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Miavagadilania – Fuochi EP

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Scoperti circa tre anni orsono, i milanesi Miavagadilania ritornano sulla lunga distanza con l’Ep Fuochi a reiterare quella formulazione nero torba che è la loro essenza musicale, un repertorio che rimane quasi intatto e che si rivolta dentro arrangiamenti post del post, una solennità che stringe con le sue spire lattiginose di shoegaze, fumigazioni sperimentali, tutta la patina noir dark che si possa racimolare, e che in cinque tracce diventano ossessioni cinematiche e malattia poetica nitida per tutta la durata della sua corsa d’ascolto.
Elena Capolongo e Claudio Papa – questo il nucleo dei Miavagadilania – sono al centro di un progetto psichedelico concettuale che miscela attitudini alla Born For Bliss con le “trasmissioni” sinottiche dei Bionic, pulsazioni a freddo e riverberi cosmici che si fanno largo in una forma canzone che ogni tanto riemerge dalle “disturbanze” e dagli anagramma sonori “Muoversi Muovere Muovermi” che immancabilmente accentuano i passaggi del registrato, un disco insomma che si fa approcciare dopo vari giri di prova ascolto, ma che poco dopo scioglie il muro gassoso che si trova tra l’ascolto nitido e “loro”.

È’ un design sonico che si prodiga a compattare suoni, effluvi e matrici distorte per poi coinvolgerle e convergerle in pads amniotici e senza peso specifico “Trascinami”, li raffina in velluti melodici “Fuochi” e li aspira nelle suggestioni cromatiche di stampo prog Canterburyane “Hvalur”, una materializzazione ombrosa che non faticherà molto per circuire il lato “sano” dell’ascoltatore ispirato; forti di un seguito conquistato sul campo, i Miavagadilania hanno uno spazio poetico inimmaginabile, un languore impregnato e stratificato che si eleva e romanticizza – a modo suo – un controaltare immaginario, come un viaggio moderno di Verne, su e giù verso i confini non confini di qualcosa che si muove ma non si avverte, poi se si ci si avventura nelle nebbie sciamaniche di “Il Sogno” il non ritorno è assicurato.
Amate in non eccessi e i viaggi amniotici in qualche dimensione in D? Benvenuti a bordo!

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AnotheRule – AnotheRule

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Lo ammetto, sono un nostalgico. Subisco tutto il fascino del supporto fisico: rimuovere l’involucro, aprire il cofanetto, sfogliare il libretto leggendomi i nomi di chi ha collaborato, di chi ha suonato e prodotto e, infine, prendere tra le mani quell’ambita circonferenza sono parte di un rito a cui difficilmente riesco a dire di no. E quando questo capita per un lavoro che mi è chiesto di recensire non posso che esserne felice.La band in questione sono gli AnotheRule, giunti al loro omonimo debutto discografico dopo un’esperienza di palco e di live che si sente e fa la differenza. Ufficialmente nati nel 2008, in realtà radicano la propria storia nel 2002 quando, con il nome di Mayday, fanno il botto nella Londra underground firmando per la Fire Records e condividendo il palco con mostri sacri del calibro dei QOTSA. Tornati a Roma alla fine degli anni zero ripartono all’attacco con questo rinnovato progetto.

Un sound caldo, maturo, denso, sospeso tra il grezzo e il sognante pervadono questo lavoro. I nostri oscillano tra il caldo rock di matrice Soundgarden e fugaci visioni di psichedelia, in un connubio che vive di un’anima unica e sorprendentemente definita, costellata qua e là da qualche divagazione di chiara origine stoner. Il tutto magistralmente diretto da una formazione che sa fare il proprio mestiere, che mostra un’ottima preparazione ed una capacità di rendere i brani dovuta sicuramente all’intenso lavoro live.Si inizia con un mid tempo sognante, giocato sui tom, su un giro ipnotico di chitarra ed una voce onirica ed evocativa: “Power Trip” ci catapulta direttamente all’interno dell’aspetto più psichedelico dei nostri, ripreso in brani come “Overboard”, “Thinking on” e “Wizen Up” e sapientemente diluito in altri momenti del disco. “Chew Your Pain” e “Who I Am (I Am Not)”, seconda e quarta traccia del disco, rientrano tra i brani più sfacciatamente hard rock. Riff d’impatto, groove sostenuto: la band romana convince anche su lidi più tradizionali.

AnotheRule” è un disco solido, interessante dall’inizio alla fine e ben suonato. I nostri passano a pieni voti questa prima proposta in studio, presentandosi già come una band matura, con un proprio sound e una propria direzione musicale. Ottimo anche il lavoro in fase di produzione. Sicuramente degna di nota è la capacità di aver impresso un marchio sonoro sul disco, rendendolo personale ed inequivocabile, aspetto che a molte release di questi tempi manca, rendendo molti lavori piatti ed anonimi. Tutto in questo lavoro parla la lingua degli AnotheRule e non ci si può sbagliare, non ci si può confondere con altri gruppi: la personalità concreta e importante dei trio romano si fanno sentire. E sicuramente non dovreste ignorarli.

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Cut/Julie’s Haircut – Downtown Love Tragedies (Part I & II)

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I progetti che includono solamente cover sono spesso visti con occhio critico, si pensa subito alla perdita di ispirazione, ad un facile appiglio per acquietare un poco gli stomaci voraci degli ascoltatori.
Personalmente non la vedo proprio così e rompo una lancia a favore di chi ancora oggi crede nella cover. Chi la violenta, la rivolta, dandogli un proprio significato, oppure chi la conserva, magari la rende meravigliosamente scarna (pensate ai brividi provati da Trent Reznor nell’ascoltare “Hurt” rivista da Johnny Cash!) mantenendo lo spirito e la naturalezza delle vibrazioni “originali”. In entrambi i casi la cover ha il suo sporco perché e la band registrando una cover si mette in gioco più che mai.
Questo che abbiamo davanti è un progetto indubbiamente ambizioso. C’è da dire che si parla di due nomi che a mettersi in gioco sicuramente non hanno paura. Un 7’’ splittato con due cover soul interpretate da due formidabili band del nostro paese molto legate tra loro. I brani in questione sono “Emma” degli Hot Chocolate (versione originale) interpretata dai garaggioni bolognesi Cut e “Who is he and who is he for you” di Bill Withers (versione originale) stravolta dalla psichedelia dei Julie’s Haircut. Potete capire come la scelta di queste due canzoni sia ambiziosa quanto singolare per due gruppi che nel panorama nostrano ci hanno abituati a ben altri sound.

Partiamo dai Cut, che per altro di questi esperimenti sono pratici (per esempio la rivisitazione del classicone di Prince “Sign O’ the times”). “Emma” gioca sulla dinamica: prima intima, lontana migliaia di pianeti dalla Terra, poi il chitarrone che ci risbatte sul pavimento, ma nonostante la botta non ci svegliamo. Rimane tutto onirico e confuso. Il sogno però non è per nulla piacevole, è straziante, agonizzante. La voce, l’hammond e le chitarre di Ferruccio Quercetti e Carlo Masu marciano indisturbate in questa odissea spaziale accompagnata dal semplice e dinamico groove di batteria. La versione degli Hot Chocolate viene conservata, certo meno black, ma altrettanto intensa e forse addirittura più straziante. In questo episodio la “tragedia d’amore” fa male. Bella pugnalata inaspettata, una lenta agonia.
I Julie’s Haircut si sa, sperimentano a tutto andare senza mai trovare un punto fermo. In continuo movimento e mutamento (e sia chiaro ci piacciono così!). Qui rubano il riff di “Little Johnny Jewel” dei Television e sparano una versione tastierosa, vetrosa, tetra e anche qui distante e spaziale. Si rimane in aria, appesi. Forse questa cover risulta snaturata della semplicità della soul music e sarei curioso di sapere cosa ne penserebbe il buon vecchio Bill Withers in mezzo a tutti questa elettronica e questi accenni post punk. Si perde il ritmo ballabile ma non la tensione, che viene addirittura amplificata dalla band di Sassuolo in un crescendo sintetico, piccola salita che arriva dritta allo strapiombo.
Questo split funziona, è “genuino” (lo dicono gli stessi Julie’s Haircut!), arricchisce e scarnifica le perle “originali”. Le gratta a mani nude per riappiccicarci sopra vestiti nuovi, conservando li da parte i vecchi pezzi, pronti ad essere rincollati da un momento all’altro.

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Matteo Cincopan – Fantascienza

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Un lavoro del genere ti capita raramente tra le mani. E, tenendo presente il caso fortuito per cui ne sono venuto a conoscenza, devo ritenermi davvero fortunato.
Sto parlando dell’ultimo lavoro di Matteo Cincopan, “Fantascienza”, secondo capitolo di una trilogia che il polistrumentista di Bologna ha elaborato come punto d’incontro tra sonorità del passato (qua declinate seguendo la scia del progressive anni settanta) e liriche del futuro (rappresentate dalla narrativa fantascientifica): il risultato è un disco davvero godibile, un crocevia tra Le Orme, Il Balletto di Bronzo, i Pink Floyd e i Magma.
Fantascienza” ricalca musicalmente quelle sonorità che tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta avevano interessato la scena italiana, portando alla ribalta un rock sinfonico, elaborato, colto e raffinato, tanto da essere motivo di vanto nelle parallele scene inglesi e americane: il nostro Matteo Cincopan prende il meglio di quel periodo e riesce ad elaborarne una personalissima visione, fatta di brani dalla media durata, incisivi e diretti, in cui il barocchismo (mai ostentato) degli arrangiamenti trova una naturale posizione come contorno e controparte della lirica.
Si apre diretti con “Giano”: la voce di Cincopan è quella di un moderno e cristallino Tagliapietra, il ritmo è serrato, sincopato, gli ingredienti sono tutti ben miscelati. Ma è solo un preludio: la superba “Andromeda” (forse il brano più riuscito dell’intero lotto) si apre con un lieve crescendo, subito contrastato da una parte sognante e ieratica; refrain dolce e intimo, una vera poesia di musica e parole. Siamo molto sulle coordinate dei Pink Floyd, come se per un miracolo l’atteggiamento space rock dei primi dischi si fosse fuso con la psichedelia ordinata dei grandi lavori successivi. E il testo, malinconico e struggente, ci racconta dell’immensità del cosmo e della nostra solitudine.
Segue “Dottor Morbius” un pezzo eclettico, con ritmo, quasi pop rock. “Le Crisalidi” è un altro di quei momenti immancabili. Pensate ad una collaborazione tra Il Guardiano del Faro e i Porcupine Tree delle ballate più struggenti, avrete in mano questa bellissima ballata.“Psicopolizia” è un brano di una semplicità disarmante, quasi infantile nelle liriche, a ricalcare la semplicità e la banalità degli slogan e delle imposizioni.
Chiude il disco “Eclissi”, metrica storta, cosmiche visioni e un ritornello dannatamente orecchiabile.
Questo “Fantascienza” è un lavoro prezioso. Le sonorità così vintage, così radicalmente del passato sono un risultato che spesso suona anacronistico e ridicolo: non è questo il caso. Qui dentro vive un’anima precisa e significativa, un mondo delineato e preciso, il tutto avvalorato da una prestazione ispirata agli strumenti e alla voce e da una musicalità in grado di creare passaggi che rimangono facilmente in testa.
Immancabile per tutti i nostalgici, per quelli che quel tempo non è finito, ma anche per quelli che cercano qualcosa di nuovo, di diverso e di significativo.

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