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Black Rebel Motorcycles Club – Specter At The Feast

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C’è  qualcosa che torna da lontano, ineffabile nelle pastorali psicotrope dei sempiterni Black Rebel Motorcycles Club, sì una nebbia vaticinante ora scarna ora ingrassata a pedaliere, e Specter At The Feast riafferma il magnetismo conquistadores che la band americana spalma nella sua – propedeutica sognante? – energia al rallenty che ogniqualvolta si (ri)presenta travolge sensi e teste in un trip da acchiappare al volo.

Disco maledetto dalle malelingue che vuole Peter Heyes e Robert Been al filo di lana di una creatività posticcia e riempiticcia, nulla di più falso, certo qualcosa si è smagnetizzato dagli esordi, ma il clangore calmo e la destrezza emozionale è ancora intatta, sottovoce e dreaming come poche, rimangono – loro –  un marchingegno sonoro intimo e sofisticato che è tratto distintivo di una maturazione che pare non avere fine, sempre pronta a rimettersi in gioco e ad assimilare la giusta via di mezzo tra rock e una certa metafisica ondifraga che sebbene figlia adottiva di certi Jesus And Mary Chain o Primal Scream, lascia intendere una spiccata personalità customerizzata a dovere, senza ma senza se; dodici stati per una scaletta che carbura a dovere, un binomio – quello di Heyes/Been – che rimane in sella ad un bagliore “stradaiolo” esteticamente stiloso.

Polveroso e nebulizzato, l’album è una apparizione sonora dietro a territori volatili, distorsioni accennantemente seventies e quella decadenza drogata di certe visioni Altmaniane a fare da bastione a languidezze da desert-road “Fire Walker”, “Lullaby”, spettacolarità e derive alla metedrina pura “Some Kind of Ghost”, “Lose Yourself”, sgasate  garage “Rival” ed una rivisitazione velocizzata di “Let The Day Begin” dei Call since 1989, un pathos che riempie l’animo e che dimentica certe similitudini forzate, specie quando il multistrato sonico di “Funny Games” rimbomba tra echi di estati d’amore e paure messianiche.

Abbreviando il moniker della band in BRMC, no si “smoscia” la tempra né la voracità d’azione, è solo un vezzeggiativo per sentirli ancora più vicini e ancor più “nostri” come riserva per momenti di vuoto in cui si vuole stare a tu per tu con l’armonia dell’elettricità.

Per cuori teneri e ardimentosi!

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“Diamonds Vintage” Primal Scream – Screamadelica

Written by Articoli

Era rimasto un pò sulle sue Mr. Bobby Gillespie dopo che non era riuscito a marcare stretti gli anni Ottanta ed i fratelli Reid a bordo dell’esperienza dell’album Psychocandy con i Jesus & Mary Chain, e così in quattro e quattr’otto, riafferra per la collottola la vecchia band di Glasgow, i Primal Scream, e dopo una piccola turbina di Ep per nulla fortunati, approda al 1991 con il disco della svolta totale, Screamadelica, il giro di boa che lascia alla spalle le costernazioni e le fisime shoegazer per abbracciare melodie sixties, languori psichedelici, il sound inglese influenzato dal r’n’b pienamente debitore agli Stones.

Basta col romanticismo sfigato della wave, meglio la Madchester spigliata, pazza e piena di vita, omaggiante fino alle viscere al mixed-up di stili rivoluzionari, sangue misto tra rock, pop, house, black music, e lo scandaloso repertorio Stonesiano che riempie ancora le bocche bacchettone di benpensanti mai piegati agli anni; un disco che è una rivolta sensuale da tutte le angolazioni, pop ballabile che si fonde nella lussuria di un rock a tratti selvaggio, a tratti spurgato, Stoogies e Beatlesmania che vanno a braccetto con la dance senza cadere nel ridicolo, anzi con la velleità che anche facendo due passi di danza si può sempre rimanere duri e puri come un dio comanda. Ogni pezzo è un singolo, una hit a sé, tutto fa muovere il corpo e la testa, undici tracce che si inchiodano nell’immaginario collettivo come fossero un arcobaleno cromatico campionato su basi calde e oscillanti che i produttori stessi – Hugo Nicolson, Jimmy Miller e gli Orb – definirono “una divagazione al di sopra dell’inaspettato” e mai parole furono più sincere.

L’espansione goduriosa degli Primal Scream si mette in mostra in tutte le sue forme eccentriche, dal gospel dai labbroni alla JaggerMovin’on up”, “Loaded”,  alla psichedelica di stampo Sly & Family StoneSlip inside this house”, dalla ballata sorniona sull’alito di un sax complice “I am comin’ down”, al languore blues “Damaged”; se poi ci inoltriamo nella “discoteque” che Gillespie e soci amplificano a rotta di collo “Shine like stars”, “Don’t fight  it, feeel it” il cerchio si completa, ma non si chiude, il mondo conoscerà ancora pulsazioni vitali e dure di questa stupefacente formazione che già a messo a mollo le cosidette “bollette” in un futuro fatto di lampi “Swastika eyes” e saette “Miss Lucifer”, il techno-punk che ancora rimbomba nelle orecchie di moltissimi.

L’Urlo primordiale, che violentò le forze fisiche tra dance e pietre rotolanti, lacerò per anni le notti folli di junkyes cotonati.

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