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Okkervil River – The Silver Gymnasium

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A due anni di distanza da I Am Very Far del 2011 esce per la major Indie ATO Records The Silver Gymnasium l’ultimo lavoro degli Okkervil River capitanati dal frontman occhialuto Will Sheff e dai suoi capelli alla John Lennon. La loro fatica è un ritorno nella città natale di Sheff, una piccola town nel New Hampshire chiamata Meriden, e un ritorno alla sua infanzia anni 80 avvenuta proprio lì. Il risultato è quindi un concept album nostalgico in tutto e per tutto, a cominciare dal sito internet trasformato per l’occasione in un fighissimo videogioco Atari datato 1986 in cui il protagonista è un giovane Sheff che munito di zaino va alla ricerca della sorella avventurandosi tra bar, cimiteri, librerie, negozi di videogiochi, presentandoci così la sua vita adolescenziale. Lo scopo di tutto questo è quello di trascinare il fan (ormai diventato nerd anche lui) all’interno di un vortice Atari che gli farà comprendere meglio da dove arrivano le storie ed i luoghi raccontati in The Silver Gymnasium.
Si comincia con un piano alla “Hey Jude” in “It Was my Season” e si continua sulla stessa linea di cori e contorni beatlesiani in “On a Balcony” per poi approdare in un freddo dicembre fatto di insicurezze e di giovani speranze con “Down Down the Deep River”. “Pink Slips” è una classica ballata (drogata però, non romantica) che precede l’inizio musicalmente depressivo di “Lido Pier Suicide Car”, brano che parla delle solite zuffe tra ragazzini e che finisce diventando uno shaker di suoni allegri molto da pigliata per il culo. Belle le chitarre e la batteria in crescendo dell’intro di “Where the Spirit Left Us” (che però successivamente ricade in quell’ormai scontata e abusata forma compositiva di piano-forte = riff-ritornello). Cassa dritta, marcia militare, chitarra acustica completamente stereofonica e una voce retrò caratterizzano invece “White”, una delle migliori tracce del disco. Si continua il percorso infanzia-adolescenza con “Stay Young” (di cui non è difficile immaginare il contenuto) e con “Walking Without Frankie”, in cui a farla da padrone è un basso dritto molti anni 80 e giochi di pan tra i vari strumenti. Molto New Wave e molto Cure per intenderci. Ci avviciniamo alla fine con la penultima traccia caratterizzata da una conversazione a mo di domanda-risposta come testo, ed in cui la risposta a tutte le domande è sempre “All the Time, Every Day”, guarda caso anche il titolo della traccia. Il cerchio si chiude e Sheff saluta la sua infanzia ricordando le piccole gioie ed i piccoli dolori della quotidianità vissuta a Meriden con “Black Nemo”, ed arrivando alla conclusione che ormai è pronto per camminare su marciapiedi più affollati ed andarsene per una nuova strada che soprannominerà Okkervil River.
The Silver Gymnasium è un album con un inizio e una fine, un percorso musicale nostalgico, un ottimo ascolto per una giornata uggiosa in cui si è in vena di vecchi ricordi e di un raggio di sole che ci illumini il viso, un disco pieno di infelice speranza, ma niente di più e niente di meno.

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“Lamoredentro” è il grido di battaglia di Rosybyndy contro il femminicidio

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ROSYBYNDY, corredato di un video firmato dalla regia di Evandro Mariucci e pubblicato dalla Interbeat Records le cui fila fanno capo proprio al cantautore romano. Di sicuro i digital store. Di sicuro la rete e la nevralgica mania di essere ovunque. Di sicuro l’etica da inseguire e una morale che stiamo pian piano perdendo per strada. Di sicuro l’origine della vita e la tutela dei suoi diritti fondamentali. Con questi ingredienti torna in scena l’irriverente e trasgressiva composizione firmata dal cantautore Luigi Piergiovanni che tutti conosciamo come ROSYBYNDY che vuole fare denuncia con un brano che suona un po’ come fosse un grido di allarme. Allarme contro gli amori on line sfociati nel sangue e contro la violenza sulle donne in generale, tema purtroppo oggi drammaticamente attuale. Se nel suo primo album Eskoryazyony Karmyke Rosybyndy parlava di un futuro Bladerunneriano ormai vicino in alcuni angoli del mondo, se nel suo secondo lavoro Il Portiere  di Riserva ci trasportava in un passato nostalgico, autobiografico ed intimista, e se nel terzo lavoro Kapytalysty Vyrtualy ci si è legati al presente ed ai suoi problemi, dalla condanna all’uso delle religioni, dalla lotta contro i poteri del nuovo ordine mondiale, all’umanità distorta e degradata, oggi aspettiamo il quarto grande disco completamente diverso dai precedenti e pervaso da atmosfere psico intimistiche minimaliste già sottolineate da un titolo ancora provvisorio: PoP???. E dalle premesse di questo singolo di sicuro non si faranno attendere temi scottanti di attualità e di denuncia.

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AliceLand – Pensieri Raccolti

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Pensieri Raccolti è il titolo del primo album di Alice Castellan, in arte AliceLand: una raccolta di brani scritti dalla stessa Alice ed arrangiati dal bassista Andrea Terzo. Ma procediamo con ordine, partendo dal nome, che mi evoca all’istante Alice’s Adventures in Wonderland (Alice nel Paese delle Meraviglie, per farla breve) di Lewis Carrol; la mia fantasia galoppa. Il titolo dell’album, Pensieri Raccolti, mi porta invece alla mente la visione di pensieri intimi e profondi, raccolti in sé stessi, rannicchiati in posizione fetale; tanti piccoli embrioni cerebrali che possono crescere e diventare progetti, sogni che si avverano, futuro, ma che possono anche rimanere là dove sono, e spegnersi lentamente in vaghi ricordi. A questa visione però ne segue subito un’altra, ed è quella in cui un’Alice spensierata e saltellante raccoglie pensieri in maniera un po’ distratta e li mette in un cesto a forma di disco che si porta dietro, riempiendolo. La mia fantasia galoppa ancora più forte. Premo play, e neanche a farlo apposta, il primo brano si intitola “Immagina”, e si dichiara subito in uno stile Pop gradevole, almeno fino al ritornello, almeno fino a quando la voce di Alice (voce che tra l’altro non mi dispiace affatto) non si accanisce sull’ultima nota di ogni verso con un virtuosismo eccessivo, con un suono simile ad un gemito, che si ripete per una, due, tre, quattro, n volte. Solo alla fine del disco potrò affermare che il mio dubbio è in realtà una certezza: quel suono è presente in tutto l’album. Aiuto.

I riferimenti ad Elisa li colgo subito, soprattutto nel brano “Pianeti”, forse tra i più interessanti. Interessante anche l’utilizzo delle percussioni etniche in “Stronger (ovunque)” e “Sacred Mountain”, dove diventano veri e propri elementi caratterizzanti che valorizzano il brano. Solo in rarissimi casi mi hanno colpito i testi, che non ho trovato così intimi e profondi come il titolo dell’album mi aveva fatto immaginare. La parte musicale invece, interamente suonata in acustico, mi è sembrata essere più vicina al concetto di intimità espresso dal titolo. Altro elemento costante per tutta la durata del disco è il tema amore, preferibilmente nella sua variante che fa rima con dolore. Premetto che non ho nulla in contrario a questa variante, ma è davvero così grande il dolore di Alice da meritarsi tutto questo spazio nel disco? Oppure bastava semplicemente dare maggiore importanza ai Pensieri Raccolti di cui sopra, quelli rannicchiati in posizione fetale, più intimi, e non accontentarsi di raccoglierne alcuni in maniera distratta per riempirne un disco? (Traduzione: non conveniva magari ridurre il numero dei pezzi, attualmente quattordici e scegliere in maniera più opportuna quelli da inserire?). La musica per me ha l’effetto terapeutico di mettere a tacere, anche se temporaneamente, gli interrogativi che mi porto dietro da sempre.  Questa volta sono troppi quelli che mi restano alla fine dell’ascolto.

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Boxerin Club – Aloha Krakatoa

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C’è poco, pochissimo da dire di Aloha Krakatoa, ultimo disco dei Boxerin Club: ma c’è tanto, tantissimo da provare, sulla propria pelle e nelle proprie orecchie. Aloha Krakatoa è un disco freschissimo, dove finalmente possiamo vedere un gruppo (italiano) che evita la trappola dei generi e delle etichette per regalarci undici tracce di variopinta festa sonora. I Boxerin Club suonano una musica perlopiù solare, danzereccia, tropicale, tra chitarre acute e frizzanti, percussioni assortite, cori orecchiabili, ritmi frenetici, trombe, marimba… un portale magico pronto a scaraventarci su una spiaggia all’equatore con la semplice pressione del tasto play.

Il disco è un vero frullato di stili, un concentrato di tutto ciò che può trasportarci al sole e all’estate in qualsiasi momento di una qualsiasi fredda giornata qualunque. Alcuni episodi spiccano per numero di trovate e per riuscita del trucco magico (penso a “Bah Boh”, ultimo brano composto, in cui si sente di più la mano del produttore – Marco Fasolo, già nei Jennifer Gentle –, o al primo singolo, “Caribbean Town”, o, ancora, alla più datata “Hedgehogs”, che i cinque Boxerin Club hanno fortunosamente eseguito anche per strada davanti ad un sorpreso Puff Daddy o come diavolo si fa chiamare ora), ma anche il resto del disco regala momenti di calore vario (“Cloud’s Roll Away”, “Boys Are Too (Lazy)”), o attimi più sospesi ma sempre esotici (“Northern Flow”, “It Takes Two to Tango”, “Clown”, “Try Hocket”), per poi terminare con i ritmi indiavolati e le voci rilassate di “Black Cat Serenade” e la sua coda strumentale da manuale.

Aloha Krakatoa è un disco d’evasione, ma ce ne fossero… Un disco che non si spaventa nel voler divertire, nel voler far ballare e sballare, così pieno di ritmo, luce, calore, in ogni piega, in ogni angolo. Ai Boxerin Club il merito di averlo saputo mettere in piedi senza preoccupazioni, senza affanni, ma con la voglia intensa e sincera di suonare liberi e divertenti. A noi, invece, la possibilità di gustarcelo almeno fino a questa estate.

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Nuovo singolo per Elia

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Dopo un Ep dal titolo Nei Pensieri e la partecipazione all’Accademia di Sanremo, arriva in radio “Se Vuoi Vivermi” il nuovo singolo di Elia (Elia Macchiarulo). Avvicinatosi al mondo della musica fin da piccolo, il giovane cantautore ha fatto una scrupolosa gavetta che l’ha portato nel 2011 ad affacciarsi sul mercato discografico con l’Ep già citato. Per il singolo “Se Vuoi Vivermi” è stato realizzato un videoclip che trovate di seguito:

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Marshmallow Pies – Between Cloudy and Sunny Days

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Le Marshmallow Pies (come nella beatlesiana “Lucy in the Sky with Diamonds”, citata proprio in relazione al moniker in “Intro”, i primi venti secondi del disco) si definiscono “fairy acoustic trio” e non si fa fatica a capire perché. Il loro primo album, Between Cloudy and Sunny Days, è pieno zeppo di pezzi emozionali, leggeri e soffici, che sarebbero perfetti per accompagnare gli ultimi minuti di una qualunque puntata di un serial americano teen (vedi “Colourless”, ad esempio – mentre “Strange Belief” potrebbe essere un’ottima sigla d’apertura). Nomen omen, le tre ragazze di Como (voce, chitarra/ukulele/violino, tastiera/chitarra) producono una teoria di canzoni sognanti e zuccherose, un cantautorato in inglese molto femminile e molto morbido, che non inventa granché ma si lascia ascoltare dolcemente, richiamando alla mente, senza troppa fatica, serate da tisane e cioccolate calde in pub dai muri color rosso acceso e con tante, tante candele sparse qua e là (“Superman”).

La base sonora è affidata alle chitarre acustiche e al piano, che si accompagnano a qualche aggiunta saporita (violino in primis: “Storyboard”, o l’apertura centrale di “M.” – ma spunta anche qualche inserto di sax nella già citata “Colourless”, o di organi in “Le Parole”, unico brano in italiano). La voce di Francesca Giannella ci ricama sopra, sottile, con gusto e libertà, senza strafare, in un’economia lieve: una bella voce che non si mette in mostra ma ci accompagna gentile nell’ascolto.  Between Cloudy and Sunny Days è un disco ben scritto, che poteva essere un po’ più vario nelle atmosfere ma che anche arrangiato “al risparmio”, con un parco strumenti ben definito e per alcuni versi limitato, riesce ad emozionare: sia chiaro, si parla pur sempre di emozioni soft, di rilassatezza, malinconia suggerita, serenità, allegria sussurrata. Una torta morbida, dolcissima. Astenersi diabetici.

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La Tosse Grassa – Tg3

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La Tosse Grassa: il nome è già tutto un programma. Il titolo del suo terzo disco poi, TG3, lo è per davvero (sempre se, come me, credete che i telegiornali somiglino sempre più a dei Talk Show). Tra ricordi catarrosi di nottate insonni, febbri deliranti ed antibiotici dai colori psichedelici, mi accingo a premere play con in faccia, lo ammetto, un’ espressione di schifo per tutto quello che una tosse grassa può evocare nella mia mente.

Già dalla prima traccia la sensazione è di essere investiti da un camion in corsa. Sto ascoltando un disco Metal? Nonostante la presenza di sonorità riconducibili ad altri generi, “Veleno”  sembra volermi condurre in quella direzione. Sembra, appunto; perché la seconda traccia “la Vita È Bella (Quella di Benigni)” si presenta con un ritmo Pop Dance che si lascia ascoltare facilmente, e che subisce una metamorfosi nel ritornello passando all’Hardcore, con tanto di esasperazione della voce proprio sulle parole La vita è bella, la vita è una cosa meravigliosa. E così si procede, altalenando tra vari generi, riferimenti e citazioni, fino a quando non mi sembra di riconoscere nella melodia della terza traccia (“Hanno le Manine”) il ritornello di “Take Me Out” dei Franz Ferdinand. Una coincidenza? Chissà.

Proseguo con l’ascolto di “Santo Subito” e questa volta non ho dubbi, lo riconosco chiaro e tondo il motivetto di “Sei un Mito” degli 883, così palese, spudorato e deciso che per un attimo mi viene da cantare tappetini nuovi Arbre Magique, deodorante appena preso che fa molto chic. È stato solo un attimo, mi ricompongo subito. No, questa non può essere una coincidenza. Ed infatti non lo è, perché mi trovo davanti a Vanni Fabbri alias La Tosse Grassa, e a quello che è un vero a proprio culto, Il Culto della Tosse Grassa appunto, della quale lui stesso è il dio indiscusso. TG3 è quella che Vanni definisce la sua nuova stagione liturgica, che prevede la stessa formula delle due stagioni liturgiche precedenti (TG1 e TG2): una serie di basi realizzate con campionamenti provenienti da brani altrui. Un mix letale, ripetuto per la terza volta, ma sempre vincente: il Pop va a braccetto col Metal per recarsi a fare una visita alla Dance, passando però prima dall’Elettronica, senza dimenticarsi del cantautorato italiano (in “Ghigliottina e Lanciafiamme” c’è spazio anche per Pupo e per la sua “Firenze S. Maria Novella”).

Il tutto è poi accompagnato da una serie di testi irriverenti, dissacranti, diffamatori e violenti che trattano con cruda ironia e straziante verità la decadenza di questa società allo sbando. Suicidio, droga, disoccupazione, pedofilia, consumismo, religione, omosessualità, precarietà, vengono sviscerati senza mezze misure o giri di parole; le vergini orecchie si mettano al riparo e le signorine perbene non svengano se  travolte da alitate di Trash. Chi di voi ha mai visto una tosse grassa avere pietà del poveraccio che vi è malcapitato? Dopo le dovute cure, magari. Ma questa è una tosse grassa per la quale non farà effetto nessuno sciroppo e, sinceramente, mi sta bene così.

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Steby – Troppo Rumore

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Avete presente la programmazione musicale delle reti locali? Quei programmi in cui c’è un’orchestra piuttosto attempata e una tipa più o meno milf, più o meno vestita, che canta un brano nazionalpopolare? Ecco Steby, cantante di Latina, sembra uscita da uno di quei programmi lì. Troppo Rumore è il disco con cui si è lanciata sul mercato discografico, in stile crowdsurfing. Chissà se qualcuno ha aperto le braccia per accoglierla.

“Anche la Luna” è un brano saturo di cliché Pop di bassissimo profilo, con tanto di arrangiamenti digitali, violini, tastiere. “Aria Te” è un gioco vocale, in cui emerge la indiscutibile dote canora di Steby, che però manca completamente di un timbro personale che la distingua dalle migliaia di semiprofessioniste da pianobar. Lasciamo stare la qualità compositiva: chitarre con distorsioni stra-sentite, backvoices stile R’n’B (magari), tripudio di rime vai-mai. Alé. “Briciole di Noi” pretenderebbe di avere un arrangiamento più Funky nell’intro e un andamento R’n’B. Rende l’idea solo immaginare che sia stato scritto per delle Destiny’s Child de noartri. “Due Soldi di Te” è più fresca, un brano fondamentalmente estivo, ma, come anche per le precedenti, non c’è una crescita, è solo un gran vociare di Steby tra il simil parlato della strofa e la spavalderia tecnica del ritornello. Oh uao. “Inequivocabilmente” è l’immancabile lamento amoroso, “Mille Bolle” per i primi tre secondi non sembra male, ma poi si rivela subito per ciò che è: il camouflage Rock di una esecutrice di un Pop che fin qui più che mediocre non possiamo definire.

Il disco prosegue con “Per Amarti”, apparentemente costruita per far vedere che Steby riesce a cantare anche le note basse (brava, brava), “Quello che non Ho” potrebbe essere la presa in giro di Anna Tatangelo, invece è realtà. “Re dei Girasoli” vanta un arrangiamento clone delle hit di Nina Zilli, con la grossa pecca che, per quanto la nostra Steby possa essere stata finalista a Cantando Sotto le Stelle e Castrocaro, non è la Zilli né vocalmente né come carisma. E vabbé. Mica si può fare tutti i cantanti. Con “Sabato Sera è Qui” si esplora la Dance più spiccia, che in fondo mancava in questo pot-pourri artificiale di arrangiamenti improvvisati per brani asettici, mentre “Se Fosse Amore” torna a sonorità acustiche e più fresche, per le quali Steby sfoggia un timbro leggermente meno impostato e probabilmente anche più gradevole di quello che ha impiegato per tutto il resto del disco. La title track, “Troppo Rumore”, è in chiusura. E già solo questo la rende bella, se cogliete il sarcasmo. Quando si arriva al pre-chorus che recita «Sentirmi a pezzi nel mondo senza la mia ribellione-one-one», ho personalmente toccato il fondo. Forse neanche la sigla di Dragon Ball ha uno stereotipo lirico del genere. Mamma mia.

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Esquelito – Youwho

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È notorio e risaputo: i teschi sanno sfoggiare il sorriso più ironico e dissacrante esistente in natura. È quasi poetico, quasi commuove: il simbolo stesso della morte è, al tempo stesso, l’emblema del più importante meccanismo di difesa che possediamo contro di essa. Ne sanno qualcosa in America Latina, dove teschi e scheletri prendono vita e colore per essere memento e contrasto rispetto all’idea europea, cupa e soffocante, di una morte incappucciata e mietitrice. Lo sanno bene anche gli Esquelito, che riportano, in maniera leggera e disimpegnata, questo colore e questo divertimento nelle cinque tracce del loro ultimo EP, Youwho. La band, confesso, è riuscita a conquistarmi già dalle poche righe di spiegazione del disco, dove trapela un mondo immaginario ben costruito e per l’appunto coloratissimo, sfavillante, tra il Chiapas e i Caraibi, con il loro spirito guida (l’omonimo Esquelito) a combattere danzando (o almeno così lo si immagina) lo spaventevole e mitico Chupacabra, in un Messico da cartolina, cartone animato, sogno lisergico d’altri tempi.

Gli Esquelito ci portano in viaggio attraverso canzoni semplici, immediate, anthem ossessivi  Post-Folk (“Esquelito”), ritmiche prima esotiche, poi Punk, in un meticciato lineare ma piacevole (“Eternit Love”, dalla linea di basso infestante e l’andamento essenziale). Si toccano il Rock’n’Roll della West Coast e il Pop da canticchiare senza pensarci, per poi finire dritti in una giungla di tamburi, delay, metallofoni e… scimmie (“Monkeyz”). Si cambia spiaggia, da un tramonto sussurrato alle urla notturne di domande e risposte che si incatenano (“One Million”). E ci si ferma sulla strada battuta di un Rock leggero, acustico, e molto americano, per chiudere con nostalgia e un pizzico di malinconia (“Weekly Leaks”).

Nel complesso, gli Esquelito hanno messo insieme un disco che si regge sulle proprie gambe, anche se avrebbe bisogno di qualche osso in più: personalmente, mi convincono di più gli esperimenti con ritmiche inusuali e strutture meno ovvie – come “Eternit Love”, ad esempio – mentre gli episodi alla “One Million” mi lasciano più indifferente. Forse un maggiore focus sulle caratteristiche peculiari della band potrebbe aiutare l’incisività e la presa generale del progetto. Di sicuro, il ghigno bianco di questi scheletri potrebbe avere ancora tanto da dirci: nascondiamo la nostra maschera messicana nel cassetto e attendiamo con speranza il seguito di Youwho.

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Jules not Jude – The Miracle Foundation

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Tra la cover confusamente psichedelica con qualche simbolo inconfondibile e l’opening track (“Perfect Pop Song”) ordinaria, tutto lasciava avvertire l’immersione imminente nell’ennesimo ascolto di una band figlia dei Beatles con poca voglia di andare oltre. Proprio Lennon e Mc Cartney sono palesemente omaggiati in quella perfetta canzone Pop, almeno nel titolo, che ci apre la porta di The Miracle Foundation (tributo ribadito nel nome stesso della band e in altre circostanze) ma quello che troviamo dentro la stanza è meno polveroso di quanto mi aspettassi. Ammetto di non essere stato tempestivo nella scoperta dell’esordio di tre anni fa, All Apples Are Red, Except for Those Which Are Not Red, e l’occasione buona arriva proprio con questo secondo album. Ovviamente i tanti cambi di line up si fanno sentire, talvolta nel bene e altre nel male, ma quello che è certo è che i quasi trentasei mesi in giro per l’Italia e l’Europa a fare concerti hanno dato la possibilità ai bresciani di detergere il loro approccio con la materia Pop-Rock e, seppure il risultato sia ancora lontano anche solo da un’apparente perfezione, certo Simone Ferrari (voce, chitarre, piano, organo, tastiere), Andrea Buffoli (chitarre, sintetizzatore, effetti), Mauro Parolini (basso, percussioni) e Daniel Pasotti (batterie e percussioni) hanno fatto quel balzo in avanti per togliersi almeno dal gruppone, più numeroso di quello che si possa pensare, dei senza talento e senza idee che arrancano nella salita verso il successo, che non sempre è lo stadio di San Siro colmo di spettatori ma anche un sold out al Circolo degli Artisti.

Come la band di Liverpool, anche qui tanti sono i simboli in parte nascosti, a partire dal nome dell’album che si rifà a quello di un’associazione americana che si occupa degli orfani in India, usati dalla band, per poi sviluppare una forma espressiva che trova nell’abbandono il suo filo conduttore, pur non trattandosi specificatamente di un concept album. Con i Beatles nel cuore, i Jules not Jude riescono, però, a non suonare come l’ennesimo gruppo non accortosi che il 1970 è finito da un pezzo e rincorrono altre strade che li spingono verso una certa psichedelia a stelle e strisce con vaghe sfumature Folk e qualche frizzante passaggio Alt Rock più giovane. Dove però si riesce a limare un difetto palese delle prime cose targate Jules not Jude ecco che altre imperfezioni sembrano iniziare a galleggiare sul mare di note. Lasciamo da parte il discorso sull’originalità della proposta che ormai è merce rara quanto Yesterday and Today con la butcher cover in un mercatino dell’usato. Gli otto brani che compongono la tracklist sono diversi tra loro, ma solo all’apparenza, perché in realtà viaggiano tutti su un’onda di convenzionalismo pericoloso. Ogni cosa è suonata in maniera puntuale ma non c’è nulla che regali alla musica quel qualcosa in più che serve veramente per non passare inosservati. Tutto è buono ma niente è stupefacente e neanche le melodie sono totalmente trascinanti tant’è che faticano ad attecchire nella memoria anche dopo diversi ascolti.

A questo punto vi chiederete perché abbia affermato in precedenza che i Jules not Jude non sono senza talento e senza idee, visto che nell’ultima frase non ne sottolineo certo la riuscita dell’ultima opera. Il motivo è semplice. Come accadde per un’altra band prodotta dalla Urtovox, gli A Toys Orchestra (i quali prestano la voce di Enzo Moretto in “Raise the Hood”) anche se secondo dinamiche diverse, i primi due album, (nel nostro caso, The Miracle Foundation in particolare) hanno messo in luce in maniera più netta del solito le potenzialità inespresse che pareggiano i difetti. Poca sperimentazione, strutture troppo sbrigative, melodie non troppo ricercate e un po’ di confusione in fase di proposta sembrano irregolarità che il tempo, il lavoro e uno spirito autocritico possano risolvere in qualche modo, almeno in parte. Ovviamente le potenzialità potranno poi incanalarsi per una strada a me più gradita oppure seguire il solco già tracciato di chi quantomeno è riuscito a uscire dall’oscurità ma quello che è certo è che se non dovessimo più sentir parlare di loro, sarebbe davvero un peccato. Il Pop Rock dei Jules not Jude non è del tipo che adoro, come non lo è quello dei ben più celebrati A Toys Orchestra eppure come non faccio fatica a comprendere (attenti, non condividere) i consensi di pubblico e critica per la band campana, non sarei stupito se dovessi vedere lo stesso pubblico e la stessa critica acclamare, tra qualche anno, i bresciani Jules not Jude.

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Teresa Mascianà – Shine

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Vivere a Milano comporta il dover convivere frequentemente con vedute nebbiose e giornate uggiose, tanto da maledire parecchi santi in paradiso e desiderare di emigrare verso sud. Teresa Mascianà invece a sud ci è nata e nella sua musica questo tratto è decisamente marcato e persistente. Il suo nuovo lavoro si chiama infatti Shine e racchiude nelle nove tracce, che lo compongono, tutta la luce e solarità della giovane cantautrice calabrese. Come la sua terra brulla e aspra e al contempo paradiso dalle acque cristalline quest’album offre sul piano musicale diversi pezzi interessanti e piacevoli come l’apripista “Have a Good Time”, molto happy Rock and Roll da giornata spensierata al mare, o il brano di chiusura “Carry me on” decisamente più intimistico e intenso nei suoni e vicino a tematiche più complesse come il suicidio. Alba e tramonto tutti in un disco con mezzo di tutto un po’, dallo scioglilingua eritreo direttamente da Asmara di “Gundo Senado” alla ballata Contry Pop “Melissa Knows”, che fa il verso agli esordi della giovanissima Taylor Swift, al brio frizzante della cassa che dona leggeri tocchi elettropop a “Away”. Se musicalmente Teresa e la band, che la segue fin dai suoi esordi i Donatori d’Organo, riescono a essere convincenti creando melodie orecchiabili, vivaci e accattivanti, ricche d’influenze molteplici dal Rock californiano alle sonorità africane, passando per il pop anglosassone, la parte testuale e vocale non fanno alttrettando un buon lavoro. Le nove tracce dell’album sono per il 90% cantate in inglese, ad eccezione del brano “Non Ci Penso Più”, e se non ci fosse stato questo brano probabilmente non mi sarei mai accorta della bella voce di Teresa, che nella translazione da italiano a inglese perde molto della sua corposità per risultare meno potente, a tratti stridente e nel complesso meno emozionante. Questa modalità di canto molto moderna nel gusto si perdono molte sfumature, che nel mondo del cantuatorato spesso fanno la differenza. Comprendo che l’inglese sia metricamente e musicalmente bello, comprensibile a un vasto pubblico, ma forse non è sempre la scelta ideale. Rimanendo sull’argomento “lingua” trovo che anche i testi vengano penalizzati dall’inglese in quanto non riescono a creare forti immagini e suggestioni, ma questa potrebbe anche essere semplicemente una scelta stilistica ed espressiva che predilige la semplicità e l’essenziale. La differenza tra un cantautore e cantastorie a mio avviso sta tutto nel peso delle parole semplici o complesse che siano. Il lavoro di Teresa è fresco, vivace ricco di spunti per tutta la parte musicale, ma un po’ zoppicante sui contenuti e sulle storie che raccontate, che non creano empatia e struggono l’animo. Un disco di mezzo che convince a metà, una buona capacità di scrittura musicale che ha bisogno di essere sostenuta da un migliore songwriting.

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EVIL – EVIL

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EVIL: questo il nome del progetto nato a Sulmona (Aq) nell’Ottobre 2012 da un’ idea del chitarrista Alessandro La Civita che chiama a far parte della band da subito Marco Di Ianni (basso e synth) e Giovanni D’Ambrosio (batteria). Dalle loro menti nascono le prime bozze acustiche da cui viene estratto e arrangiato il materiale definitivo di questo ep, pubblicato ad Agosto 2013, che si avvale anche della collaborazione di Maurizio Tavani (En Declin, Droning Maud) che offre una performance vocale pressoché perfetta. Lo stile di quest’ultimo ricorda da vicino infatti quello del più malinconico ed intimo Eddie Vedder dei Pearl Jam e si incunea nelle melodie ben tessute dai suoi tre compagni di gruppo.

Il nome della band tradotto in italiano vuol dire “male”; anni fa i Sonic Youth ci scherzarono sopra sulla parola intitolando un loro disco Evol, anagramma di love (Amore) e distorsione di evil appunto. Ed effettivamente di cattivo la band ha ben poco, in quanto le quattro tracce contenute in questo ep sono molto pacate e malinconiche. La venatura pop e il taglio stilistico appaiono ben chiari sin dall’opening “Meaningless” (poco più di quattro minuti di assoluto piacere sonoro) e dalla successiva “Winter Thoughts” in cui graffianti chitarre riecheggiano le atmosfere dei Radiohead di “Creep” e di “High and dry”.

In “Trapped” invece la batteria inizia ad acquisire un peso sempre maggiore (essendo stata finora un po’ in disparte) scandendo chiaramente un tempo che raramente subisce variazioni (ma ne è proprio questa la bellezza; ricordate una certa Moe Tucker che con i Velvet Undeground faceva tanto con pochi pezzi del suo strumento? Ebbene, il tocco di D’Ambrosio non sarà forse così minimalista, ma di certo neanche troverete in esso virtuosismi alla Terry Bozzio o alla Mike Portnoy, ex Dream Theater). Conclude il tutto in bellezza “Mae” che inizia con una serie di armonici alla chitarra per poi proseguire in un Pop raffinato. I testi di tutte e quattro le canzoni sono stati scritti da Susanna Camerlengo. Poco più di quindici minuti che offrono alla band un ottimo bigliettino da visita che sicuramente sarà utilissimo per trovare date dal vivo.

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