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Placebo – Loud Like Love

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Ci sono stati momenti di vero panico per il mio elettrocardiogramma emotivo durante l’ascolto di Loud Like Love, ultimo disco dei Placebo. Alla vista di un tracciato piatto ed in presenza di un suono Biiiip  continuo, il medico di turno era pronto a decretare la morte di qualsiasi forma di emozione,  sentimento o stato d’animo, dalla felicità più sconvolgente all’angoscia più devastante, per citare solo gli estremi di un lungo intervallo di sfumature sentimentali che la musica è capace di generare. Tuttavia, prima di mettere nero su bianco una definitiva sentenza di morte, un ultimo brevissimo Bip ha rimesso in moto quella macchina infernale generatrice di turbamenti che i comuni mortali chiamano cuore, insieme a tutto ciò che è capace di contenere, risollevando in questo modo le sorti di un album che troppo spesso si abbandona ad un Pop Rock, passatemi il termine, “scontato”, ma che a tratti riesce ancora a regalare momenti di piacevole musica.

“Loud Like Love” (traccia che dà il titolo al disco) ad esempio fa pensare ad una corsa disperata dettata dal ritmo sostenuto di chitarra e percussioni, che si ferma a riprendere fiato proprio nel momento in cui Brian Molko canta Breathe. “Scene of the Crime” sembra voler tentare il colpo riproponendo il lato più oscuro dei Placebo, ma è un colpo che non va mai a fondo e si riduce a rimanere un graffio in superficie. La discesa comincia con “Too Many Friends”, una critica contro i social network che si perde in ovvietà di ogni tipo ma si salva grazie ad un ritornello orecchiabile, e continua con “Hold On to Me”, che potrebbe passare tranquillamente inosservata se non fosse per la voce di Brian Molko che resta comunque un elemento valorizzante, nonostante tutto. Segnali di ripresa arrivano con “Rob the Bank”, dove il ritmo si fa più sostenuto, ed “Exit Wounds”, dove i protagonisti sono i suoni elettronici della parte iniziale che esplodono in una moltitudine di chitarre, riprese poi nella successiva “Purify”. “Begin the End” annuncia, di nome e di fatto,  la fine del disco che si chiude con la melensa, più che romantica,  “Bosco”.

Un album che genera un elettrocardiogramma emotivo instabile insomma, fatto di momenti  in cui ti daresti per spacciato, e momenti in cui ritorna un barlume di speranza a farti credere che davvero qualcosa di nuovo possa ancora accadere. Ma quel qualcosa non accade. Non in questo album, almeno.

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The Geex – The Geex

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Inizia con un robusto fill di batteria questo ep, il primo,  dei The Geex e  poi ecco un giro di chitarra cazzutissima con un bel basso plettrato. Dopo appena dieci secondi di The Geex ecco che pensi di trovarti a che fare con un fottutissimo disco alla Placebo, ti sorprendi a sorridere pensando che ti aspetti una bella serata di musica Indie Rock nella tua stanzetta semi buia del tuo condominio di periferia.

Invece, come a volte succede nel sesso, ciò che ben comincia non è detto che non finisca di lì a pochi secondi: entra la voce in un finto inglese di quelli che si utilizzano per fare i primi provini e d’incanto mi trovo ad ascoltare un emulo di Rocky Roberts nel celeberrimo “Stasera mi buccio”: unica differenza è solo che qui un italiano cerca di sembrare inglese e non un nero che cerchi di sembrare Lando Fiorini; il pezzo si intestardisce in una melodia a metà tra lo scanzonato e il musicalmente scurrile, il giro di chitarra cazzutissima rimane lo stesso fino alla fine del disco mirando con cazzutissima precisione chirurgica al basso ventre dell’ascoltatore, la batteria non molla un attimo il charlie in sedicesimi e il rullante non molla il tre come nemmeno i migliori Def Leppard avrebbero osato, nel pieno degli anni 80. La voce, infida, insiste su parole appena appena stropicciate da qualche decennio di canzoni: Love, Hope e soprattutto Dream: ci tengo davvero a soffermarmi sull’inciso del secondo pezzo “Empty” dal titolo evidentemente riassuntivo dello spirito dell’ep; da quando ascolto musica non mi era ancora riuscito di ascoltare un vocalizzo di così tante note e così tanti secondi (sulla i di Dream per l’esattezza). Con un vocalizzo così lungo The Geex possono provare ad insidiare il record mondiale di vocale indoor dei migliori Verdena, i quali almeno allungavano vocali nella loro lingua madre. Vocalismo patriottico is better, passatemi l’inglesismo, anche io a scuola ho studiato un po’. Il disco volge al termine in altri due pezzi: “Africa” mi sembra giusto un pelino di un livello compositivo più alto degli altri. Ma è come se il sesso sia durato dieci secondi e poi ti abbiano propinato venti minuti di coccole. Che ne dite donne, quante volte avete provato la stessa esperienza con i vostri partner?

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Kingshouters – You Vs Me

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You Vs Me è l’esordio degli italianissimi Kingshouters, quattro ventenni che citano tra le loro influenze nomi della caratura di Smashing Pumpkins, Placebo, White Lies e 30 Seconds To Mars.

Il disco, prodotto da Michele Clivati (già nei Nena And The Superyeahs e al lavoro con Dolcenera, Denise, e Francesco Sarcina, tra gli altri), suona preciso, tecnico e potente quanto serve per ricordarci che anche in Italia si possono produrre lavori capaci di competere con la musica internazionale mainstream del momento. Le ritmiche schiaffeggiano, “finte” come prevede il dress code del Rock anglosassone contemporaneo, sorpreso a voltarsi, come la moglie di Lot o come Orfeo, verso le sonorità che gli anni ottanta del secolo scorso continuano a rigurgitare. Le chitarre frizzano e pungono, come vette di iceberg immersi in mari di synth simil-Dance (vedi “Levels”, cover della hit del dj svedese Avicii). La voce non spicca per timbrica, ma supporta in modo degno melodie Pop che incorniciano il tutto senza strafare.

Certo, ci si potrebbe chiedere quale bisogno ci sia di un disco così: magari il tentativo di far vedere che anche il Bel Paese può tentare la strada del Rock internazionale (tentativo pur sempre lodevole), anche se forse, come diceva qualcuno, “chi se ne frega di essere Zucchero se c’è già Joe Cocker”. L’importante, al di là delle chiacchiere sui massimi sistemi, è che i quattro Kingshouters facciano ciò per cui sentono di essere stati chiamati, e che lo facciano bene. Sul secondo punto non abbiamo dubbi. Al resto, penseranno le orecchie degli ascoltatori e la giungla discografica. Per ora, limitiamoci a sentire questo tamarro You Vs Me col gusto un po’ peccaminoso del giocare con i vestiti dei genitori – grottesco, ma necessario, e soprattutto, divertente.

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Placebo: spoiler sul nuovo lavoro

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Con il teaser di Loud Like Love, nuovo singolo e nuovo album per i Placebo, la band di Brian Molko presenta in meno di un minuto il sound che caratterizzerà il disco registrato a Londra presso i RAK Studios. Vi ricordiamo anche che il 23 novembre i Placebo suoneranno in Italia all’Unipol Arena di Bologna.

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Spiral69 – Ghost in my Eyes

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E’ il tocco raffinatamente bluastro della wave targata duemila quella che fluidifica la tracklist del nuovo disco degli Spiral69, Ghost in my Eyes, il contenitore delle melodie travolgenti alle quali questa straordinaria formazione  ci ha abituato sin dal primo album,  un sound reiterato e approfondito dalle suggestioni e sonorità che si tingono di ossessione e Gothic-Folk per sedurre moderni flàneur tra un sorso di Assenzio e un morso di lussuria notturna.

Riccardo Sabetti, focus, fulcro e attore sonico principale del logos Spiral69, qui con la produzione artistica di Steven Hewitt (drummer e co-autore dei Placebo) e la consolle di Paul Corkett (The Cure, Cave, Radiohead, ecc), introduce un clima suadente ed epico che padroneggia la materia dell’atmosferizzazione, lontano dai geli cattedratici della primarietà di genere e assai vicino all’hook radiofonico, quella melodia catchy che lentamente entra sottopelle e freme di uscire dai pori, l’epidermidità assoluta di un sound generale nato per far vibrare e contrastare le sovrapposizioni modaiole last minute; tracce come istantanee, brani come Kodak tornate fuori da cassetti insospettabili, sogni e ombre che si contengono lo spazio vitale di una emozione da vivere per una manciata di minuti, per quella sacrificalità presente nelle ascensionalità epiche di “Waves”, al dettaglio netto del romanticismo riflessivo “No Heart” oppure nei davanzali della solitudine che sbottano nel mid-.fragore Rock di stampo Depeche Mode “Dirty” e Cure “Please”.

Piano, sinth, archi, effusioni e strizzate di cuore fanno parte dell’architettura generale, l’originale equilibrio tra riferimenti storici e avanguardia contemporanea, il complemento ideale per chi fosse esclusivamente alla ricerca di forti emozioni e parentesi fumè, oppure alla cerca di un fuoco suggestivo di amalgame senza fondo.

Disco di riferimento,  consigliato.

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The Urban Jungle – S/t

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Ci ho messo un po’ troppo a mettermi ad ascoltare questo primo disco dei The Urban Jungle ma volevo farlo per bene. L’ho fatto girare nello stereo una volta, due, tre, fino ad annoiarmi. Anzi, ancora non mi sono annoiato e lo riascolto. Un sound molto semplice quello di Liuk, Diego e Mario, i tre giovanissimi (classe 88/89) creatori di questo lavoro eppure nella testa rimbombano mille dubbi. Decido cosi di esternare le mie sensazioni e le mie impressioni e di parlarne con qualcuno, come se dovessi sfogarmi di qualcosa che ho dentro. Non vi dico chi è quel qualcuno, forse è la parte buona di me, la mia coscienza, il mio subconscio; forse è un mio amico, forse qualcun altro; non è importante. Al limite, ve lo dico alla fine. Appassionante questo primo pezzo, “Pray”. Rock alternativo semplice e diretto. Indovinato il giro di chitarra in loop per tutto il brano che dà un tocco di psichedelia. Che ne pensi?
Ricorda un loop quasi Maroon 5 e molto interessante il testo che parla di spazio e di stelle. Ti fa venir voglia di ballare.
Secondo me sarebbe stato ancor più affascinante con un ritmo più veloce, dinamico; magari con una seconda chitarra a mescolare le carte. Non credi?
Sì, certo. Sarebbe diventato un bel singolo se fosse stato più veloce. Ancora più di facile ascolto. Che io sappia nei live viene fatto, infatti, molto più veloce.

Ottimo. Ma non capisco una cosa. Il cantante cerca di imitare in alcuni passaggi il leader dei Placebo o è una mia impressione?
Non credo sia tra i gruppi preferiti dalla band; probabilmente gli è stato consigliato di scandire bene le parole per fare in modo che risultasse facile da ascoltare.
Effettivamente la cosa si sente molto. Niente male anche “Another One”, sound più calmo e delicato rispetto al precedente nella prima parte ma molto energico nella seconda. Ci sono tanti ascolti Grunge dentro.
Moltissimi. Io sapevo che i primi tempi dei The Urban Jungle furono trascorsi a cercare di non imitare Eddie Vedder, purtroppo entrato nelle corde. Canzoni come “Another One” fanno tornare alla mente le prime cose fatte ma sono quasi inevitabili per la band.
“Qualcosa In Cui Credere Ancora” sembra tornare allo stile del primo brano, molto più dinamico e Brit Pop. Ma che succede? Che c’entra il cantato in italiano?
Con l’italiano forse la band cerca di far suo un pubblico, come dire, più vicino. A mio parere usare troppo l’inglese, se vuoi rimanere in Italia o almeno farti conoscere prima qui, non serve a un granché.
Servono però testi con i “controcazzi” altrimenti la gente pensa troppo a quello che dici e poco a quello che suoni.
Vero.

Devo aggiungere una cosa. Se non prendono una seconda chitarra, quella che c’è e il basso devono darsi da fare. Soprattutto le quattro corde sono suonate in modo troppo semplice ed elementare. Non riescono a dare uniformità alla musica.
Effettivamente sì. In pezzi come “Pray” vedrei bene un piano anzi, ancor più un synth.
Ho molti dubbi sul cantato in lingua madre come in “Fragile”. Rende la musica troppo pseudo Pop-Rock all’italiana. Del tipo che non amo.
Una canzone come Fragile però (come struttura) faccio fatica a immaginarmela in inglese, sinceramente. Ma è anche vero che l’italiano a volte può essere quasi un difetto, vai a finire in generi che non ti saresti nemmeno immaginato.
Sì e proprio per questo forse la formula giusta è piuttosto quella di “City Above”.
Bel pezzo “City Above”.
Tanto grunge anche qui, sia nel cantato sia nelle ritmiche. La chitarra alterna momenti eterei a riff più taglienti e aggressivi. Pensi che il pubblico italiano abbia cosi tanta necessità di capire i testi?
Penso che non sia necessario effettivamente che il pubblico comprenda i testi (che poi anche in inglese li comprende, se vuole) ma un live fatto di musica italiana e straniera, in Italia, può come dire,….spezzare.

“Invisibile” chiude l’album. Tralasciando il ritorno all’italiano, dall’intro sembra che The Urban Jungle si rifacciano ancora al Brit Pop classico ma i riverberi chitarristici seguenti ricordano anche i momenti più rock dei Piano Magic. Che te ne pare? Oltre al Grunge che tipo d’influenze hai notato?
Dunque, sento sonorità a tratti molto Muse o U2 ma sono i delay a fare da padrone e in più si sente molta attitudine synth pop.
I dieci secondi finali sono la parte più omogenea, carica e potente di tutto il disco. Spettacolari. Questo è quello che avrei voluto fosse il cuore dell’opera. Può essere un punto di partenza dal quale sviluppare l’album futuro.
Certo!! Può e deve esserlo. Il finale con quel riff di basso che arriva dopo un crescere di batteria per completarsi in una chitarra potente come la voce deve far capire che il trio è unito e omogeneo oltre che potente.
In realtà l’album ha ottime potenzialità, anche perché ci sanno fare con le melodie. Se vogliono restare un trio però, devono sforzarsi e lavorare di più. Le uniche cose che non concepisco sono: perché tanta disomogeneità? Un pezzo che guarda all’Inghilterra, uno a Seattle, ora l’inglese, ora l’italiano. E forse poca originalità. Bisogna mettere in chiaro le idee e trovare uno stile peculiare, non trovi? Ammetto che hanno tutto il tempo per inventare qualcosa.
Giusta considerazione. Credo che sia dovuto ai diversi background musicali di chi compone la formazione. Credo che da un lato possa essere piacevole sentire un gruppo che spazia, ma deve spaziare bene tra le varie sfumature del rock.

Dopo queste esternazioni, penso di aver capito molto di più della musica di The Urban Jungle. Ho rafforzato alcune delle idee critiche che avevo all’inizio, ma sono ancora più convinto che le cose possano palesemente migliorare, col tempo. Hanno il futuro dalla loro parte e l’energia di chi è giovane e ama la musica.

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Un-Reason – S/t

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Ok, ancora non ho ascoltato il disco degli Un-reason e già mi piacciono. Spulciando tra le bio dei quattro componenti la mia testa vola indietro a un po’ di tempo fa, quando il mio mondo sembrava voler gridare il disagio del tossico da strada di Fuorivena, la fiera rabbia punk dei Klasse Kriminale, i giochi di parole dei Prozac+ e la ricerca di un marcio più elettronico negli Skinny Puppy. Gli Un-Reason si portano dietro un bagaglio musicale degno di tutto rispetto e dunque mi aspetto un disco curato nei minimi dettagli e non convenzionale.
Bene ora accendo le mie amate casse e mi lascio trasportare in un’altra dimensione in cui le contaminazioni sonore già dalla prima traccia – “A Place Of Truth”-appaiono infintite, ma è con Blink che finalmente il disco si apre e i N.I.N. prevalgono su tutto: chitarre che scoppiano, voci distorte ed effettate. Le atmosfere si fanno più pacate in “Our Special Way”, dove i suoni lenti e disturbanti mi hanno ricordato i primi Placebo, che riuscivano ad impastare una accozzaglia di influenze a tratti quasi folk con il dark più melodico e oscuro di ognuno di noi, regalando brani fottutamente pop (nel senso buono del termine).
Per tutta la durata del disco la voce di Elio Isaiasi sdoppia, passando da distorta a melodica, risultando però maggiormente interessante quando distorsori, delay, filtri ed altri effetti si fanno prepotenti, come in “Kids Hurting Kids”, favolosa traccia dove basso, elementi elettronici e un finale esplosivo la rendono unica. Il disco si conclude con “Waves”, una traccia che invita ad ascoltare la forma d’onda sonora in tutte le sue componenti: spazio, tempo, voce e musica. L’unica pecca? Il non aver incluso delle tracce puramente strumentali, io personalmente le avrei apprezzate, perché se c’è una cosa che non si può non riconoscere a questi ragazzi è sicuramente un’ottima cura negli arrangiamenti.
Insomma, mi piacciono perché suonano noise e sporchi, ma sono maledettamente curati e puliti, grazie anche ad una minuziosa cura dei dettagli, tanto che non sembra proprio di ascoltare una band nostrana.

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Twiggy è Morta! – Credo Mi Citeranno Per Danni

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Prima di buttare totalmente testa e orecchie nelle nuove produzioni del nuovissimo anno duemilatredici, ho deciso di mettermi ancora a spulciare tra quanto è rimasto dell’anno vecchio, sperando di trovare qualche cosa che si faccia maledire per non essere spuntato fuori prima, fosse anche per colpa mia. Fidatevi, non è tempo perso. Solo ieri mi sono deciso, ad esempio, ad ascoltare seriamente l’omonimo esordio dei King Tears Bat Trip, band Avantgarde e Free Jazz di Seattle e cavolo, se l’avessi fatto prima… In realtà non sarebbe cambiato un cazzo. Forse avrei ascoltato solo un paio di dischi di merda in meno ma non è neanche detto e forse avrei inserito quell’album nella mia classifica di fine anno, cambiando radicalmente la vita di ogni essere umano. Avrete capito che, in realtà, l’unico motivo per cui si va alla ricerca di qualcosa di bello è semplicemente per udire qualcosa di bello (wow, che scoperta rivoluzionaria) e allora, come già detto, eccomi a rovistare tra le vecchie uscite sperando di essere colpito dal disco giusto.

Twiggy è Morta! Oddio chi era Twiggy? Quella modella inglese supermagra di qualche decennio fa, se non ricordo male. Deve essere proprio il suo, sulla copertina di Credo Mi Citeranno Per Danni, quel volto, tutto scarabocchiato, come vi capita di fare con la foto di Michele Cucuzza in prima pagina alla Settimana Enigmistica, quando seduti sul cesso, noia e stitichezza, avanzano tra le vostra budella.
Molto accattivante la cover. Ho scelto cosa ascoltare.
Sembrano fare le cose in grande questi romani, almeno all’apparenza. Hanno anche un manifesto:
“L’arte è citazione. L’artista copia, il genio ruba. Ridiamo l’arte agli artisti! Twiggy è Morta! Significa che l’arte è morta. La musica è morta, verso un decadimento apparentemente irreversibile. Twiggy è il simbolo, la musa, il feticcio utilizzato. Se prima nascevano i Modena City Ramblers, i Diaframma, i Verdena, gli Afterhours, Paolo Benvegnù o Moltheni, ora è il tempo de Lo Stato Sociale, I Cani, Dente: musica da quattro soldi fatta di slogan in un periodo in cui nessuno ha più niente da comunicare. È tempo di ridare all’arte la sua collocazione.”
Direi che chiamarlo “manifesto” è un po’ eccessivo, però spiega bene il senso di quello che vogliono o forse vorrebbero fare. E poi, cazzo, hanno le palle di dire quello che sembra impossibile da far dire a qualunque artista, soprattutto emergente, del mondo Indie italiano. Lasciando stare il mio giudizio, hanno il coraggio di proferire parole come… ora è il tempo de Lo Stato Sociale, I Cani, Dente: musica da quattro soldi fatta di slogan… Parole che mai, nel corso di un’intervista anche con veterani della scena, sono riuscito a cavare dai loro (dei musicisti) denti. Già solo per questo, Twiggy è Morta! mi fa simpatia. Mentre scorre il loro Ep, cerco di capire chi sia questa band. Come detto, si tratta di quattro ragazzi laziali, Paolo Amnesi (voce e chitarra), Andrea La Scala (chitarra), Valerio Cascone (basso) e Simone Macram (batteria) con già all’attivo un Ep autoprodotto e più di cinquanta esibizioni live e un bootleg, L’arte Marziale (lo trovate in download gratuito o anche su You Tube), tratto un loro live alla Festa De L’Unità. Come avrete capito, i Twiggies (pare che cosi si facciano chiamare) si sono dati un ruolo da supereroi nel mondo Indie, salvatori della musica contro il male rappresentato dalle canzonette nostrane. Assolutamente niente da dire. Anzi, magari ci fosse qualcuno a ridare linfa artistica alla nostra musica. L’unica cosa che mi viene da sostenere è: “Non è che state esagerando?”. Magari converrebbe prima scrivere, suonare, farsi sentire, costruire arte che non lo sia solo per chi la fa, ma anche per chi ascolta e poi, aspettare che qualcuno si renda conto, magari con qualche aiuto, che questa è Musica e non Lo Stato Sociale o I Cani. Non lo dico perché l’arroganza può essere antipatica ai più ma soprattutto perché si rischia di fare la figura dei coglioni.
Intanto che il primo album Le Parole Sono Un Muscolo Involontario, sempre per l’HitBit Records, sarà pronto, io continuo ad ascoltare questo Ep. Sentiamo che succede.
Succede che si parte con il Rock molto classico de “Il Parossismo Del Cuore”, brano che nella sua semplicità melodica e nelle sue esternazioni derivative è abbastanza apprezzabile anche se non proprio originale. Ma questa cosa dell’originalità, come avrete capito, non riguarda necessariamente l’arte o il genio, almeno a detta di tanti, tra cui i nostri Twiggies (vedi il manifesto). Se da un punto di vista musicale i possibili riferimenti sono tantissimi, sia italiani sia stranieri, in ambito vocale, si sfiora in maniera preoccupante non tanto la copia o il furto, ma la parodia involontaria di Giovanni Gulino (Marta Sui Tubi) e Pierpaolo Capovilla (Il Teatro Degli Orrori). Più distesa l’atmosfera di “Crepapelle”, che insegue, a differenza del brano precedente, linee soprattutto vocali più Pop, anche grazie ad armonie sonore languide e struggenti e un cantato a volte quasi solo sussurrato. Con “Legno”, la musica di Twiggy è Morta! sembra fare per un attimo un passo indietro, verso le sonorità del Rock alternativo anni ’90 stile Diaframma, fatto di riff puntuali e mai ridondanti. Il testo non si occupa più dell’amore ma guarda prima all’esterno, attraverso un pessimismo letterario che vi sfido a riconoscere e poi si fionda alla ricerca del genio presente dentro l’animo di ognuno di noi. L’ultimo brano, “A Bocca Aperta” è quello che più di tutti, specie nella sezione ritmica, richiama il sound delle nuove leve della No Wave, come Editors, Interpol, The National, ma anche dei Piano Magic ultimo periodo. Il testo invece sembra essere una specie di manifesto (anch’esso) di quello che significa Twiggy è Morta!, affrontando il tema della bulimia culturale e sociale in un metaforico parallelo con l’anoressia di una modella come Twiggy, appunto.

Nel complesso, quello che ho tra le orecchie è un buon Ep per una band in cerca del suo spazio che mostra ottime capacità esecutive ed anche una certa discreta voglia di essere diversi dalla massa, attraverso la riscoperta di una qualche forma di classicità Rock e soprattutto una scrittura lirica fortemente “arrogante” e concettualmente aggressiva. In realtà, preso come punto di riferimento quello che dovrebbe essere l’obiettivo della band palesato nel proprio manifesto, ci sono alcune cose che non vanno. Innanzitutto, in molti passaggi, non è chiaro quale sia il ruolo dell’ironia nelle loro esternazioni.  Inoltre, fermo restando e preso per buono il concetto che anche l’artista o il genio possono copiare o rubare, è anche vero che artista e genio, quando imitano, migliorano. Nel nostro caso, preso come punto di riferimento il Blues e il Rock Alternativo, la musica dei Twiggies, vi ruota attorno, schiantandosi di volta in volta contro Marlene Kuntz, Placebo, Afterhours, oltre ai già citati, senza mai riuscire, partendo dalla propria orbita, a seguire una strada diversa e comunque più efficace. In merito ai testi, certamente non possiamo negarne l’originalità e sicuramente, sotto questo punto di vista, la loro voglia di distinguersi dal gregge è ben rappresentata ma è anche vero che non ci sono molti spunti davvero poetici o affascinanti.
Credo Mi Citeranno Per Danni è quindi un Ep pieno di buona musica, stracolmo di buoni propositi ma anche una piccola delusione, visto l’obiettivo posto dai quattro laziali.
La speranza è che, con l’uscita del prossimo disco, alcuni limiti possano essere superati. Non vorrei minimamente che ridimensionassero la loro filosofia, anzi. Voglio solo che ce la mettano tutta per dimostrarci che la loro musica non è intrattenimento ma arte, voglio che ci facciano vedere che “se prima nascevano i Modena City Ramblers, i Diaframma, i Verdena, gli Afterhours, Paolo Benvegnù o Moltheni” ora non è solo il tempo de Lo Stato Sociale, I Cani, Dente ma anche di band ancora capaci di creare opere d’arte. Magari band dal nome Twiggy è Morta!.
Una cosa importante che dovrebbero comprendere i Twiggies è che la musica ha la forza di essere arte, a volte intrattenimento o anche tutte e due le cose. L’errore è di chi scambia l’una per l’altro più che di chi fa l’una o l’altro, sempre che non spacci i suoi cazzeggi per opere di valore assoluto. Non è colpa de Lo Stato Sociale, se il loro fare canzoni per divertire e divertirsi è stato scambiato da qualche idiota per il futuro della musica italiana. Prendersela con loro sarebbe come prendersela con chi fa i meme, incolpandoli di distruggere il valore artistico del fumetto. Se cercate dei nemici, cercateli tra chi si annoia a vedere Lars Von Trier e si fionda al cinema per Boldi a Natale, tra chi legge Fabio Vola e ne decanta le capacità filosofiche al bar, tra chi ascolta I Cani convinto della loro genialità e sparla del ritorno di “quel vecchiaccio” di David Bowie. Loro sono il Male. La gente è il Male. L’ignoranza è il Male.

http://www.youtube.com/watch?v=9qUIOo02COw

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