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Deluded by Lesbians – Heavy Medal / L’Altra Faccia della Medaglia

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I Deluded by Lesbians – un nome, un programma – fanno Rock Demenziale. Manco a dirlo. E fare Rock Demenziale è tutt’altro che facile: bisogna saper suonare, certo, e bisogna soprattutto saper far ridere, arte sottile, complessa, che implica l’abilità di trovare i giusti riferimenti, i giusti argomenti, i giusti mezzi retorici perché il messaggio possa arrivare. La band sforna un Cd di tutto pregio: copertina cartonata, che raffigura tre donne in reggiseno e mutandine con le tre medaglie (oro, argento e bronzo) e due cd. Heavy Medal è il primo, L’Altra Faccia della Medaglia il secondo. Che poi si scopre essere lo stesso Cd, con le stesse tracce, ma cantato interamente in inglese il primo e in italiano il secondo. Ah. Un packaging complesso quindi e costi di stampa e realizzazione non indifferenti. Per cosa? Scopriamolo. “The Drummer” (o “Il Batterista” nella versione italiana) è una presa per il culo del mondo dell’elettronica che può fare tranquillamente a meno della figura del batterista. Interessante – sono ironica. “V.I.T.O.A.N.T.O.N.I.O” è indubbiamente una traccia idiota, retta da ispirazioni Punk americano a cavallo tra Green Day e Blink 182, ma non fa assolutamente ridere. Lasciamo stare “Firemen” (“Vigili del Fuoco”) e “Supersummersong” (aka “Canzone dell’Estate”), che proprio non dice nulla. “Onion Rings” è molto più Rock, con distorsioni fuzzate e powerchords. Con “Torture” si scopre che probabilmente sono molto più seri di quanto non vogliano far credere, molto più convinti di sé di quanto non ci si aspetterebbe da una band demenziale. Ed esattamente come si era sentito con “The Drummer”, in cui si diceva che il batterista è inutile per poi farlo entrare nel tessuto strumentale, qui si dice I don’t want distortion e alé con un bordello elettrico esagerato. La gemella italiana, “Cane Morto”, è invece un gran pezzo, bisogna riconoscerlo: il testo è molto più articolato e non si tratta assolutamente solo di una traduzione letterale arrangiata e aggiustata, ma di liriche nuove costruite per immagini giustapposte nervose, arrabbiate, stizzite. Molto ben fatto. “Walking on the Beach” è Hard Rock old school. Non aggiunge assolutamente nulla al genere ma non è assolutamente sgradevole o poco incisiva come le precedenti tracce. Con “Stonehenge” ci si rende conto che i ragazzi non sono completamente bruciati: il brano è davvero ben composto e infatti stilisticamente non c’entra nulla con quanto ascoltato fino ad ora. La chitarra spadroneggia giocandosi il tema principale con il basso, in un bel dialogo di poche battute reiterate. “Pigs Are Indifferent to Gastronomy” vanta un intro Noise alla Sonic Youth che però lascia subito spazio a costruzioni molto più semplici e a un tremendo cantato alla Marylin Manson. E vabbè. Con la title track “Heavy Medal” lo stile musicale diventa Funky, giusto perché mancava un ingrediente a questa macedonia musicale assolutamente incapace di divertire (ma nemmeno di strappare un sorriso eh), suonata da musicisti tecnicamente validi a cui però manca un’omogeneità stilistica di fondo e soprattutto un messaggio vero da comunicare. Cosa che mi lascia perplessa anche sul bisogno di comporre (e incidere!) addirittura in due lingue. I Delude by Lesbians danno l’impressione di credere di aver molto più da dire di quanto non abbiano in realtà, dovendosi rendere persino intellegibili in due lingue. Mah. Sicuramente quello che dimostrano è di avere molti soldi da spendere in studio di registrazione. E beati loro. Voi che magari nel denaro non sguazzate, evitate di comprare questo disco.

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Tiger! Shit! Tiger! Tiger! – Forever Young

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Picchia duro Forever Young dei Tiger! Shit! Tiger! Tiger!. Picchia talmente duro che la testa si spacca in due. La sensazione è quella del sudicio locale sudato nell’underground di New York, sembra quasi di bere birra con Thurston More fantasticando sulle dimensioni del pene di Kim Gordon, una presa diretta con l’illusione concreta del live, un Indie Rock made in USA. Non potrebbe essere altrimenti, a pensarlo registrato diversamente mi viene quasi un conato irrefrenabile e capisco che questo è il modo perfetto per spezzare la classica monotonia. Insomma, non è la solita cosetta Indie italiana modaiola e fighetta dallo spessore limitato, qui la musica esce fuori dal supporto materializzandosi improvvisamente. Che poi il concetto di fighetto possa assumere altre dimensioni sta all’ascoltatore deciderlo, in questo caso direi senza pelazzi increspati sulla lingua che Forever Young è roba Figa con la F maiuscola.

Dal primo pezzo che titola l’album vengono subito via tutti i dubbiosi preconcetti, Forever Young parte violento e incessantemente martellante (con “Forever Young”), chitarre storte che prendono largo anticipo sulla mia visione delle cose e poi stiracchio le gambe al suolo. Come essere calpestati da un escavatore e provare piacere. “Golden Age” mischia entusiasmo e tristezza, come alitare sulla propria immagine allo specchio. “Twins” t’ingoia per poi risputarti, echi di batteria incontrollabili. Per qualche assurdo motivo sento avanzare una tachicardia inspiegabile, ci sarebbe da lasciarsi scoppiare il cuore nella cassa toracica. Bellezza del sound sporco in “Whirlwind Weekend”. Poi il susseguirsi del percorso di Forever Young mantiene sempre una logica precisa, la gradazione continua a salire e l’enfasi del disco non lascia speranza a chi cercava di disfarsene senza rimanerne coinvolto. Le tempeste nella mente vengono pian piano spazzate via dalla più esplosiva “Rage”, volentieri accolta dal mio corpo come l’ultimo Negroni delle quattro del mattino, insostituibile.

I Tiger! Shit! Tiger! Tiger! scommettono molto su questo lavoro mettendo sul piatto un sapore difficile per intenditori dal palato fine, non esiste mai quella volgare banalità che a tutti farebbe comodo ascoltare per non ritrovarsi a fare i conti con della roba in grado di estrapolare sensazioni nascoste con le quali vigliaccamente non vogliamo avere a che fare. Forever Young rimane sul gradino alto della musica scritta in questi ultimi periodi, un disco concettualmente mirato e suonato con una verve prepotentemente fuori dal comune, erano anni che non sentivo un suono che allo stesso tempo esprimesse rabbia e felicità con una naturalezza impressionante. I Tiger! Shit! Tiger! Tiger! trovano il giusto equilibrio in questo disco arrivando finalmente ad assumere una propria identità artistica, adesso sarei in grado di riconoscerli fin dalla prima nota, loro hanno saputo crearsi una fisionomia ben precisa che nessuno ormai riuscirà a staccargli dalla pelle. Forever Young è roba grande da godersi senza troppe precauzioni. E poi adoro i riverberi.

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Neko at Stella – Neko at Stella

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Il Rock deve suonare sporco e duro, altrimenti non stiamo parlando di Rock. Ma di maledette influenze senza voce concreta. L’omonimo esordio discografico dei Neko at Stella impone le classiche regole del Desert Noise Rock nel miglior modo possibile, un lavoro mixato in analogico per rendere vive e bagnate le radici americane del sound. Un lavoro che suona datato di una ventina di anni ma in grado di mettere in evidenza la straordinaria potenza psichedelica della band, non è roba facilmente ascoltabile in Italia se proprio vogliamo dare un punto di originalità al disco, qui di made in Italy  non troviamo assolutamente niente esclusa la nazionalità di Glauco Boato (voce e chitarra) e Jacopo Massangioli (batteria). Pezzi interminabili che sembrano tirare fino all’infinito, la chiusura che non vuole mai arrivare butta l’attenzione a capofitto nella pesantezza Stoner dei pezzi a loro volta carichi di passione. Quella passione scritta in maniera dura ma comunque sinonimo di amore e vita vissuta, le batterie spaccano i timpani come è giusto che sia. Fucilata in pieno volto e poca voglia di discutere.

Si parte subito forte con l’opener “As Loud as Hell” (primo singolo e video del disco), le intenzioni poco delicate dei Neko at Stella vengono subito fuori facendo capire di che pasta sarà composto l’intero disco che sicuramente non è adatto ad un pubblico di spelacchiati amanti del Rock dolce (sempre se possiamo definirlo Rock), questa cosa inizia a piacermi veramente e sono ancora alla prima traccia. Poi si continua a picchiare e quasi provo dissolvenza mentale quando mi ritrovo negli intermezzi di chitarra appartenuti ai più tenebrosi Sonic Youth di Daydream Nation, sensazioni pure che passano per la testa, magari associo ma non centro il bersaglio. L’immaginazione gioca brutti scherzi, a me piace giocare con le mie emozioni e Neko at Stella ne produce a dismisura e fottutamente contrastanti. Anche gli oltre otto minuti e trenta di “Like Flowers” non sono proprio una soluzione semplice da affrontare per il mio cervello che s’impone di seguire un percorso Blues e vagamente Shoegaze senza azzardare bruschi movimenti, il pezzo che forse nasce per caso ipnotizza e piace tanto. Poi la tempesta riprende piede nell’improvvisazione strumentale di Intermission. Graffi infetti sulla schiena. Poi continuo a farmelo scivolare sulla pelle in maniera delicata, il piacere inizia ad aumentare anche perché il disco assume forme lievemente più leggere anche se in “Drop The Bomb, Exterminate Them All” trovo parecchie cosette scontate Grunge anni novanta alle quali siamo ormai troppo abituati. “The Flow” dichiara che il disco ha cambiato decisamente stile a favore di chitarre ritmate Blues. Poi motoseghe psichiatriche in Psycho Blues e tanta voglia di muovere il culo. Altre due canzoni dall’interiorità emotiva alle stelle e il disco finisce. I Neko at Stella hanno dimostrato la durezza della loro corazza ma anche la voglia di portare avanti un progetto musicale fuori dal coro, il loro omonimo esordio esce fuori dalla quotidiana routine, idee chiare e tecnica da incorniciare. Speriamo sia il piacevole assaggio di una band ancora tutta da scoprire, noi e la musica italiana abbiamo tanto bisogno di band e dischi di questo calibro.

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The Knife – Shaking the Habitual

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Un gioco di percussioni e vocalismi in “A Tooth for an Eye” apre Shaking the Habitual, il quarto disco dei The Knife. Ritmi alla Talking Heads che appaiono forse un po’ datati, ma al contempo proiettati negli anni 2000, in un perfetto caos e disordine sonoro che però non è disprezzabile e che ritroveremo più avanti soprattutto in “Without You my Life Would be Boring”. Annunciato già nel 2011 sul sito della band e nel 2012 con un breve teaser su Youtube, l’album venne dato alle stampe nei primi mesi del 2013 tra curiosità e soddisfazione / insoddisfazione dello zoccolo duro dei fans.

Certamente la performance vocale appare ancora una delle più intriganti della scandinavia (potrebbe contendere lo scettro alla celebre Bjork), ma dal precedente Silent Shout sono passati ben sette anni e quindi forse ci si attendeva un po’ di più da un gruppo dall’indubbio talento e spessore come il duo svedese. Elettronica allo stato puro (sempre e comunque) che soffre tuttavia di una durata esageratamente lunga (oltre settanta minuti sono davvero troppi da digerire persino per le orecchie più forti) e una scrematura dei brani avrebbe forse giovato ad apprezzare di più questo lavoro che appare a tratti intrigante, a tratti noioso.

Il coltello scandinavo è tornato quindi a colpire, ma lo fa con timidezza, senza osare mai troppo, senza spingersi oltre quei confini che da sempre lo contraddistingueva, mentre passava da una musica House a un Synth Pop post moderno senza eguali. Durante “A Cherry on Top” sembra infatti di stare ascoltando un disco solista di Thurston Moore o di Lee Ranaldo dei Sonic Youth (ma i loro sono sempre lavori geniali) e se non fosse per l’incantevole voce (che arriva però dopo cinque minuti!) verrebbe voglia quasi di passare alla traccia successiva.

Meno male che a rialzare la media ci pensano capolavori sonori quali “Raging Lung” o “Fracking Fluid Injection” in cui il duo osa davvero tanto ed ammalia l’ascoltatore e nella finale “Ready to Lose”. Insomma un disco che non passerà di certo alla storia e che quasi sicuramente dividerà i fans del gruppo.

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EVIL – EVIL

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EVIL: questo il nome del progetto nato a Sulmona (Aq) nell’Ottobre 2012 da un’ idea del chitarrista Alessandro La Civita che chiama a far parte della band da subito Marco Di Ianni (basso e synth) e Giovanni D’Ambrosio (batteria). Dalle loro menti nascono le prime bozze acustiche da cui viene estratto e arrangiato il materiale definitivo di questo ep, pubblicato ad Agosto 2013, che si avvale anche della collaborazione di Maurizio Tavani (En Declin, Droning Maud) che offre una performance vocale pressoché perfetta. Lo stile di quest’ultimo ricorda da vicino infatti quello del più malinconico ed intimo Eddie Vedder dei Pearl Jam e si incunea nelle melodie ben tessute dai suoi tre compagni di gruppo.

Il nome della band tradotto in italiano vuol dire “male”; anni fa i Sonic Youth ci scherzarono sopra sulla parola intitolando un loro disco Evol, anagramma di love (Amore) e distorsione di evil appunto. Ed effettivamente di cattivo la band ha ben poco, in quanto le quattro tracce contenute in questo ep sono molto pacate e malinconiche. La venatura pop e il taglio stilistico appaiono ben chiari sin dall’opening “Meaningless” (poco più di quattro minuti di assoluto piacere sonoro) e dalla successiva “Winter Thoughts” in cui graffianti chitarre riecheggiano le atmosfere dei Radiohead di “Creep” e di “High and dry”.

In “Trapped” invece la batteria inizia ad acquisire un peso sempre maggiore (essendo stata finora un po’ in disparte) scandendo chiaramente un tempo che raramente subisce variazioni (ma ne è proprio questa la bellezza; ricordate una certa Moe Tucker che con i Velvet Undeground faceva tanto con pochi pezzi del suo strumento? Ebbene, il tocco di D’Ambrosio non sarà forse così minimalista, ma di certo neanche troverete in esso virtuosismi alla Terry Bozzio o alla Mike Portnoy, ex Dream Theater). Conclude il tutto in bellezza “Mae” che inizia con una serie di armonici alla chitarra per poi proseguire in un Pop raffinato. I testi di tutte e quattro le canzoni sono stati scritti da Susanna Camerlengo. Poco più di quindici minuti che offrono alla band un ottimo bigliettino da visita che sicuramente sarà utilissimo per trovare date dal vivo.

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His Clancyness – Vicious

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Jonathan Clancy, canadese trapiantato a Bologna, è un girovago. Nel suo peregrinare ha visto tanti luoghi diversi, assorbendone le influenze culturali e musicali. Già in tour con Settlefish e A Classic Education, ha uno stile riconoscibile e allo stesso tempo riconducibile a centomila altri artisti. C’è un cantautorato alla Neil Young, tanto per cominciare, incupito da un costante rimando al Glam Punk e alla New Wave e reso moderno nel senso indie del termine. Quindi chitarrine plin plin e voci spesso e volentieri sullo sfondo del pezzo. Al primo ascolto sembra un’irritante accozzaglia di roba registrata alla perfezione. Al secondo giro del disco, piace. Vicious si apre con “Safe Around the Edge”, uno scanzonato brano Post Punk dal sapore più americano che inglese. “Miss Out These Days” è sinteticissima, a causa delle tastiere in apertura. Ha un tono molto più meditativo e riflessivo della precedente e si trasforma presto in una canzoncina super Indie tenuta in piedi solo da voce e chitarra. “Gold Diggers” è vintage: gradevole nella resa, sembra un rivisitazione della musica leggera anni 50, confluendo quasi per direttissima in “Hunting Men”, più quadrata e dritta delle precedenti, banale, se vogliamo, ma caratterizzata da un bel dialogo intessuto tra la componente ritmica e quella melodica. Il disco cambia di nuovo tono con “Slash the Night”, in cui Clancy strizza l’occhio ai Radiohead. Come un cerchio, si torna alle sonorità Glam dell’inizio in “Run Wild”, a cavallo tra la scanzonatura Punk e le atmosfere decadenti della New Wave. “Machines” è costruita in modo volutamente artefatto, con un’introduzione eterea che dà l’impressione che il brano evolverà in una certa direzione quasi Trip Hop: la sensazione iniziale viene subito disattesa però e la canzone si trasforma in una ballata veloce di stampo cantautorale, ma su un tappeto elettronico. Vicious prosegue piacevolmente, ma senza lasciare particolare traccia dietro di sé. “Avenue” si rivela da subito per essere la canzone depressa del disco: voce e chitarra creano un’atmosfera parecchio buia e malinconia su cui si muove un testo essenziale e ripetitivo, come conducesse a una sorta di trance. “Crystal Clear” è un vero e proprio tributo agli anni ’80, mentre “Zenith Diamond” è puro Punk. “Castle Sand Ambient” è la traccia che più mi ha colpito: qui le sperimentazioni si esasperano e le iniziali sonorità acustiche si espandono a macchia d’olio tra riverbero e noise, elegantemente dosati, come se si applicasse alla lettera la lezione dei Sonic Youth. Il disco poteva finire qui, ma Clancy si gioca un’ultima traccia (a mio avviso sbagliando): è la debolissima “Progress”, caratterizzata da un ritornello ben poco incisivo e pregevole forse per la sonorità Garage inglese che appare per la prima volta in questo lavoro discografico. Nel complesso è un disco che si sente, ma molto probabilmente non si compra. Si scarica, ma si ascolta una volta e si cestina per non occupare spazio nell’hard disk. Ben fatto, indubbiamente, ma incapace di aggiungere nulla di particolare a quanto è già stato detto in musica. Almeno negli ultimi quarant’anni.

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THE KILOWATT HOUR Stephan Mathieu,David Sylvian, Christian Fennesz

Written by Senza categoria

HUMANI 2013 presenta l’evento dell’anno:
THE KILOWATT HOUR
Stephan MathieuDavid SylvianChristian Fennesz
21 settembre 2013
ore 21:00
Teatro Massimo
Via Caduta del Forte, 15
Pescara

Dopo la magia del pianoforte e le atmosfere oniriche regalate dall’incredibile performance offerta dal concerto del duo composto Ryuichi Sakamoto e Alva Noto, lo scorso al teatro Marrucino di Chieti, torna in Abruzzo, ad oltre vent’anni di distanza David Sylvian, musicista eccelso che con i suoi Japan, alla fine degli anni Settanta, diede il via al movimento New Romantic con il duro compito di proseguire il discorso di innovazione / rivoluzione sonora iniziato con il Punk che si opponeva fermamente alla Disco Music. Successivamente, se si esclude una breve reunion con i suoi ex compagni celata sotto il nome Rain Tree Crow, il cantante e compositore si focalizza su una carriera solista durante il quale sperimenta traiettorie sonore che incontrano il Jazz, la musica colta e l’Ambient senza trascurare la componente più Pop. Il gusto per la ricerca lo ha portato a confrontarsi anche con artisti del calibro di Robert Fripp, Ryuichi Sakamoto, Holger Czukay, Mark Isham, Jon Hassell, David Torn, Blonde Redhead, e molti altri. In occasione dell’evento pescarese Sylvian sarà affiancato da Stephen Mathieu, musicista eclettico ed in passato anche insegnante di Arte e Teoria Digitale all’Università di Arte e Design HBKSaar di Saarbrücken, con il quale ha anche pubblicato l’album Wandermüde e da  Christian Fennesz, mago dell’elettronica e già collaboratore di Jim O’Rourke (Sonic Youth) e Mike Patton (Faith No More, Mr. Bungle, Fantômas, Tomahawk e Peeping Tom). Un progetto esclusivo ed avventuroso, un viaggio sonoro di incredibile profondità nella cornice del Teatro Massimo di Pescara che mai, prima d’ora, si era spinto verso tali confini. Inutile sottolineare che si tratta del classico appuntamento dell’anno…ovviamente targato HUMANI, label cult della scena musicale abruzzese prodotta da Rea.Pro.Gi. srl e che, tra le tante ambizioni, vanta anche l’abbattimento dei “campanilismi” che da sempre insistono nell’Area Metropolitana (Chieti-Pescara) “perchè – come sottolinea Arturo Capone  (direttore artistico ed ideatore del progetto) – l’arte è un linguaggio universale che deve unire e non dividere”. L’evento èorganizzato con il Patrocinio della Regione Abruzzo, Provincia di Pescara e Comune di Pescara.

Acquisto tagliandi online:
http://www.ciaotickets.com/node/3934?mini=calendar%2F3934%2F2013-09

TIPOLOGIA POSTI:
POLTRONE
Poltrone I Settore da fila A a fila I € 70.00
Poltrone II Settore da fila J a fila U € 60.00
Poltrone III Settore da fila V a fila W1 € 50.00
PALCHI
Da P1 a P30 € 35.00
GALLERIA
Da fila 01 a fila 08 € 30.00

Da fila 09 a fila 11 € 20.00

Per informazioni, prenotazioni e prevendite i numeri da contattare sono:

339/8849631 – 392/9011934 – 335/7752562

Ufficio Stampa: Independent Identity di Marco Manzo – Marco Vittoria
Email: press@humani.eu

Contatti:

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Evento Facebook:

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La Band Della Settimana: Nient’Altro Che Macerie

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I Nient’altro Che Macerie sono in tre e vengono dalla provincia di Milano, quella che ti opprime e ti fa venire voglia di andare da tutt’altra parte, o che forse non esiste più ed è solo uno stato mentale. Suonare per prendere aria; suonare e urlare sentimenti talmente personali da diventare quasi universali. Urlare per prendere coscienza delle condizioni casuali che accompagnano i fatti e ne determinano la natura. Circostanze.

I Nient’Altro Che Macerie sono Andrea Scardeoni, Simone Battistoni e Matteo Salvatori e suonano Emo Alternative Rock sotto l’influsso dei padrini The Van Pelt, Verdena, Mogwai, Sonic Youth

Puoi scaricare gratuitamente il loro disco direttamente dal sito dell’etichetta V4V Records.

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Il video della settimana: Mad Chickens – Gun in my Head

Written by Senza categoria

Chi sono le fantomatiche MAD CHICKENS?

Questa settimana potrete gustare sulla nostra home il loro video del brano “Gun in my Head” ma per chi volesse saperne di più ecco la loro Biografia.

Bella domanda, ce la siamo posta anche noi ma con scarsi risultati. Scherzi da nerd a parte, le Mad Chickens nascono nel 2004, con tanta voglia di suonare Punk, Noise e Grunge. I loro mentori sono gruppi che hanno tracciato le linee essenziali della storia del genere: Nirvana, Sonic Youth, Melvins, Marlene Kuntz e anche Verdena. Iniziano come cover band, ma ben presto si rendono conto che è ora di cacciare del proprio. Tocco femminile e voglia di misurarsi con le proprie capacità sono le parole chiave. I cambiamenti di line up sconvolgono il gruppo fra il 2005 e il 2006 (Noemi, sempre con noi, comunque) ma alla fine sembra esserci un momento di tregua e Leandro Partenza sembra gradire la loro follia e i pezzi che tirano fuori; dunque prende sotto contratto, nella sua Label Lady Music Records, le quattro ragazzacce. Nell’agosto 2007 presso l’Animal House Studio di Ferrara nasce il loro primo EP (masterizzato ad Aprile 2008 nella Red House Recordings di Ancona) di sei tracce, in memoria della bassista scomparsa, dal titolo Goodbye Butterfly. Viene distribuito dalla Jestrai Records e promosso da Lady Music Records. L’EP ha sonorità graffianti e arrabbiate, isteriche e rudi. L’estate del 2007 è però molto calda e non si ferma alla sola registrazione: partecipano infatti al MUSIC VILLAGE, l’evento che coinvolge ogni anno circa 500 musicisti emergenti. Le Mad non hanno vita facile e non amano annoiarsi. Ancora cambi di line up sconquassano gli equilibri della band: dopo varie peripezie arriva Nicola Santucci alla batteria. Si chiudono in sala prove per dar vita a Kill, Hermit!  Questa volta si tratta di un album di 12 tracce, caratterizzato da cura e passione. I pezzi variegati e di istinto sperimentale vengono registrati e missati da settembre 2011 presso lo Studio Wax di Roma, grazie al sapiente aiuto di due grandi fonici: Alessio Pindinelli e Fabio Galeone, che, con la loro passione e professionalità, hanno saputo aiutare e supportare la band da ogni punto di vista. Kill, Hermit! è la sintesi di un percorso irto di difficoltà e di gioie, di crescita musicale e personale. Molto diverso dall’EP, vede l’entrata in scena anche di altri strumenti (tastiera, clarinetto…).
Kill, Hermit! esce ufficialmente nel giugno 2012.
Maria Teresa lascia il gruppo e le Mad decidono di rimanere in tre.

Ecco quindi la formazione attuale:

Valeria Guagnozzi: Voce&Chitarra
Laura De Benedictis: Chitarra&Tastiere&Cori
Nicola Santucci: Batteria

Essere polli può sembrare da stupidi, ma è essere folli che fa la differenza.

 Nota: L’album è stato registrato e mixato in analogico presso lo studio Wax di Roma, e masterizzato in analogico presso l’Alphadept di Bologna da Andrea Suriani.

 

 

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Deerhunter – Monomania

Written by Recensioni

E’ uscito da pochi giorni il quinto album Monomania dei Deerhunter, band statunitense di Atlanta, formata dall’amato Bradford Cox, Moses Archuleta, Josh Fauver e Lockett Pundt. Il genere di questo lavoro è incasellato nel Noise Rock, ma più in generale possiamo inserirlo nella categoria Indie-Rock. La lunga attesa tra il precedente e l’attuale opera avevano fatto sperare in qualcosa di memorabile. Speranza presto sfumata per i fan.
Il titolo dell’abum Monomania ci introduce in un ascolto che a tratti diventa realmente ossessivo e maniacale con i suoni grezzi e distorti dal mood garage, mentre in altri momenti è in grado di cullarci in sound più rilassati. Le tracce di Monomania sono 12 e l’ascolto scorre fluido tra gli inizi noise/garage di “The Leather Jacket” e “Neon Junkyard”e i brani meno pesanti, più simili a ballad, come “The Missing” o “Nitebike” che intervallano l’album dandogli quella giusta alternanza di atmosfere che non annoiano l’ascoltatore.

Chiare le influenze, dichiarate anche dalla band, dei Ramones e degli Sonic Youth in primis, ma ad un ascolto più attento si scorgono anche piccole somiglianze con i R.E.M. e forse, a mio parere, anche lontanamente alle atmosfere degli Smashing Pumpkins. Un disco in cui si evince la decisione e l’immediatezza di suoni e testi, non ancora del tutto maturi e profondi, come invece ci si sarebbe attesi da una band di rilievo del settore come loro. I Deerhunter dicono bye bye alle sfumature psichedeliche che abbiamo trovato negli album precedenti e lasciano le canzoni ad uno stato grezzo e meno raffinato.

Un album tutto sommato interessante seppure sia purtroppo lontano dallo splendore e dai fasti di Halcion Dygest (2010) che probabilmente è quello che possiamo considerare il vero album icona dei Deerhunter, vista la grande trasversalità degli apprezzamenti ricevuti. Un disco, Monomania, che piacerà molto agli amanti del Noise e del Garage, ma non troverà troppi consensi in chi si aspetta il proseguo della storia del gruppo che si era così ben improntata nel 2010.

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Gli Ebrei – Disagiami

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Gli Ebrei sono una band che parla veramente poco di sé ma sa decisamente stare sulla bocca di esperti e appassionati del settore. Una biografia stringatissima che va all’essenziale: arrivano da Fano, suonano insieme da poco più di due anni, pubblicano un primo lavoro per Sinusite Records che viene poi ripreso da Wallace Records e ristampato in vinile, in edizione limitata, e ora, per la Tannen Records, producono Disagiami, un Ep di sei tracce che si susseguono senza respiro e che è stato lanciato prima dalle pagine web di Rockit e ora è in download gratuito al prezzo di un retweet su Twitter o di una condivisione su Facebook. Una forma di pubblicità nuova che potrebbe rivelarsi una buona strategia di marketing, più dell’ormai apparentemente obsoleto download gratuito da iTunes e probabilmente già più immediato dell’ascolto su Spotify.

Comunque. Sei tracce vi dicevo. E un sound tendenzialmente garage con sferzate noise alla Sonic Youth e una registrazione molto molto sullo stile del più recente indie americano (e parzialmente inglese). Di quelle con chitarra, basso e cassa davanti a tutto e la voce indietro, da doversi sforzare di sentire bene cosa dice il cantante, perché la linea vocale viene trattata al pari degli altri strumenti. “Opportunità” ha un incipit molto sullo stile dei Franz Ferdinand, anche per il trattamento vocale, che pure ha tratti propri dato che articola un testo in italiano. Dopo uno stacco che ricorda neanche troppo vagamente i Marlene Kuntz, il brano cambia colore, diventa più aggressivo, sullo stile dei Linea77. La title-track, “Disagiami”, risente dell’influenza della new-wave: le sonorità si fanno più cupe e il canto di Matteo Carnaroli, soprattutto, assume quella costruzione melodica caratterizzata da una voluta incertezza nell’intonazione delle note acute, che dà un particolare tocco emotivo, noir, fumoso, istintivo. Decisamente più ironica e scanzonata è l’atmosfera di “Strage di Pasqua”, traccia surf da cui emerge la bravura tecnica del bassista Andrea Gobbi, capace di soluzioni semplici ma di grande gusto. “Scatola Nera” è un brano squisitamente post-punk di poco più di due minuti in cui la vera protagonista è la pura esaltazione del rumore guidato, meditato, studiato, soggiogato. Il noise viene contenuto invece in “Strumentale”, penultima traccia nuovamente d’ispirazione inglese (stile Milburn, per intenderci), che lascia poi spazio all’indie puro di riff semplici e incisivi alla Yuck, esaltati da stacchi che prevedono il momentaneo silenzio di tutti gli altri strumenti.

Ho un problema mai taciuto con un arrangiamento che prevede livelli di incisione tali per cui la voce viene relegata in un secondo ideale piano sonoro e tendenzialmente prediligo le voci calde e gravi a quelle tenorili e ariose, ma Gli Ebrei hanno imbroccato la formula giusta. Sono al passo coi tempi con le loro chitarre più melodiche che armoniche e il basso incalzante; sono incazzati, schifati ma senza piangersi addosso o far sempre comizi. Sono ironici ma non fanno i buffoni. Sono poetici ma non si circondano certo dell’alone dei dannati. Forse patiscono un po’ il cantare in italiano, non perché le loro liriche non abbiano spessore, ma perché certe sonorità rimandano direttamente a una parlata diversa e a volte fa quasi strano, durante l’ascolto, sentire una lingua tanto distante da quella che ci si aspetta. Non resta che augurar loro tutto il meglio, ricordando a voi di scaricare l’Ep, dopo un po’di condivisione dai vostri personali profili Facebook e Twitter.

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“Diamanti Vintage” Sonic Youth – Daydream Nation

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Molto probabilmente una delle pietre filosofali del rock d’ogni tempo, il rock di quei tormenti e ossessioni che sa come farsi amare nonostante i bocconi amari che comporta, il rock che combina rumore, rabbia, purezza e amore senza nascondersi dietro artifizi o perlomeno trucchi discografici di bassa lega; Daydream Nation della band newyorkese dei Sonic Youth, è il quinto disco della formazione capitanata da Lee Ranaldo, ed è il disco forse più consapevole, più carismatico, in cui la fusione della triade di rumore+furore+tensione corrisponde perfettamente a tutto quello che proprio in quei tempi, con le scorribande Reaganiane in Salvador ed una politica sociale devastante, faceva apparire l’America come il paradiso dell’inferno. Ecco perché c’è una candela bianca in copertina, è la loro protesta al genocidio e la loro presa di coscienza politica.

Di nuovo la “gioventù sonica” detta legge con quei chitarrismi industriali, spigolosità e curve a gomito ritmiche sperimentano nuove necessità modulari, una carica espressiva che contempla decadenza post-punk e percussività urbane nonché una interminabile sequenza di vitalità mai rammaricata di non possedere principalmente quella gentilezza pop che ammorbidisce a volontà qualsiasi ribellione e che molte band – sempre alla fine degli anni Ottanta – si fregiavano di avere e anche per disconoscere un’era refrattaria (in cui avevano magari militato) e far credere di essere rinati come nuovi di zecca. Loro, Lee Ranaldo, Kim Gordon e Thurston Moore, sono tra gli esponenti avangarde di una classificazione ribelle e assordante, un asse in equilibrio che assorbe psichedelia emancipata e svolte impreviste, un gioco sonoro che caoticamente segna le tappe di una straordinaria compattezza che infastidisce e stordisce i benpensanti e guerrafondai yankee come pure i puristi del classic rock.

Dodici trace che friggono, distorsioni valvolari, frenetismi e salive roventi che fanno gruppo sensuale e antagonista, stupende garage-ballad “Hey Joni”, “Eric’s Trip”, più in la chitarre e voci suadenti che sostengono “The Sprawl”, “Kissability”, una smorfiosetta Kim Gordon che fa numeri incalcolabili magnifici “Silver Rocket”, “Rain King” o più sotto le nuvole nere di “Candle” a chiudere un suggestivo album che non è altro che “anticipo” per le grandi registrazioni a venire.

Anche un disco imbrattato di polvere lunare, che sbalordisce e che non rassicura affatto!
http://youtu.be/BKMD8vI1MaM

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