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The Tablets – The Tablets

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Si può combinare il Pop statunitense anni 60 di Merrilee Rush & The Turnabouts o The Ronettes con sonorità marcatamente moderne, quasi figlie di certi anni 90, compatte e ossessionanti? A questo ci pensa la messicana Liz Godoy, che prendendo il via appunto dal Pop Garage dei sixties, scorre attraverso le atmosfere Darkwave e Gothic degli 80, tra Cure, Cocteau Twins, Nick Cave, The Go Go’s e Siouxie fino a sfociare nelle grintose chitarre Shoegaze di fine Ottanta e inizio Novanta di The Jesus and Mary Chain per intenderci e nel Pop Alternativo, rumoroso, elettronico, psichedelico e sperimentale di Stereolab o Tv on the Radio. Tutto questo fatto con una cura maniacale del dettaglio che non si trasforma mai in eccesso stilistico ma che anzi, talvolta, suona come una ricerca voluta della nota imperfetta. L’album omonimo targato The Tablets è uno spettacolare esempio di Dream Pop sintetico, basato su liriche profondamente appassionate e melodie morbidissime, tutto sullo sfondo di ritmiche meccaniche e personali. Liz Godoy prende a prestito la lezione che una certa Nico ha lasciato al mondo e cerca la strada per rinnovarne i fasti e il risultato non è molto lontano da quanto probabilmente sperato.

The Tablets è un disco bellissimo, che poteva essere eccelso se solo la voce di Liz Godoy avesse avuto un regalo più grande da madre natura e se la vena artistica della stessa si fosse trovata in un particolare stato di grazia. Un album seducente perché mette insieme con naturalezza mondi apparentemente lontani anni luce e che recupera, almeno con questa sua capacità di rinnovare, i grandissimi limiti della composizione pura, delle melodie, degli arrangiamenti non sempre troppo interessanti e spesso quasi grossolani. Difficile giudicare un disco come questo perché mostrare al mondo dell’arte musicale una possibile strada per il futuro è già di per sé meritevole di apprezzamento ma non solo ciò siamo tenuti a stimare e quindi c’è un’orrenda ma necessaria strada della sufficienza da tracciare, per inquadrare con onestà un disco che non dovrebbe comunque essere ignorato.

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She Owl – She Owl

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Come nella migliore tradizione Neo Folk occidentale (non poteva essere altrimenti) nell’esordio della polistrumentista e cantastorie Jolanda Moletta con la band She Owl e il loro disco omonimo, tanto spazio è lasciato al simbolismo, al mistero della natura, al romanticismo e all’occultismo. Già nel nome scelto, l’indicazione di un animale come il gufo non fa altro che gonfiare di allegorie la sua opera. Animale enigmatico e dalla simbologia ambigua, il gufo è stato considerato negli anni emblema di oscurità, malaugurio e morte ma allo stesso tempo di chiaroveggenza e comprensione. Nel simbolismo celtico la dea della natura Gyffes aveva la sua forma ma il gufo connoterebbe anche il passaggio dalla vita alla morte, in altre parole una guida per gli uomini nei periodi di cambiamento oltre a essere depositaria di molta e antica saggezza. Nell’opera è la stessa Jolanda Moletta a prendere le sembianze della creatura, generando un legame simbiotico con la natura, gli alberi e tutti gli esseri viventi che affollano il bosco e instaurando con essa un dialogo pieno di magia. Per rendere al meglio questa necessità compositiva, la band si è affidata a diversi musicisti della Bay Area (Jolanda Moletta vive e lavora tra l’Europa e San Francisco) oltre che a Dave Mihaly, batterista della songwriter texana Jolie Holland e il risultato è una tracklist di dieci pezzi che suonano splendidamente come il rumore che accompagna una fiaba che scivola nel vento tra le fronde.

Pur essendo presente una strumentazione variegata (nel live la stessa artista suona tastiere, chitarra, autoharp, kalimba e percussioni) le canzoni scivolano via con naturalezza, attraverso una spina dorsale nervosa fatta di piano e voce. Quest’ultima non spicca per qualità, intensità, e neanche per una timbrica particolarmente originale eppure riesce a vibrare perfetta dentro le note, nella sua cupezza, nei suoi sospiri e negli acuti intensi. La sezione ritmica è essenziale, martellante ma non specificatamente marziale e si limita a esaltare la portata emotiva della voce. Discorso simile per il piano che però alterna momenti più enfatici con altri d’atmosfera. Tutto questo genera una proposta precisa eppure variegata e differenziata con cura, tra Vocal Jazz in stile Ella Fitzgerald o Nina Simone (“Hide and Seek”) però con uno spirito da Patti Smith, rimandi quasi gotici di memoria Siouxie e un Pop da camera degno del Michael Andrews di Donnie Darko (“December”). Una sorta di Nico (“Nightingale”) in chiave più vitale e moderna, tra l’Art Pop etereo di Bat For Lashes (“Fisherman Queen”) e il Dark Cabaret dei Dresden Dolls (“Over The Bones”, “December”, “Belong”) anche per una certa similitudine vocale con Amanda Palmer.

Un disco denso di ottime canzoni, con un obiettivo preciso, un’inequivocabile necessità espressiva che forse pecca, non tanto (o non soltanto) per la scarsissima originalità ma piuttosto per una certa piattezza sonora. Questo sia nella parte strumentale (del resto penso che sia lecito aspettarsi di più da artisti che suonino tastiere, chitarre, autoharp, kalimba e percussioni) e sia nella vocalità, che, in quanto a timbro non eccelle anzi pare arrancare forse per l’eccessiva necessità di toccare le note più evocative che la musica richieda; ma anche in quanto a composizione pura che si dimostra poco coraggiosa e convenzionalmente sempre a metà tra la vivacità, la gioia, la spensieratezza e l’angoscia, la tristezza, la decadenza. She-Owl è stato un ottimo modo per passare qualche ora del mio tempo ma difficilmente andrà a custodirsi in uno dei cassetti della mia memoria.

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