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Ludwig Van Bologna – L’Arte della Fuga

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Si sono scelti un nome altisonante i Ludwig Van Bologna, che richiama subito la musica classica -complice anche il titolo bachiano- ma anche la malattia distruttiva di Arancia Meccanica con le sue ambientazioni Pop e dettagli Glam. E questa macedonia ideologica si ritrova anche nei brani che compongono il disco: “Gino Paoli” apre con sonorità Indie alla Best Coast, per poi finire in un arabesque di linee melodiche dissonanti. “La Tosse”, invece, è tutta tarantiniana, retta da una linea di basso calda e ripetitiva. Con “Signori Signore” si cambia completamente registro, con un’apertura a filastrocca scandita dal declamato vocale sillabico e stacchi ritmici condotti dalla chitarra. Fin qui mettono sicuramente una certa curiosità, anche se bisogna ammettere che i nostri non stanno dicendo niente. Si nota, nei testi, una certa autoreferenzialità (sul ruolo del musicista, sul comporre canzoni, su partecipare a concorsi), ma la cosa si esaurisce subito e il cervello e il corpo di chi ascolta spostano la loro attenzione esclusivamente sulla componente musicale. “Niente” ricorda i Marlene Kuntz dei bei tempi che furono, il che è sicuramente un gran complimento: chitarre distorte e dissonanti avanti e voce relegata sullo sfondo caratterizzano anche la successiva “Solo Andata”, forse il brano più introspettivo di tutti nonostante, anche in questo caso, i testi non colpiscono se non per l’intellettualoide impiego lessicale, altro gran richiamo a Godano e soci. Il dialogo tra glockenspiel e basso che regge la traccia successiva, “Idee Balorde”, su cui, in crescendo si insinua un larsen rumoroso, dà prova della bravura strumentale dei Ludwig Van Bologna. Manca forse un po’ di spessore nel messaggio testuale o un po’ di convinzione nell’esprimerlo, ma questi ragazzi sono sicuramente buoni musicisti. Lo dimostra anche la sterzata alla Plastic Passion dei Cure che caratterizza l’intro della successiva “Happy Dee Dee”, a condire ulteriormente questa macedonia di ispirazioni Noise, sonorità fredde, parolone difficili alla CSI. “Parole Cose” è il climax di questo mèlange musicale: Pop, Funky, Surf, sfumature Punk trovano spazio in un’unica traccia che si spegne, letteralmente, in “Axolotl”, per pianoforte – con un trattamento ben più moderno di quello che avrebbe fatto Beethoven del suo strumento, più malinconico ancora se possibile, più cinematografico, alla Yann Tiersen – e voce, sillabica, monotona, greve.

Non è un disco imbecille. Non è un disco che si ascolta una sola volta e si cestina a cuor leggero. Al contrario è un disco che si sente più volte alla ricerca dei numerosi pregi. Per poi tirare le somme, però, e passare ad altro.

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Luciano Chessa – Peyrano

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Che Luciano Chessa sia un grande lo dimostra prima di tutto il suo curriculum: due pagine fitte di attività, collaborazioni, progetti, e riconoscimenti.
Se poi si aggiunge che, all’estero, è uno dei “prodotti” italiani più apprezzati da chi l’arte la fa e la promuove, allora non posso che aspettarmi il meglio.
Andiamo con ordine.
La sua carriera ha all’attivo circa quindici anni di attività, che spaziano dalla composizione, per arrivare alla direzione d’orchestra; ha, inoltre, collaborato con alcuni dei più importanti musei, uno su tutti il Museum of Modern Art di San Francisco, e posso con certezza definirlo una delle eccellenze nostrane nel mondo.
Mi trovo davanti al suo ultimo lavoro “Peyrano”, ventuno tracce di impronta futurista.
Occhio, però, a non fraintendere il mio “futurista” con il concetto di “futurismo” professato da Marinetti. Non mi riferisco a quello. Per “futurista” intendo, più banalmente, “volto al futuro”, proteso verso una dimensione incerta e, sicuramente, non attuale.

Vent’un tracce, dicevo, alcune delle quali che ricordano la psichedelia di alcuni brani degli anni Settanta. Tutte, comunque, composte a partire dagli anni ’90 e rimaste chiuse da tempo dentro un armadio di Chessa , tant’è che una prima versione di Peyrano era già uscita tempo fa ad opera della Strawberry Records, etichetta di San Francisco. Ad oggi, la sfida di produrre questo eccentrico cantautore, se l’è presa la novella label Svizzera “Skank Bloc Records”.
Questo album è un lavoro complesso, nel quale la voce di Luciano ne è la protagonista incontrastata. Anche se a volte sembra dia più importanza alle parole dette piuttosto che all’armoniosità del tutto, questa rimane soltanto un’impressione che viene spazzata via proseguendo con l’ascolto.
Oltre alla voce, anche la musica di Chessa a volte può sembrare discrepante e poco fluida tra una traccia e l’altra, basti pensare alla traccia numero otto “Ulisse Coperto Di Sale” (remake di un vecchio pezzo di Dalla e che sembra essere un omaggio al cantautore da poco scomparso), di matrice pop-punk, che cozza indubbiamente con le ballate folk e psichedeliche che costellano l’intero Peyrano.

Altra impressione, che svanisce una volta abbandonata la razionalità con la quale, magari, si ascolta la prima volta un lavoro diverso dai soliti.
Alla luce di ciò, il lavoro appare, nonostante le prime impressioni, molto equilibrato e bilanciato, volto comunque a stupire chiunque decida di ascoltarlo.
Se dovessi riassumere “Peyrano” in tre parole, sarebbero sicuramente “futurismo”, “eccentricità” e “psichedelia”, tutti concetti che saranno, probabilmente, ignoti alla maggioranza delle persone, ma che racchiudono un mondo parallelo che si prospetta essere quello che magari ci aspetterà. Forse è per questo che, nel nostro Paese, Chessa è pressoché uno sconosciuto, perché ci hanno istruito a vivere giorno per giorno, non facendoci badare a tutto quello che potrà essere il domani.

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