiabilità Indie, con un salto estremamente acrobatico ma che, qualche ascolto dopo, può anche avere il suo senso. I tre fratelli Carney sanno tessere inni al qui e ora con naturalezza, senza troppa teoria, mantenendo vivo e vibrante solo l’essenziale (brani brevi, dalle strutture ridotte all’osso, e chiusure tagliate con l’accetta). Innocence è senza dubbio un disco da provare se si è alla ricerca di un mix killer di Psichedelia vecchio stile, riffoni fuzz, impianto lo-fi e saltuarie immersioni in balsamo uditivo per calmare i peduncoli auricolari. Per farne un disco inappuntabile si doveva “progettarlo” un po’ di più: ma senza quest’immediatezza così brutale non sarebbero stati i Pontiak.

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Alfabox – Alfabox

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Una botta di puro Rock senza delicatezze inconcludenti, il ritratto di una violenta generazione insoddisfatta, il terzo omonimo lavoro degli Alfabox racconta tutta la sofferenza della vita negli anni dieci (in Italia). Ci vuole molto coraggio intellettuale per sparare Rock a brucia pelle. La band udinese svela tutta la propria rabbia con una registrazione in presa diretta figlia della naturalezza compositiva, le sbavature inevitabili (dovute appunto alla registrazione in presa diretta) vengono lasciate appositamente per confermare il semplice impatto che gli Alfabox vogliono lasciare. Nudi e crudi senza censura. “Ormai è Troppo Tardi” apre il disco nel migliore dei modi, basso pesante energicamente Stoner e voce notevolmente alta (quasi Heavy), il testo non lascia speranza alla tremenda situazione lavorativa dei giorni nostri. Bisogna picchiare duro sopra certi maledetti argomenti.

Alt Rock meticoloso come il miglior Teatro Degli Orrori agli albori in “Miracolo Italiano”, da incorniciare la frase del testo “Sarò un precario ma vivo a Milano”. Perché se non era chiaro i testi sono tutti in italiano e precisamente mirati. Molto diversa e dalle parvenze simil elettroniche con cantato (quasi) filastrocca in “Aspetta e Spera”, comunque sia la digeribilità è immediata. E a questo punto potrei sentirmi già parecchio soddisfatto del disco degli Alfabox ma siamo soltanto alla traccia numero tre. Sulla stessa linea armonica della precedente ma con una batteria scintillante e riff più delicati viene in ascolto “La Mia Città”. Il disco sta cambiando decisamente direzione adesso, molta morbidezza attende le mie orecchie, i testi rimangono crudi. Le tastiere circoscrivono “Prima di Dormire”. Direzioni Diverse oserei dire. Arpeggi solari e tratti da ballatona efficace quando arriva il momento di “Ghiaccioli”, la forza del disco e soprattutto nella varietà di proposta e nelle scelte sempre spiazzanti. Torno a sentire nuovamente quella cattiveria dell’inizio in “Il Morbido Cecchino”, la durezza  delle chitarre abbraccia senza fatica motivetti Progressive, sembrerebbe di percepire quasi un omaggio alla PFM. Ma quello che la musica trasmette è sempre soggettivo, sarà la mia vicinanza geografica con la patria di Franz Di Cioccio a giocare brutti scherzi. Sonorità Rock medio orientale (ci siamo capiti no? Forse) nella punkeggiante “La Nostra Primavera Araba”, sensazioni altalenanti in meno di tre minuti, distorsioni tirate al massimo. Killing an Arab? Chiusura in grande stile Indie British Rock per gli Alfabox, chitarre ben pettinate e saltello che viene spontaneo, non ci stancheremo mai di certa roba almeno fino a quando siamo mentalmente giovani e freschi. L’intero lavoro è stato registrato con Enrico Berto in una baita di montagna (Mashroom Studio) in cinque giorni, l’idee erano molto chiare e io degli Alfabox non butterei via nulla. Un lavoro carico di energia che vuole soltanto essere ascoltato, una bella legnata sui denti.

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