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Sound of Ireland: Let’s Folk!

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Annascaul, un villaggio di cento abitanti in culo all’Irlanda, nella contea di Kerry. Lontano dalla vita cittadina che una città come Dublino può offrire, lontano da contaminazioni metropolitane e frenesia turistica, ma vicino alla vita rurale, alle pecore, a stradine, ad un lago ed all’oceano; dove si respira aria pulita, odore di terra bagnata, rumore di bicchieri che brindano, gusto di birra e musica Folk, ecco dove mi trovo. Dopo solo due ore dal mio arrivo sono nel pub di fronte casa, al bancone con una pinta di birra locale in mano, ascoltando storie su un uomo che nel 1900 ha esplorato il polo sud e che dopo essere tornato a casa sfinito ma ancora vivo, ha deciso di aprire questo pub, chiamato non casualmente il South Pole Inn. Il suo nome era Tom Crean e la birra che sto bevendo si chiama Crean’s in suo onore. Bene, direi che il mio alcolismo qui si chiama normalità e che l’immaginario collettivo dell’irlandese perennemente sbronzo è confermato. Nei giorni successivi scopro che niente è più falso della credenza che gli irlandesi siano unicamente rossi e dalla pelle bianca per la perenne pioggia, infatti fanno ventitre gradi ed intorno a me ci sono persone castane in calzoncini con la pelle bruciata dal sole. Quindi toglietevi dalla testa che siano tutti come “Anna dai capelli rossi”, perché è una cazzata.

Siccome la mia permanenza in Irlanda non é di poche settimane, andando avanti col tempo mi rendo conto delle differenze culturali tra un italiano ed un irlandese, e soprattutto le differenze nel vivere la quotidianità. Andando oltre il fatto culinario (qui si mangiano patate, patate e ancora patate) direi che una differenza fondamentale sono anche i luoghi di ritrovo e gli orari d’uscita: noi abbiamo una cultura di piazza, infatti ci troviamo da qualche parte per poi spostarci in un bar, locale o concerto, loro hanno la cultura dei pubs. Sarà forse anche per una questione meteorologica, ma qui ci si ritrova al pub verso le 18/19 e poi al pub ci si rimane finché non ti sbatteranno fuori. Ecco dunque da dove nasce il mito dell’Irish Pub. Al pub ci entri, bevi, parli, ascolti musica prevalentemente Folk e live, e soprattutto ti metti a cantare ed a battere le mani con il tuo vicino di bancone o con il vecchio dal naso rosso. Questo é il bello, questo é ciò che noi non abbiamo, qui non ci sono distinzioni di classe o età, ed affianco a te potrebbero esserci i tuoi amici oppure tua madre ubriaca quanto te che sta cantando una canzone tradizionale a squarcia gola. Vi é mai capitato di cantare quotidianamente al bar Lucio Battisti sbronzi con vostra madre/padre? Io credo di no, o meglio non credo che sia la norma dell’italiano medio. E non è un caso che ci sia proprio uno slang completamente irlandese per descrivere tutto questo: la parola “the craic”, e l’espressione “the craic was grand!” Il craic (e non si sta parlando di droga) è proprio questo modo di celebrare l’Irish life: con musica, grida, gioia, vecchi amici e nuovi amici appena conosciuti, e dire “The craic was grand!” è come dire Ieri sera ci siamo divertiti!”.

Insomma a livello musicale noi abbiamo la canzone melodica italiana come simbolo nazionale, loro hanno il Folk, caratterizzato ovviamente da un setup acustico composto al completo da chitarra acustica, violino, fisarmonica, il whistle (flauto irlandese), un benjo oppure il bouzouki (strumento però greco), il bodhràn (una specie di mini bongo-tamburo), cucchiai di legno usati in modo percussivo (stile nacchere), e soprattutto voci basse, piene e vive che raccontano storie quotidiane di bevute, marinai, amori internazionali, ribellione, e viaggi verso paesi lontani. La musica tradizionale irlandese non è fatta di giri di parole e sole-cuore-amore, infatti qui i testi più che cantati vengono raccontati, ed i ritornelli sono caratterizzati da “cori di massa”. Qualche esempio? Gli storici The Dubliners, The Clancy Brothers, The Dublin City Ramblers, o i più Punk The Pogues capitanati dal marcissimo Shane MacGowan, e canzoni come “Irish Rover”, “Spanish Lady” “Whiskey in The Jar”, “Pub With No Beer”, “Seven Drunken Night”, e la mia preferita: “The Wild Rover”. Una sorta di “parabola del figlio al prodigo” in chiave alcolica.

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Rebel’s Bay – Carry On

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Da Indelirium Records (che, a quanto pare, sforna tonnellate di punk’n’roll) arriva l’ep dei Rebel’s Bay, una band di Riva del Garda che gira Italia e Europa da un paio d’anni col proprio carico di tatuaggi old school, camicie a quadri e coppole d’ordinanza – senza dimenticare la musica: punk diretto, retrò, molto canonico, che non si risparmia né in energia né in cliché.
Il contesto che richiamano è affascinante: velieri, ancore, la Baia dei Ribelli… e i titoli dei brani sono azzeccatissimi: My Friend My Family, Wild Heart And Broken Bones, Billy’s Legend… il frontman Al, dalla voce sporca e strascicata, ricorda tanto Shane MacGowan quanto Eugene Hütz, ma la somiglianza con i rispettivi gruppi d’origine si ferma qui: nessun meticciato, nessuna contaminazione a inquinare l’ortodossia punk del trio trentino.
E forse è questo il limite, condiviso dai Rebel’s Bay con centinaia (se non migliaia) di band europee che a loro assomigliano: il rischio di non avere nulla di propriamente loro. Come band punk si difendono ampiamente, dimostrando, anche solo nei sei brani di questo ep, di saper gestire con gusto, energia e bravura quel linguaggio così particolare che è il punk; ma se dovessimo distinguerli da band simili (anche solo da alcune delle band che ne condividono la militanza nel roster Indelirium) faremmo tanta, troppa fatica.
Amanti del punk’n’roll fatto come Dio vuole: abbeveratevene dai Rebel’s Bay, ce n’è a sazietà. Se cercate qualcosa di più, avete sbagliato strada…

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