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Giardini di Mirò – Rapsodia Satanica

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Sonorizzare un film muto pare essere una sfida ben accettata dai gruppi italiani più “alternativi” (per non scomodare l’abusato aggettivo “Indie”). Molti si limitano al live diretto mentre la pellicola scorre sopra le loro teste, ma qualcuno osa di più. E si sa che i Giardini di Mirò nell’osare sono dei maestri, sempre musicalmente eccelsi e senza limite alcuno. Poi a guardare indietro nel tempo il gruppo emiliano vanta già la colonna sonora del film “Sangue – La Morte Non Esiste” (anno 2005) e proprio una sonorizzazione del film muto “Il Fuoco” (1915), poi diventato un vero e proprio disco nel 2009. Niente di nuovo insomma, o forse qualcosa si. Rapsodia Satanica prende ispirazione, ma anche il nome, dall’omonimo film del 1917 di Nino Oxilia e vede la partecipazione della diva di inizio ‘900 Lyda Borelli. La ricerca delle immagini con i suoni è un lavoro meticoloso e certosino, che sfocia però in un disco tutt’altro che calcolato al millisecondo. Molto diretto e compatto, che conserva la sua emotività e la sua drammaticità nonostante la peculiarità sonora. L’album, totalmente strumentale, è diviso in arie, la prima è molto semplicemente “Rapsodia Satanica I”: note di chitarra partono con una lentezza esasperante, quasi a richiamare senza fretta il demonio, poi invocato a gran voce da una danza Noise che fa tremare la spina dorsale. Nella parte numero “III” si passa inaspettatamente al Blues (e quale migliore musica per onorare il diavolo?), il brano è dominato da una chitarra che sbrodola pentatoniche e da una armonica a bocca. Sempre lenta, ripetitiva, inesorabile marcia verso gli inferi. I ritmi cambiano solo con “Rapsodia Satanica XIII” dove si crea un indeterminato stato di pace, calma apparente, la freschezza che richiama la giovinezza “comprata” al demonio dalla ormai attempata signora del film (non avete visto il film? potete farvi un’idea qui: http://it.wikipedia.org/wiki/Rapsodia_satanica).

“XVII” è la svolta. In questa odissea di 7 minuti si sente la tempesta che sta per invadere la quiete, la tensione sale lungo le ossa. Il piano e i fiati sono distanti, come un’onda anomala che sta per sfracellarsi contro la nostra faccia, ma senza far rumore. La botta sorda arriva una batteria dritta e sicura che si tuffa in un suono melodico, cupo, basso pompato e chitarra che non abbandona i suoi arpeggi infernali. Le note poi ritornano subito distanti e l’ultimo episodio “XXI” è lontanissimo, un eterno cadere verso il basso, un fosso infinito che emana vibrazioni dalle pareti. Il tonfo poi si fa violento, rumore puro, Elettronica spinta e malsana che ci regala però l’ultimo rantolo: prima echi disperati da girone dantesco e poi le campane che decretano la fine del viaggio. Un ritorno alla rassegnazione della realtà o un nuovo e orribile mondo davanti ai nostri occhi? I Giardini di Mirò ci lasciano con il dubbio e, dato lo scenario, in fin dei conti cambia ben poco. La cosa fondamentale è che ci portano davanti agli occhi un paesaggio che va ben oltre la loro musica. Io che pensavo di annoiarmi, mi ritrovo con i peli delle braccia ben rizzati e con quel gelo che piglia dritto nello stomaco. Sono onesto, il film non l’ho guardato e non lo guarderò. Mi bastano queste immagini descritte magistralmente con le note per capire che questa è arte priva di confini e di etichette. E questa band è un gioiello, da lucidare piano, minuziosamente. Per scoprire tutti i suoi lati irregolari e incredibilmente pieni di luce e stracolmi di ombre.

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Pertegò – Stations

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Credevo che la musica proposta dai Sigur Ròs fosse un prodotto puramente islandese, di quelli inimitabili ed inarrivabili. Credevo che fosse tutto frutto dell’atmosfera e dei paesaggi che lì Madre Natura è solita servire. Dell’aurora boreale, dei ghiacci che si sciolgono e del silenzio che li avvolge. E invece non è solo Reykjavik a fornire il contesto giusto per la nascita di una sonorità tanto idilliaca quanto misteriosa. Viaggiando verso sud, infatti, a circa 2900 km di distanza, è possibile imbattersi in un gruppo di ragazzi che sembra aver tutta l’intenzione e le carte in regola per dir la propria a colpi di Post Rock. Siamo a Piacenza ed è qui che nascono i Pertegò. Sono Khristian, Emanuele, Alessandro e Marco, uniti dalla passione per il northern-ambient sound. Il disco oggetto d’esame è il loro quarto lavoro, preceduto in ordine da Snow Behind the Enemy Lines, Hjarta Rad e Hjarta. Il titolo è Stations ed i nove capitoli che lo compongono sono tutti, senza eccezioni, degni di ripetuti ascolti.

Siamo innanzi ad un lavoro quasi pienamente strumentale. Un lavoro che sin dalle prime note di “Lula” mostra tutto il suo potenziale. La voce si fa sentire a tratti, incomprensibile ed indistinguibile, quasi a volersi dissolvere tra le composizioni e fondersi con la musica. Lo stile è esattamente quello adottato da Jònsi, ma molto più timido ed imbarazzato, introverso. Si staglia su ritmiche lente ed effimere, che un attimo dopo sembrano non esserci più. Le track successive sembrano conservare lo stesso ideale naturalista e la stessa indomabile determinazione. Ogni traccia sembra voler mostrare qualcosa, un paesaggio mozzafiato che dura soltanto un istante e che non si fa in tempo ad immortalare. Tutto intorno al disco un’aura di tristezza, malinconia e voglia di libertà. La title track fa da portavoce a tali considerazioni, ripescando sonorità Ethereal Wave degne di Enya e cori alla Lisa Gerrard e donando in chiusura tonalità più aggressive, riconducibili ad una spiccata vena Mogwai. 11’35’’(che non annoiano di certo) incuriosiscono attraverso sapienti cambi di stile e di personalità, passando in rassegna la scala delle emozioni e facendo vibrare tutte le corde fastidiosamente ed insistentemente. Ma lo stesso si potrebbe dire di episodi quali “A New Horizon”, “Wave Function Collapse”, “The Descendent”… Insomma, siamo innanzi ad un disco che va ascoltato tutto a luci spente e senza pausa, che ha in serbo colpi bassi e frustranti faccia a faccia con sé stessi. Vorrei riuscire a muover critica al lavoro svolto dai Pertegò, qualcosa di costruttivo, qualcosa in grado di spronarli a continuare a far musica. Potrei dire che sono un’emulazione dei Sigur Ròs, che sono un mix di tanta musica già masticata, che sono troppo introspettivi, che sono superati e che sono lenti. E tutte queste considerazioni sarebbero tutte quante sincere. Ma la verità è che sono esattamente ciò che avrei voluto ascoltare, ciò a cui avrei voluto lavorare. Credo che i Pertegò siano di quelle band consapevoli, senza pretese, ricche di difetti, ma che sappiano farsi amare concentrandosi sui loro pregi. Questo è come li descrivo io. Loro amano descriversi così: “Pertegò luogo di rara bellezza sperduto al culmine della valle, aria di altri tempi, luce forte a accecante, acqua di fonti pure, terra e paesaggio a tratti rigoglioso e altre volte crudo e desolato. Questo sono i Pertegò che raccontano storie su una natura ancora libera, raccontano il loro mondo fatto da cose semplici e dalla natura che li hanno creati”.

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Calista Divine – Vacante

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Desiderio grande di sentirsi sopra il tetto del mondo, magari imparando ad ammettere i propri sbagli, magari sentendosi liberi di correre nudi per strada. Tanto freddo, la pelle è secca, le piaghe non danno tregua, la sofferenza aumenta a dismisura. Tutta un’altra dimensione quella proiettata dai Calista Divine, il loro primo full length Vacante suona talmente violento da restare inerti, il modo migliore di suonare Post Rock nel 2014. La produzione di Cristiano Santini, mixato da Giulio Ragno Favero de Il Teatro degli Orrori, masterizzato da Jo Ferliga degli Aucan, uscirà il prossimo Ottobre sotto etichetta F.O.H. Records. Il sound pulitissimo e meticoloso entra rapido nelle orecchie per poi uscirne, poi ancora dentro e poi di nuovo fuori per una sequenza infinita di avvenimenti. “Ma ci sono pensieri che non riesce a trattenere, ci sono pensieri che lo fanno sentire come se andasse a tutta velocità in un tunnel, in equilibrio sopra un’asse di legno che corre su due rotaie” (Massimo Volume, “Alessandro”). Elettronica miscelata ad una ritmica impaziente, sempre tirata, un gancio sotto il mento, qualcuno inizia a sentire forte il fiato sul collo. Poi in tutti i pezzi esplode la bomba. Iniziate a trattenere il fiato all’inizio di “Astray”, qualcosa nella vostra vita potrebbe cambiare per sempre, niente tornerà più come prima, il sole è sceso per sempre. Sperimentazione sonora degna del miglior Amaury Cambuzat, un’esagerazione “sperimentale” riportata in forma canzone, l’opposto che si potrebbe percepire ascoltando Bologna Violenta per intenderci. E di queste produzioni bisognerebbe andare fieri, sono tanti i motivi che potrei elencare per elogiare Vacante, i Calista Divine sono italiani e per questo sbatterei il disco sul muso dei critichini troppo atteggiati a catalogare l’alternativo italiano nei soliti venti gruppi. Un cuore pulsante di creatività è pronto per sfornare lavori di questo livello, sette brani completi sotto ogni punto di vista, mi sento di citare “Be Lost”, ma tutti gli altri hanno diritto di fare parte di questo straordinario album. Sarebbe bello riuscisse ad entrare tranquillamente in tutte le orecchie, sarebbe una questione di educazione musicale, sarebbe una vera e propria rivoluzione culturale. Vacante rappresenta alla grande lo stato di salute della musica italiana, innovazione, tecnica e razionalità. Lasciamo che i chitarrini tornino a suonare sulla spiaggia, noi abbiamo bisogno di tornare ad alzare la testa, i Calista Divine sono un motivo in più per sentirci fieri di ascoltare musica italiana. Non potevano esordire in maniera migliore.

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Il Nero ti Dona – Aut Aut

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Il cupo suono de Il Nero ti Dona arriva da un posto dove il sole è offuscato da scuri nuvoloni densi. Rock spigoloso e viscido, come le mura umide di una stanza in cui sta appesa al soffitto una squallida lampadina. Non me lo sarei mai aspettato, ma questo posto si chiama Napoli. E tutto l’eterno sporco viene dettagliato in un vortice di suoni grigi e tetri, degni della migliore tradizione Alternative. Nulla di grandioso, nessuna pretesa intellettualoide, solo una manciata di canzoni che esprimono un minuzioso disagio la cui forza che sta proprio nei particolari. “Aut Aut”, uscito a maggio 2014, non è di certo il disco in cui troverete il brano Indie per l’estate e tanto meno un pezzo che vi sconvolga lo stomaco o la mente. Ma ogni parola è messa al punto giusto, ogni sillaba è comandata dalla perforante voce di Maurizio Triunfo, che pare riecheggiare tra lastre di lamiera di una fabbrica disabitata. La desolazione e la disillusione riecheggia già nella opener “Deja vu”, grida e chitarre pare si prendano a testate, in una lotta libera senza freni. E siamo solo al primo di dodici pezzi. I ritmi cambiano subito però, ci pensa “Viola” a farci presente che il nero ha miliardi di sfumature cruente. Ballata tra Afterhours e primi Timoria in cui spicca il riff offuscato dai versi epici (“terra che trema e che ingoia, sassi e macerie e fortuna”) e da echi e respiri femminili che in sottofondo appaiono come un fantasma in mezzo alla lamiera. La cura di questi dettagli e l’espressività della band portano le canzoni ad un altro livello.

“Aria” parte con un chitarrone che rimanda ai gloriosi anni del Grunge. Non si perde il grezzume anche nell’altalenante ballata “Senza Fine”, comandata da un lento arpeggio che scandisce inesorabile il tempo come un pendolo che non perde un colpo, in attesa che accada qualcosa. Ma purtroppo in questo frangente anche la noia vuole la sua parte e dobbiamo attendere gli arrangiamenti di “Kaled Saeed” che smorza qualche sbadiglio di troppo. La canzone è violenta e becera come l’uccisione del ragazzo egiziano che da il titolo al brano. Il suono è verace e rabbioso, il nero si mischia al rosso sangue. La descrizione del barbarico atto da parte di due poliziotti è precisa e attenta, quasi ad indicare che non c’è nessuna poesia davanti ad uno scempio del genere: “Sfinge di fuoco stasera, a Tahrir muore il silenzio”. Anche se usciamo dai confini napoletani questo brano sembra un simbolo, un lampo nel cielo che congiunge mondi distanti e così vicini nel nero colore che ricopre l’ingiustizia e la disperazione. Le mura si sgretolano al suono confuso di “Ketamina” e poi crollano con la title track “Aut Aut”, molto Teatro degli Orrori. In chiusura la più bella ballata del disco, potevano mancare le acque? “Mare Libico” è il suono della speranza che si infrange sugli scogli. E anche lei diventa nera, nel finale contorto del disco si incastra e rimane li a guardare l’orizzonte. Persa, senza più fiato. Non riesce proprio a tenere lontano questi nuvoloni densi.

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L’Inverno della Civetta – L’Inverno della Civetta

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Un’aria gelida entra nelle narici, i polmoni gelano e il cuore accelera all’impazzata. Le pesanti chitarre de L’Inverno della Civetta conquistano spazi indecifrati nelle fantasie più remote. Quasi una violenza psicologica, porta uno strano piacere sottostare. L’Inverno della Civetta per mettere subito le cose in chiaro è un progetto ligure partecipato da molti artisti: Meganoidi, Mope, Od Fulmine, Isaak, Gli Altri, Eremite, Bosio, Kramers, Numero 6, Demetra Sine Die, Giei, The Washing Machine, Madame Blague, Lilium, Merckx. La pressione dei brani riesce ad essere ogni volta diversa, camminare nella nebbia fittissima e sentirsi smarriti nella Post Stoner Rock “Territori del Nord Ovest”, urla e disperazione in un concentrato di sperimentazione sonora. Ma le tante influenze presenti nel progetto hanno la capacità di cambiare velocemente le carte in tavola, i ritmi si fanno indiavolati e fuori continua a piovere incessantemente. La brevissima ma incisiva “Amaro”. L’omonimo disco rappresenta un percorso di paura, di intolleranza verso la felicità, un’avventura segnata dai forti venti e narrata da Lovecraft. Viene quasi voglia di piangere, il sole non sorge mai in “Morgengruss”, sentori di Black in “Bantoriak”. Tutto si svolge secondo una logica ben definita, sembra di vivere nella Svezia più lugubre, mancano quasi sempre le parole nei brani, le atmosfere decidono incontrastate le sorti del disco superando l’importanza dei riff. Indiscutibile la tecnica. Sembra di rivedere Il Santo Niente in “Messaterra”, in particolare per la parte cantata, il sound mi tira velocemente fuori dalla condizione mentale in cui mi ero gettato. Mi trovo spiazzato e non accetto volentieri lo scorrere del pezzo. Ma siamo alla metà del lavoro e le cose potrebbero cambiare fino alla fine.

Infatti, il disco prende una piega decisamente diversa e non nascondo la delusione, non riesco a concepirlo. Dove sono finite tutte quelle atmosfere tanto eccitanti dell’inizio? Quelle che riuscivano a farmi sussultare le emozioni? “Numero 7” addirittura assomiglia ad una canzone popolare gitana, niente contro le canzoni popolari ma non riesco a realizzare cosa ci faccia in questo supporto. Mi scende uno sconforto impressionante e tutta la mia ammirazione viene dimezzata. L’Inverno della Civetta meriterebbe la massima ammirazione fino alla traccia numero quattro, da quel momento in poi le cose cambiano in modo impressionante. Se fosse stato un Ep sarebbe stato qualcosa di epico, purtroppo non lo è, ma prendiamoci pure soltanto la parte “paurosamente” bella. Veramente un grande peccato, un viaggio finito a male.

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Wu Ming Contingent – Bioscop

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Nati dalle ceneri di una moltitudine di band della scena Hardcore italiana (Nabat in primis di cui faceva parte il chitarrista Riccardo Pedrini a.k.a. Wu Ming 5), gli Wu Ming Contingent prendono il loro nome dall’album Wu Liao Contingent, pubblicato nel 1999 dai quattro principali collettivi di Oi! Punk cinese. Il brodo primordiale fatto di Offlaga Disco Pax e dell’inevitabile connubio CCCP/CSI di cui Bioscop è ghiotto, non presenta raggi di sole melodici in nessuna delle dieci tracce, eccezione fatta per “La Notte del Chueco”, probabilmente la canzone più potabile del lotto. In realtà Bioscop è costituito da storie, che hanno per protagonisti sbilenchi personaggi storici, narrate dalla ridondante voce dell’ex Frida Frenner Giovanni Cattabriga, che agisce qui con l’alias Wu Ming 2. Se non si è vigili all’ascolto anche per un solo secondo, si potrebbe solo sentire un brusio e le parole scorrere pressappoco così: “BlahBlahBlah…Bono Vox….BlahBlahBlah…Che Guevara…BlahBlahBlah…Apartheid”. In uno dei rarissimi istanti in cui i testi si discostano dalle ingombranti tematiche politiche, ci si ritrova a sorridere prestando l’orecchio al racconto dell’esistenza sportiva del calciatore Sócrates, nel brano omonimo, famoso più per le gesta nelle notti fiorentine che per quelle nel campo da gioco. Ogni tanto il suono del sax di Guglielmo Pagnozzi tenta di spezzare la monotonia. Missione non perfettamente riuscita: gli sbadigli hanno il sopravvento e anche la mia buona volontà di trovare dei pregi a questo lavoro vengono meno.

La Rivoluzione non sarà trasmessa su Youtube (come recita l’incipit della quinta traccia). Dev’essere rimandata a data da destinarsi. Magari a quando gli Wu Ming Contingent avranno trovato la loro giusta dimensione.

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Stri – Atom

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Purtroppo alcune volte ti capitano fra le mani lavori come questo che appaiono troppo statici nella struttura dei pezzi, che non aggiungono nulla rispetto a quanto ascoltato già in passato e viene quindi voglia di fermarsi un attimo e riflettere sulla condizione della musica elettronica odierna. Se l’obiettivo è quello di far ballare il proprio pubblico, allora rimpiango i tempi di Donna Summer e della mitica “I Feel Love” in cui il nostro Giorgio Moroder dava il meglio di sé a livello compositivo. Se lo scopo invece appare differente, come nella quinta traccia del disco, “Pigiama”, che è quanto di più riflessivo ed introspettivo possiate trovare, allora il discorso potrebbe far alzare positivamente l’asticella dell’interesse . Troppo poco tuttavia, per far pensare a un prodotto originale nei suoni e nelle atmosfere, che spesso non è nient’altro che un insolito mix di voci e strumenti sempre in bilico fra il Post Rock e la musica elettronica degli Apollo 440 (quelli di “Ain’t Talking Bout Dub” per capirsi) con variazioni dei bpm che passano da un minimo di 90 a un massimo di 133.

L’autoproduzione è una scelta consigliatissima a quasi tutti ma sarebbe giusto che questo duo trovi qualcuno che li affiancasse perché forse questo progetto qualche idea buona la riserva, soprattutto verso la fine con “Estelle” e “Opa”, due brani che, inseriti in un altro contesto, non passerebbero mai inosservati. La scena marchigiana attuale presenta diversi talenti che varrebbe la pena vedere dal vivo e forse un’occasione la meriterebbero pure gli Stri, di cui si dice un gran bene in giro. Se però avete solo intenzione di sentire un disco nuovo, conviene stare alla larga da questo lavoro ed orientarsi altrove, magari ripescando la precedente uscita discografica del gruppo, Canyon, che ottenne un ottimo riscontro dalla critica. Atom appare come una serie di tentativi (la maggior parte mancati) di emulare ora i Chemical Brothers ora i Radiohead dell’ultimo periodo. In entrambi i casi, ahimè, il fallimento è dietro l’angolo.

Tutto da rifare?

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The Great Northern X – Coven

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Sono al secondo disco ufficiale i veneti The Great Northern X, hanno speso l’intero anno 2013 per dare vita a Coven. Si parla di Rock duro con complicanze sentimentali molto evidenti, la rottura metallica delle chitarre ammorbidita dalla voce calorosa, questo lavoro sembra arrivare da un’epoca ormai lontana. Forti sentori di vintage, adoravo gli Annie Hall. Perché dentro Coven appaiono forti le somiglianze con il primissimo Indie italiano, gli ambienti proposti portano esattamente a quel tipo di sensazioni, a quelle indimenticabili e toccanti situazioni. Poi bastano un paio di cuffie, chiudere gli occhi e abbandonare la mente per godere voracemente dell’ultimo disco dei The Great Northern X. Si parte con “Skunk”, e un sound vagamente Punk ci butta direttamente a tanti anni fa quando gli Atleticodefina erano considerati L’Indie. Molto dolce e orecchiabile il ritornello emozionale, strappa lucidità dagli occhi. Le chitarre urlano Folk nella ballata “Let’s Drown Our Sorrow”, sarebbe il caso di continuare a piangere ma di gioia. Bella, molto bella.

Tristezza come non ci fosse possibilità di reazione in “The River Song”, le canzoni tristi sono quelle che ci piacciono di più, poi quell’armonica materializza l’immagine di Jeffrey Lee Pierce, il ritornello segna il momento di maggiore carica emotiva di tutto il disco. Si tornano ad usare riff di Rock duro in “Dead Caravan”, tanti anni novanta dentro, parecchio Noise e zero voglia di sperimentare. Un brano distante dalle precedenti canzoni, sempre chitarre protagoniste e voce particolarmente riconoscibile. Ancora tanto Noise nella Post Ballata “Machine Gun Stars”, si ritorna nuovamente alla bellezza del passato, l’attuale mondo Indie italiano (se mai ce ne fosse ancora uno) non appartiene ai The Great Northern X. Loro hanno una visione nostalgica di suonare musica, hanno le loro idee da sviluppare senza l’aiuto di nessuna partecipazione, sono loro a suonare in assoluta autonomia (e presa diretta) l’intero Coven. Perché è importante dimostrare di essere capaci di fare un grande disco con le proprie forze e senza l’aiutino di qualche musicista di spessore. Tutta farina del loro sacco, liberi di piacere, liberi di accettare critiche. “Carol” è dura all’inizio, una pietra che viene man mano ad ammorbidirsi quando arriva il ritornello, il momento clou del pezzo. La forza indiscussa dei The Great Northern X è sicuramente il fatto che riescono ad esplodere tante sensazioni nei ritornelli, sono capaci di renderli unici e particolarmente attesi. Strappa lacrime oserei maldestramente dire. La chiusura di Coven passa per le note struggenti di “Fever”, è un peccato non lasciarsi accompagnare verso la fine di questo percorso tenendosi stretti per mano ai The Great Northern X, spegnere il cervello e buttarsi senza timore in questo viaggio. Un secondo disco dalle grandi aspettative, piacerà tantissimo e la band veneta avrà tutte le soddisfazioni possibili, in questo periodo musicale spento e ripetitivo loro sono giustamente qualcosa di bello e sensazionale. Chiudete gli occhi e iniziate a sognare, tutto il resto non conta nulla.

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Ecole Du Ciel – Heartbeat War Drum

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Ecole Du Ciel è un progetto nato nel 2010 a Bari dalle menti di Cosimo Savino (voce, chitarra) Chris Dilfino (batteria, percussioni) e Massimiliano Colamussi (basso, cori), che dopo il loro primo Ep omonimo, martellata Screamo Post Hardcore, ci consegna questo Heart War Drum scarno, combattuto, sanguinante, grondante di emozioni e sentimenti che in contrasto totale tra loro finiscono per dissolversi flebilmente nel vuoto. Resta un’unica certezza, lanciare un urlo stridente per dimostrare a se stessi la propria esistenza, la propria individualità. Apre ”Forever Up There” con un arpeggio di chitarra Post Rock e morbidi cori  fanno presagire un’atmosfera rassicurante; segue “ From My Farthest Shores” pezzo dinamico e distorto, dove le capacità collettive del trio pugliese di fondersi in un dolce frastuono, rendono evidente l’apertura verso altri lidi sonori e la voglia di sperimentare. “Stars Feed On Fire” è un fendente Post Hardcore dritto e veloce che termina in un caos urlato, si allenta il fiato con “Wheelboat” breve intermezzo etereo e quasi scanzonato dove la chitarra elettroacustica dialoga dolcemente con la sezione ritmica.

Ma sono solo due minuti: batteria dal battito epico, basso incalzante in pieno stile Post Punk, riff monocordi ed echi lontani scandiscono il tappeto sonoro della title track ,splendida jam session di sei minuti cadenzata da conati di vomito latrati, che ha il sapore di capolavoro. La conclusiva “Dead Leaves” (Milk Teeth) ci porta in territori Noise ammorbidito da certa psichedelia degli anni novanta(lontano un certo riflesso di Catartica) alternato da improvvisi silenzi un po’ snervantidelineandosi sempre più una progressiva lentezza. Sicuramente non brilleranno per totale originalità ma quello che ne esce è un manifesto di veridicità e schiettezza emotiva non comune. Il merito va anche alla v4v Records italianissima e scopritrice di talenti nel sempre più affollato e variegato panorama underground italiano.

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Blunepal – Follow the Sherpa

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I Blunepal sono in tre ma spaccano il culo come fossero cinquanta. Atteso disco d’esordio Follow the Sherpa, attesissimo perché le precedenti produzioni facevamo sperare (giustamente) in qualcosa di veramente interessante. E non è la solita pappa noiosa e confezionata ad arte per inneggiare al nulla, le mode qui non c’entrano un cazzo e la musica finalmente assume un valore primario. Loro non fanno parte dei consueti venti gruppi osannati ingiustamente dagli ascolti del bel Paese, i Blunepal sono vergini e genuini come poca roba in Italia. Questo è Post Jazz strumentale caratterizzato ad esaltare le atmosfere crude e violente, nessun accenno alla tenerezza, le coccole non sono contemplate mai in questo disco. Lavoro dai coglioni quadrati punto e basta. Parliamo di un genere anni settanta modernizzato alla perfezione, per intenderci meglio viaggiano sulla stessa strada dei più noti Calibro 35, realizzando palpitanti colonne sonore di inseguimenti polizieschi all’ultimo respiro.

Follow The Sherpa non lascia mai pace all’ascoltatore, il ritmo è sempre super tirato e il volume non dovrebbe mai scendere sotto la distruzione dei timpani, “And There Were Three” rilassa il corpo per poi sperderlo lungo traversate Post Rock. “Rabbit” di cui esiste un video ufficiale devasta subito la mente con improvvise sterzate e colpi d’effetto. Energia da vendere fino alla particolare “Youzi”, adesso riesco a distendere i muscoli sotto il massaggio di riff pacatamente Jazz. La pace dei sensi non era ancora di mia conoscenza fino a questo momento. Ambient corrotto e minimalista nella concentrica “Fake”, il basso dirige lentamente tutti i miei movimenti portandomi esattamente dove vorrei essere in quel preciso momento. E quando prima parlavamo d’inseguimenti cinematografici non era per caso, prendete una serie d’azione degli anni ottanta e buttateci dentro “Into The Cinema”, è tutto quello che si potrebbe richiedere da una perfetta colonna sonora. E se pensate che tutto questo sia surreale non avete ancora centrato le potenzialità dei Blunepal. Non poteva mancare l’omaggio al re delle colonne sonore per eccellenza, un brano intitolato “Morricone” non ha bisogno di ulteriori spiegazioni e commenti, la dolcezza e la volgarità di una corposa colonna sonora. La chiusura del disco è affidata a “Tomorrow Never Knows” dei Beatles, ri-arrangiata ed eseguita per dare l’idea netta di un omaggio e non di una banale cover. Forse ho trovato qualcosa di veramente valido nella musica del trio genovese Blunepal, la stanchezza della solita musica sembra ormai un lontano ricordo, loro sanno accaparrarsi l’attenzione con brani quasi interamente strumentali, sembrano reggere alla grande il confronto con i mostri sacri del genere. Follow The Sherpa entra timido nel mio lettore ed esce raggiante come non mai, questa è musica forte, i Blunepal suonano cose d’avanguardia senza essere secondi a nessuno. Cercateli dal vivo dove sicuramente saranno fenomenali e comprate questo disco, il migliore del duemilaquattordici fino a questo momento. In queste poche situazioni sono fiero di essere italiano.

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Aldrin – Educorum

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Lo spazio, l’universo, le stelle hanno da sempre attirato l’attenzione e l’interesse dell’uomo che a sua volta si è cimentato fin dall’alba dei tempi a dare un senso all’infinito cosmico, fisici, astronomi, teologi, filosofi e perfino musicisti. I romani Aldrin, anche loro vittime del fascinoso cosmo, rientrano decisamente nell’ultima categoria, sebbene si siano scelti il nome dell’astronauta americano Buzz Aldrin, che toccò per secondo il suolo lunare. Il loro nuovo lavoro Educorum, il terzo per la precisione, sarà disponibile e scaricabile gratuitamente online dal 22 marzo. Sei tracce di Instrumental Rock con un lavoro ritmico e di chitarre prominente e creativo, volto a creare atmosfere dilatate e definire spazi imprendibili, ma allo stesso tempo consistenti e reali. La ricerca dei suoni e delle soluzioni ritmiche sono il punto focale dell’album che sopperisce all’assenza, quasi totale, del cantato o al suo uso non tradizionale, quando presente. Curiosa la scelta dei titoli, una semi contraddizione interna, che invece di lanciarci nell’iperuranio immaginifico ci portano in luoghi fisici e attimi del quotidiano, come se tutta la forza verbale dei testi mancanti fosse sintetizzata nei titoli, che velatamente sono più amari e critici dei suoni.

“Mara Caibo” è un esempio calzante, il titolo è immediatamente associato al più famoso tormentone raffaelliano, ma il quartetto romano sviluppa il tema a modo proprio, dando gande spazio al ritmo della batteria e alle lunghe ripetizioni inframmezzate da cambi decisi di ritmo. L’apice del brano, che detta una decisa svolta, è la registrazione di una delle tante bagarre televisive di uno dei tanti reality show nostrani, dopo questo momento ricco di intensità, il brano si chiude rallentando e ritornando al suo principio, chiudendo il cerchio e dando un senso alla citazione. Lo stesso meccanismo si ritrova, forse in maniera meno evidente, in “Non ti si È Visto più giù al Bar”con un inizio esplosivo e ritmato da Rock ribelle, che via via sparisce in un gioco più intimo e slow in cui le chitarre cedono il passo ad un basso più presente.  Si prosegue con “Il Mio Hair Stylist”e ”I Signori della Sinistra”,  entrambe morbide ed eteree, con un’impronta più marcatamente Ambient e vicine allo stile dei Mogwai, la prima disturbata dall’incursione di una voce femminile che da un lontano autoparlante ci ricorda di dover amare le persone, e la seconda che chiude l’album lasciandoci in tensione verso quel misterioso infinito, oscuro e lontano,  che ci avvolge e ci attira. Gli Aldrin con Educorum ci consegnano un album ben fatto suonato con capacità, ricercato nei suoni e nelle atmosfere, per un ascoltatore di nicchia alla scoperta dell’universo.

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The Sorry Shop – Mnemonic Syncretism

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I brasiliani The Sorry Shop (provenienti da Rio Grande, una modesta cittadina situata nell’estremo lembo meridionale dello stato carioca), dopo la pubblicazione del full lenght Bloody, Fuzzy, Cozy (2012), tornano nuovamente in scena con Mnemonic Syncretism (2013), album interamente concepito e realizzato tra le mura domestiche del polistrumentista Régis Garcia, affiancato nelle recording sessions da Rafael Rechia, Kelvin Tomaz (chitarre: rispettivamente traccia 3/8), Marcos Alaniz e Mônica Reguffe (voci). Ponderata autarchia tecnico/produttiva, concettualmente in linea con la manifesta attitudine Lo-Fi del progetto: un sound rigorosamente nineties, influenzato dai più disparati (sotto)generi musicali quali Shoegaze, Noise, Ambient, Space/Post Rock.

Ogni qualvolta mi accinga ad analizzare, produrre o supervisionare un album di tal fattura, indugio puntualmente  nella stupefazione constatando quanto abbia influito su di esso il sempre attuale ed avanguardistico Wall Of Sound (1962/1963) di Harvey Philip “Phil” Spector (probabilmente uno dei più influenti record producer che il panorama discografico ricordi). Una muraglia sonora travolgente e complessa generata dalle imponenti chitarre di Régis, costantemente danzanti nel punto focale della scena, indubbia lezione di raffinata filosofia “spectoriana”, ed evidenziate con estrema accuratezza da un seguipersone in perenne staticità, a tal punto da relegare in periferiche zone d’ombra le differenti componenti contestuali (vedi, ad esempio, l’incisiva opening track “Star Rising” e brani di intensa peculiarità come “Rooftops of Any Town”, “A Place to Bury Strangers” e “Know Me Right”). Vera e propria disintegrazione armonica su cui si innestano (timidamente) partiture vocali eteree e sognanti, quasi sfuggenti ed indistinguibili, mai particolarmente enfatizzate rispetto alla poderosa riverberazione dell’impianto chitarristico, indiscusso e primigenio fulcro vitale di un progetto non esente da oggettive imperfezioni (un paio di Db su basso e batteria non avrebbero di certo guastato), ma pur sempre onesto, sincero e godibile. Da tener d’occhio.

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