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Fabrizio Cammarata & The Second Grace – Rooms

Written by Recensioni

Per una volta tanto gli Americani potrebbero invidiarci e mordere il gomito quando si ha dentro le orecchie un disco come questo “Rooms” di Fabrizio Cammarata & The Second Grace, l’artista palermitano che, col suo progetto TSG dentro questo nuovo lavoro discografico ricamato di pregevole nu-folk meticciato, apre definitivamente le ali e intraprende – come un novello Lindbergh – le direttrici sonore dell’Alt America, lasciando qua e la  qualche pulviscolo mediterraneo tanto per ricordarsi la base di partenza, la radice profonda che lo ha visto diventare artista.    

Prodotto da JD Foster, registrato tra Sicilia, New York e Portland e che vede la collaborazione di Jairo Zavale e Joey Burns – voce e chitarra dei Calexico – il disco è una meraviglia d’intenti e sensazioni, che vive al di la dell’oceano, lungo gli sterrati amarodolci della provincia americana tra West e allucinazioni , carribotte e saguari ingialliti, tracce che ti rigano il plesso solare e t’innalzano la frenesia di possedere questi “frammenti aperti” che Cammarata evoca, doma e regala; via le mezze misure, si può parlare liberamente d’incanto, si incanto spalmato su undici tracce dalle molteplici direttrici ed equilibri poetici, “stanze” che si aprono e chiudono come mantici d’anima  e storie polverose.

Un disco che è omaggio alla magia della scrittura e del talento immaginario, Cammarata strega a tutti gli effetti con una chitarra e mille ispirazioni di gruppo, forte della sua non locazione artistica e guerriero tra gli interstizi dell’umanità di seconda; e aspettando che l‘intero lotto prenda la strada alta di un futuro prossimo, andiamo incontro a queste eccellenze di linguaggi che si portano avanti con il dondolante macramè esotico di “Alone & alive”, arrivano dal cuore strappato dal petto dalla ballata “Aberdeen Lane”, si nascondono tra  archi e Donovan che languiscono tra le schiume calme di “Down down”, rinvengono nella beatlesiana risonanza di “Pole kitoto” o nell’ubriacatura tubolare che stringe il cielo e lo trasferisce in climax mex-carribean “Highlake Bay”, il tutto senza mai approfittare di vuoti e silenzi.

Si, gli Americani  potrebbero una volta tanto invidiarci maestosamente, e la benedizione di Drake aggiunge quel segno in più che serve per estrapolare la sofferenza poetica dal fascino.  Prezioso come pochi.     

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