Lou Reed Tag Archive

Davide Riccio – New Roaring Twenties / Human Decision Required

Written by Recensioni

Un mastodonte citazionistico carico di strampalata bellezza.
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‘Chi suona stasera?’ – Guida alla musica live di marzo 2018

Written by Eventi

Ennio Morricone, Susanne Sundfør, Yann Tiersen, Joan As Police Woman … Tutti i live da non perdere questo mese secondo Rockambula.

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‘Chi suona stasera?’ – Guida alla musica live di ottobre 2017

Written by Eventi

Godspeed You! Black Emperor, Klimt 1918, Melvins, The Dream Syndicate… Tutti i live da non perdere questo mese secondo Rockambula.

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Pixies @ Flowers Festival, Parco della Certosa Reale, Collegno (TO) 21/07/2016

Written by Live Report

Ed eccoci giunti ad un altro appuntamento di grande rilevanza offertoci dal Flowers Festival dopo la data unica italiana di Anohni. Questa sera incastonati nella cornice del Parco della Certosa Reale di Collegno saranno presenti, anch’essi per la loro unica tappa italiana, i leggendari Pixies, una delle band più importanti ed influenti che l’Alternative Rock ricordi. Una band che nel suo periodo d’oro ha sfornato dischi che sono entrati nella storia della musica e che due anni fa, a 23 anni dall’ultimo lavoro in studio, è tornata a pubblicare materiale inedito ed oggi si appresta a dare alle stampe il suo settimo disco, Head Carrier, la cui uscita è prevista per il prossimo 30 Settembre. I Pixies si sono sempre contraddistinti per la loro grande varietà di linguaggio, per quegli arrangiamenti, molto spesso caotici, spigolosi, sfaccettati e contrastanti, fondati sulle grandi e folli doti vocali di Black Francis (unite alle ritmiche della sua chitarra), sull’ecletticità del cofondatore Joey Santiago alla chitarra solista, sulle sediziose ritmiche del batterista David Lovering, sulle splendide armonizzazioni vocali e sul basso robusto e letale di Kim Deal, che come tutti saprete dopo aver preso parte alla reunion nel 2004 ha lasciato la band nove anni più tardi, sostituita per brevissimo tempo da Kim Shattuck alla quale è a sua volta subentrata Paz Lenchantin che vedremo stasera sul palco. Una band che ha imparato e fatto sue le lezioni di David Thomas e dei suoi Pere Ubu (tra l’altro tra i due leader non manca anche una certa somiglianza) e che tra le sue fonti d’ispirazione annovera anche artisti dal calibro dei Violent Femmes e dei sempiterni Lou Reed e David Bowie e che ha a sua volta ispirato band come i Nirvana, i Pavement e tanto altro ancora di quello che sono stati buona parte degli ascolti di molti di noi dagli anni 90 ad oggi.

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Insomma questa sera l’attesa è sicuramente bella alta ed insieme ad un gruppetto di amici, tra i quali un’altra penna di questa webzine, la smorziamo con un paio di buone birre ed un piatto di gustosi agnolotti al ragù, certamente non esaltanti per quantità ma che comunque ci aiuteranno a non svenire durante il concerto. L’onore di aprire per la band di Boston spetterà ai Ministri che vedo dal vivo per la prima volta e (consideratemi pure un marziano) di cui non conosco nulla nonostante il loro nome abbia ormai un certo peso all’interno della scena musicale del nostro paese. I ragazzi offrono uno spettacolo di Rock dallo spirito Punk che si dimostra piuttosto godibile con musiche dal buon impatto (per quanto non arrivi mai niente di sorprendente) nelle quali la parte del leone è assegnata alle chitarre. La voce di Davide Autelitano per i miei gusti è sicuramente più piacevole quando urla o si fa bassa e cupa che durante il cantato classico e melodico che fortunatamente prende il sopravvento raramente, i testi sono destinati ad un pubblico decisamente più giovane del sottoscritto, pubblico che comunque non manca (sarà infatti facile vedere ventenni come ultracinquantenni) e che se li gode cantando a memoria ed a gran voce ogni singola parola. No, non è nato nessun amore, ma devo comunque dire che i ragazzi sono capaci di tenere il palco alla grande e che la scelta di far loro aprire il concerto dei folletti mi è sembrata meno assurda di tante altre, considerando che spesso i gruppi posti in apertura di serata sembrano selezionati da qualcuno che come unico suo scopo abbia la mia, tua, nostra (in)sofferenza.

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Durante i venti minuti conclusivi di un cambio palco durato l’esagerazione di tre quarti d’ora, probabilmente anche per prendere qualche precauzione a causa della leggera pioggia caduta a metà del set dei Ministri, il pubblico delle prime file sul lato sinistro del palco viene intrattenuto da un ragazzone che pare disegnato da Matt Groening e che cerca disperatamente il suo amico Giancarlo uralandone il nome a gran voce e più passa il tempo più si irrita anche con i Pixies e con Black Francis, ma è un’irritazione giocosa e piena d’amore (o forse mi sbaglio, forse prevede il futuro) il giovane sa di alleggerirci la sfiancante attesa, dona abbracci a destra e a manca e quando la band entra sul palco si catapulta più vicino che può, il suo spettacolo è finito, adesso tocca a loro, adesso tocca ai Pixies. La band di Boston parte subito con l’incendiaria cavalcata di “Velvety” seguita da “Rock Music” che precede la sensualità dannatamente coinvolgente della splendida “Hey” con la chitarra di Santiago che brilla per eleganza. Tre brani che bastano per farci capire che passeremo quasi un’ora e mezza in compagnia di una band ancora in grandissima forma, l’energia che si respira è veramente tanta e salirà ancora.

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Oltre ad un paio di ripescaggi da quell’Indie Cindy che due anni fa segnò il loro ritorno (se vogliamo evitabili, per quanto live risultino nettamente più piacevoli) Francis e soci ci proporranno tutti e 4 i pezzi già ascoltabili del disco in arrivo, il Power Pop surfato di “Classic Masher”, “Baal’s Back”, potentissimo Hard Rock in pieno stile AC/DC, la power ballad “Head Carrier” ed il Garage “Um Chagga Lagga”, primo singolo estratto dal disco in arrivo, brani capaci di mostrarci come se la cava ai cori la Lenchantin su pezzi dove non possiamo paragonarla alla Deal, e si può dire che la ragazza ci sa fare e che supera l’esame anche sui pezzi dove il paragone è inevitabile, a voler trovare qualcosa che non va si potrebbe dire che forse in alcune occasioni il suo basso risulti meno potente e spigoloso di quello originale, ma mi sorge il dubbio che lo si potrebbe dire più per il dispiacere di non vedere sul palco la storica bassista della band che per come effettivamente lo strumento suoni. I nuovi brani dei Pixies live sono veramente trascinanti (ed immagino il nuovo disco piacerà più del precedente) ma ormai il loro segno distintivo non c’è più, mancano quella fantasia, quelle dissonanze, quella facilità complicata che avevano contraddistinto i loro giorni migliori, per quanto la title-track e “Um Chagga Lagga” due passi indietro nel tempo nel loro piccolo provino a regalarceli. Ma quei giorni stasera li ritroveremo ed alla fine andremo a casa felici di esserci stati, felici e bagnati (ma anche un po’ incazzati, scoprirete come mai più avanti) perché, come ad ogni concerto Rock all’aperto che si rispetti non mancherà, per una buona ventina di minuti, una pioggia torrenziale, portata, guarda caso, dal supereroe Tony (He’s got the oil on his chain, for a ride in the rain) non prima che la robusta e straziante violenza di “Dead” si sia occupata di oscurare il cielo.

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I Pixies andranno a pescare molti dei loro pezzi storici, in particolar modo dai due album che li hanno elevati a band culto: Surfer Rosa e Doolittle. Avremo così modo di godere di brani come l’ossessiva e nevrotica “Bone Machine” con l’ottimo lavoro della sezione ritmica, i riffoni di Santiago e la voce di Francis che volerà ovunque possibile, come della prorompenza sgraziata, tossica e liberartoria di “Gouge Away” e della demenziale “River Euphrates” con i suoi graffi Punk Rock (brani che manderanno il pubblico in delirio sotto il diluvio).

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A pioggia terminata arriveranno due delle canzoni più meravigliosamente appiccicose e melodicamente irresistibili che la mia mente ed il mio cuore ricordino: la splendida, intensa e criptica ballata “Monkey Gone to Heaven” e l’adorabile Surf Pop di “Here Comes Your Man” coi loro ritornelli killer (durante la seconda quello che avrò davanti ai miei occhi sarà uno dei pubblici più puramente felici che mi sia mai capitato di vivere ed osservare nel corso di un live). Arriveranno ancora la coinvolgente “Levitate Me”, furioso e distorto mostro Pop Rock estratto dal disco d’esordio Come On Pilgrim, ed ancora il loro pezzo più sigificativo, col suo inesorabile riff, l’abrasiva ed allucinogena “Where Is My Mind?”, momento di puro delirio collettivo. Sarà grazie alla tenera demenza di “La La Love You” che godremo di un paio di minuti un po’ più calmi prima dell’arrivo della strepitosa, eclettica e appassionata “Vamos” dopo la quale la band, fin qui col pubblico niente più che qualche occhiata, arriverà al momento dei saluti, che saranno calorisissimi, un paio di minuti per un grande e reciproco abbraccio e finalmente anche qualche sorriso da parte del leader del gruppo. Non ci sarà bisogno di richiamarli sul palco, i Pixies dopo questa calorosa stretta torneranno immediatamente ai loro strumenti per far partire “Debaser”, ma cosa accadrà? Che Black Francis deciderà di bloccarla dopo pochi secondi quando tutti ormai stavamo godendo all’idea di gustarci quell’immenso brano, uno scherzo da prete più che da folletto che non andrà giù a me come credo a molti altri. Al suo posto la band suonerà “Planet of Sound” da quel Trompe Le Monde, ultimo capitolo della loro prima fase, che segnava il decorso della loro schizofrenia più accesa e accecante, per quanto l’episodio raccontato sopra dia l’idea di un cammino ancora lungo per una completa guarigione.

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L’amaro in bocca, sì. Che poi sarebbe semplicemente bastato non farla partire quella maledetta “Debaser” no? E chi si sarebbe lamentato in fin dei conti? Fin lì era stato tutto così bello, certo con lei sarebbe stato perfetto, sì sarebbe mancata “Gigantic” ma la sua è un’assenza evidentemente giustificabile, l’altra no, non dopo averla attaccata. Comunque, provando a mettere da parte la delusione per questo finale, quello che si può dire è che questa band dal vivo goda ancora di ottima salute. L’istrionica voce di Black Francis ha ceduto qualcosa di molto vicino allo zero, i musicisti sono ancora in un grande stato di forma con una Lenchantin inseritasi perfettamente nel’anima di questo storico gruppo. Questi folletti sono stati dei giganti e lo sono ancora per quanto incredibilmente attuali suonino le loro composizioni, veramente una ventata d’aria fresca, ancora oggi, stupefacenti. Però, mio caro signor Charles Michael Kittridge Thompson IV, questo non la giustifica minimamente per quanto combinato nel finale, dunque sappia che personalmente, almeno per qualche giorno, non potrò fare a meno di odiarla.

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Toxic Love: riletture di brani di The Velvet Underground, Lou Reed e Nico

Written by Senza categoria

Angela Baraldi, Corrado Nuccini, Emanuele Reverberi propongono riletture di brani di The Velvet Underground, Lou Reed e Nico. Sogni infranti su stivali di pelle brillante, l’amore, il vizio, i bassifondi della Grande Mela, il tutto rivisto attraverso le canzoni che hanno segnato un’epoca, all’insegna del connubio tra ricerca musicale e sperimentazione. La storia dei Velvet Underground così come quella di Nico e Lou Reed è nota perché ha segnato il rock a venire ridefinendo i canoni di tutte le correnti musicali successive, dal punk alla new wave. Lo spettacolo rivisita i principali successi di questi artisti in una chiave contemporanea grazie alla voce di Angela Baraldi e alle musiche di Corrado Nuccini ed Emanuele Reverberi dei Giardini di Miro.

Sabato 7 Novembre Magazzino sul Po – Via Murazzi del Po lato sx – Torino (TO) – ore 22

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Patti Smith performs Horses 27/07/2015

Written by Live Report

Patti Smith performs Horses @ Flowers Festival Collegno (TO) – 27/07/2015

Vedere un concerto di lunedì sera è una pratica tanto inusuale quanto liberatoria. Rende più piacevole l’inizio settimana e meno noiosa la presenza pesante della domenica. Vedere poi uno dei più suggestivi concerti della tua vita dietro casa tua, in una cornice come quella del Flowers Festival, rende il tutto memorabile.
Ad aprire le danze ci pensa la giovanissima Erica Mou che da sola con la chitarra fa suonare un’orchestra mentre ci bacia, tanto per citare una delle sue dolci e soffici canzonette. Non c’è trucco e non c’è inganno, semplicemente Erica con la sua chitarra acustica crea ritmi e arpeggi, mixati egregiamente dal suo piedino sulla loop station. Coraggio e una vocina che sotto sotto ci grida in faccia tutte le sue emozioni.
Dopo il breve set della cantautrice pugliese aspettiamo appena mezz’ora e sul palco salgono quattro uomini canuti e una donna, più canuta di tutti loro. Il pubblico non è numerosissimo ma per Patti Smith e la sua band questo non è certo un buon motivo per abbassare la guardia e per non dare la giusta veste ad uno degli album fondamentali per la storia della musica popolare. I cavalli di quarant’anni fa ricominciano il loro cammino con “Gloria”: epica, teatrale, una preghiera al cielo stellato che ricopre il palco. Tutti fermi, tutti ammutoliti, a parlare ci pensa la Sacerdotessa (ora capisco perché viene comunemente chiamata così e mai appellativo fu più azzeccato). Jesus died for somebody’s sins but not mine, una sentenza di una potenza disarmante, già sentita miriadi di volte su disco, ma che dal vivo prende vita e pare fredda come una lama che trafigge la nostra pelle rilassata. Sarà un lunedì sera forte, intenso, magico, avvolgente come la tragica danza Reggae di “Redondo Beach”. I cavalli iniziano a galoppare dopo la solenne marcia di “Gloria”. Galoppano per scappare, per fuggire via dalle tenebre, per poi viaggiare in un’altra dimensione con la jazzaggiante “Birdland”. Parole e musica si fondono in un’eterna poesia che vaga tra le nostre orecchie. Il senso di smarrimento è forte, il senso di impotenza davanti a tanta bellezza è immenso. Patti ha quasi settant’anni e si dimena come una ragazzina che vive per i suoi ideali e per i suoi sogni, la sua lotta interminabile è pitturata poi da una band spaventosa. A comandare la ciurma un eccelso Lenny Kaye, da sempre insieme a Patti, capace di accarezzare e poi martoriare la chitarra che è, a seconda del mood del pezzo, il suo amore, la sua disgrazia ma anche il suo organo sessuale.
“Free Money” è violenza pura e grande Rock’n’Roll prima del lato B di Horses aperto con “Kimberly”, governata da un bel basso pulsante e di nuovo quel Reggae ossessivo . La voce di Patti è prepotente come quarant’ anni fa, una foga che ci spacca le orecchie. Sinceramente non saprei dire se ci sono state pecche tecniche, stecche, cali di voce o cazzate del genere. Quelle le posso sentire se il mio cervello è attivo e presente. Qui sono stato immerso in uno stato fuori dal razionale, la musica mi ha rapito e in questa dimensione nulla sembrava fuori posto. “Break It Up” è un inno alla libertà e la voce della signora Smith trema leggermente quando ci incoraggia ad aprire le braccia e sentire lo spirito di Jim Morrison che vaga nell’aria. La terra zozza e la polvere di stelle si amalgamano in “Land”, onirica e realista, tirata all’inverosimile. Dieci minuti di incastri ritmici, sali-scendi continui, passaggi che vanno dai richiami Soul di “Land of 1000 Dancers” alla furente parte di “La Mer(de)”, per finire nei cori disperati  di “Gloria”, ripresa con enfasi da un pubblico che è vero portento questa sera (per fortuna ho visto anche meno cellulari alzati del solito!). “Land” è un capolavoro e non si discute, qui i cavalli vanno a tutta velocità per poi rallentare increduli davanti a questo fiume di parole così ribelli e così fuori dagli schemi. Joey Dee Daugherty, altro storico compagno di Patti alla batteria, inventa ritmi e suona nervoso e dolce, con una versatilità che raramente ho incontrato. Per altro Joey si improvvisa pure bassista nell’ultima perla di Horses. “Elegie” è una canzonetta a detta della Sacerdotessa, dedicata a suo tempo a Jimi Hendrix. Ora, ci dice Patti, tutti noi abbiamo perso qualcuno di caro e con questo ci rende parte attiva della canzone, che nel mezzo regala un saluto ad altri grandi amici del mondo della musica, scomparsi anche loro il questi quarant’anni. E così sono applausi a scena aperta per Lou Reed, Joe Strummer, The Ramones al completo nella loro prima formazione e tantissimi altri miti della musica americana.

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Horses è concluso, i cavalli rallentano per poi fermarsi a guardare. E così l’ultima parte di concerto, che pensavo potesse avere il sapore di greatest hits, ci regala perle e non perde affatto il filo logico. “Privilege (Set Me Free)” sembra essere la continuazione di “Break It Up” con quella frase iniziale I see it all before me: the days of love and torment, the nights of rock’n’roll. Tanto Jim Morrison da farlo ricordare ancora una volta. Poi quella imprecazione: goddamn, così violenta e viscerale che gela la spina dorsale. Patti poi esce dal palco e la scena rimane sulla sua band che intona un medley dedicato ai Velvet Underground. Quarant’anni di Horses e cinquanta di Velvet Underground dice Lenny Kaye con il venticello di Collegno tra i capelli lunghi e bianchi. A cantare non solo lui ma anche Tony Shanahan e il figlio di Patti Jackson Smith, abilissimi anche nei numerosi cambi strumento durante il set. “Rock’n’Roll” è una pura sassata, la band poi si rilassa ma gli spigoli rimangono vivi in “I’m Waitin’ For The Man” cantata a squarciagola da tutto il  Flowers. In “White Light, Whit Heat” Patti risale sul palco a battere le mani e ballare, le star le lasciamo a casa questa sera, solo ottima musica e tanto, ma proprio tanto, da imparare.
“Because The Night” è commovente, delicata, dedicata al marito scomparso ormai vent’anni fa. La rabbia però ritorna nell’immensa voglia di ribellione di “People Have The Power”. Alla fine Patti intona “My Generation”, inno immortale che pende dalle sue labbra. Una canzone che farebbe ridere addosso a qualsiasi musicista vecchio. Ma lei no, la fa sua, la rende viva e vegeta. Rivive così lo spirito di Keith Moon e la Sacerdotessa onora un altro highlander del Rock come Pete Townshend. Intanto la signora, con un piglio tanto divertente quanto sadico, masturba la chitarra, staccandogli tutte le corde ad una ad una con precisione chirurgica.
La musica di Patti Smith è ancora bella e dannata, proprio come la sua New York, come i suoi vestiti eleganti ma in qualche modo Punk, come i suoi sputi sul palco, come i sorsi di thè e gli occhiali da vista indossati per leggere poesie sul palco, come i suoi occhi vecchi ma per niente stanchi e come il suo sorriso rassicurante. Fonte di gioia, di vita, di saggezza e di una voglia indescrivibile di libertà.

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Lana Del Rey – Ultraviolence

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Il sadcore hollywoodiano del suo sophomore è una dichiarazione d’intenti.
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gianCarlo Onorato / Cristiano Godano – Ex Live

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In breve: gianCarlo Onorato, musicista, pittore e scrittore, scrive un libro, un saggio sui generis che è una sorta di autobiografia attraverso istantanee fatte di musica e canzoni: “Ex – Semi di Musica Vivifica”. Il passo dalla penna alla chitarra è brevissimo, e presto Onorato si trova in giro per l’Italia a portare sui palchi un concerto/reading ispirato al suo libro, in compagnia di Cristiano Godano, cantante dei Marlene Kuntz, che lo affianca come un doppelganger dialogante. Ed ecco poi che il concerto si trasforma in disco, tutto registrato dal vivo nella data alla Latteria Artigianale Molloy di Brescia, nel dicembre 2013. Il disco è un esperimento interessante, che unisce in scaletta brani di Onorato e dei Marlene Kuntz, oltre a cover di pezzi di Lou Reed, Velvet Underground, Beck, Neil Young, Nick Cave,  il tutto inframmezzato da brevi reading tratti dal libro. La grande vittoria del duo è quella di riuscire a miscelare tutto senza troppi scossoni, complice un organico ridotto all’osso (oltre ai due cantanti, troviamo solo tre musicisti ad accompagnare con mano leggera il percorso, tra chitarre umide, pianoforti, percussioni varie, organi, batteria…). Il mood del disco è sommesso, sussurrato, tra scariche sensuali e malinconie tiepide, in una pasta che la registrazione dal vivo aiuta a rendere “vera”, perfetta nelle sue imperfezioni infinitesimali (scusate l’ossimoro). Le canzoni prendono forma nel buio, scintillano nella mani di Onorato e del suo doppio, che le rigirano, le accarezzano, le mangiano e le risputano sottovoce, ma se è un bisbiglio, è comunque carico, appassionante, cosciente (“Perfect Day”). I reading scivolano, alternando al loro interno passaggi più riusciti (l’iniziale “Non Già il Suono Organizzato”) a brani meno coerenti, ma non per questo privi di fascino (“Chitarra Fender Telecaster”) – e la voce di Onorato si presta con dolcezza alla narrazione e alla sua atmosfera.

Un disco da provare, per farsi un piccolo viaggio organizzato nel mondo interiore di gianCarlo Onorato. E ammettendo pure che questo viaggio non abbia un valore universale (potremmo discuterne), è pur sempre vero che il racconto ne esce solido, compatto e piacevole. E magari, alla fine, scoprirete di esserne più conquistati di quanto avreste pensato prima di ascoltarlo. Non sarebbe una sensazione bellissima?

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Seymour Hoffman, storia di una stella ai margini (e un saluto a “Freak” che ci ha lasciato troppo in fretta).

Written by Articoli

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Prendo spunto dal recente lutto nel mondo del cinema, la morte di Seymour Hoffman, premio oscar come miglior attore in A Sangue Freddo, trovato cadavere nel suo appartamento per un sovradosaggio di eroina tagliata male. La malattia della tossicodipendenza non fa distinzioni e porta via un grande del cinema, un padre, un immenso uomo. Nonostante l’eroina sia stata sdoganata negli anni 60 dalle più grandi rockstar, e qui un ricordo va al grande Mr. Lou Reed deceduto poco tempo fa, la roba continua a fare vittime e non solo tra gli emarginati. La storia del Rock è piena di junkies, non è un mistero; a molti rocker piace sballarsi. A volte anche a costo della vita, nonostante essa sia superficialmente grandiosa, abbagliante e luminosa. A dispetto di tutta la fama e i dischi venduti, di tutti gli affetti e le passioni c’è un sussurro nel cervello di un tossico, stella o stalla che tu sia, quel sussurro che ti vuole sepolto. La lista è lunghissima e qualcuno che ci ha lasciato le penne merita di essere ricordato; siano questi buoni o cattivi hanno lasciato un segno nella storia della Rock. Un pensiero a Kurt Cobain, Janis Joplin, Layne Staley, Sid Vicious, Tim Buckley, Jhon Baker Saunders, Dee Dee Ramone, tutti morti strafatti, mentre alcuni hanno dichiarato di utilizzarla o palesemente la utilizzano come Iggy Pop, Lou Reed, Dave Navarro, in pratica tutti i Red Hot Chili Peppers e anche John Lennon. Un’infinità di personalità dello spettacolo.

Forse uno dei motivi è che i rocker anni 60 ammiravano i musicisti Blues & Jazz venuti prima di loro e che usavano eroina. Le generazioni successive ammiravano quelle precedenti che a loro volta… Alla fine si è creato una sorta di gatto che si morde la coda, chi lo può dire. Oppure è solo tutto lo stress dovuto ai tour, agli spostamenti, le radio e televisioni sempre puntati addosso e per un rocker non c’è nulla di meglio che apparire come un cattivo ragazzo. Alcuni sostengono anche che aiuti la creatività e da questo la leggenda vuole che nacquero i Doors: “Se le porte della percezione venissero sgombrate / tutto apparirebbe all’uomo come in effetti è, infinito.” W. Blake. Qualunque sia il motivo, la dipendenza è una malattia intorno alla quale si fa molta confusione, aggravata dalle leggi che criminalizzano chi fa uso di sostanze. Io personalmente non penso che tutti questi attori e musicisti siano dei criminali e sto parlando solo di loro perché sono quelli che hanno un’ampia vita pubblica che a volte e ben volentieri sfocia nel privato. Criminalizzando non facciamo altro che allontanarci da loro. Siamo in un momento in cui i paesi più civilizzati si stanno rendendo conto che i divieti non funzionano e forse, in un certo senso, amplificano il fenomeno, perché producono criminalità organizzata, scarsa igiene, emarginazione, facendo piombare queste persone nelle peggiori condizioni immaginabili per cercare di opporre rimedio. Non c’è divieto che tenga a un tossico che si gratta la schiena.

La morte di Hoffman ci ricorda ancora una volta che la tossicodipendenza è una lama trasversale che indistintamente colpisce chi è stato emarginato a causa di una malattia, di un culto insano, di un vizio inutile. È stato trovato da solo nel suo appartamento, non un criminale ma uno dei migliori attori in circolazione, con la siringa nel braccio e la sua dose tagliata da un pusher senza scrupoli. La storia del Rock è piena di decessi causati da eccessi, dalla sensazione di solitudine prodotta dalla fama, dalla voglia di oltrepassare i limiti, dalla necessità di fuggire dalla realtà. Molti dei più grandi artisti, e non solo, del secolo scorso se ne sono andati per questi motivi lasciandoci la loro grande musica e parte dell’opinione pubblica li ha trattati da criminali, da fuorilegge. Nonostante non tutti avessero la forza di denunciare la propria degenerazione e chiedere aiuto. Il mondo, oggi, è a un punto di svolta contro la proibizione e ora tocca perdonarli tutti perché in fondo quello che abbiamo fatto è emarginare un problema che andava risolto.

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Lou Reed Brooklyn, 2 marzo 1942 – Long Island, 27 ottobre 2013

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“La vita è troppo breve per concentrarsi sul passato. Guardo piuttosto al futuro.”

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The Black Angels – Indigo Meadow

Written by Recensioni

Questi maledetti anni 60, fiori che sbocciano in teschi. Profumo di morte e fantasia. Rinascita e decadenza nel decennio più rigoglioso per la musica Pop. Semplicemente gli anni che meglio hanno rappresentato la libertà, il viaggio.

C’è da dire che in questo caso sarà del facile revival, musica già masticata e digerita più volte, ma The Black Angels da Austin confermano dopo qualche episodio così e così di aver finalmente trovato insieme al loro revival anche il loro sound decisivo. Certo è che i ragazzi sono scaltri a rubare i suoni graffianti da LP di altissima qualità. Saccheggiano il nome da una canzone del disco con la banana (“The Black Angel’s Death Song” è solo uno degli undici capolavori presenti in The Velvet Underground & Nico) e riprendono senza troppa remora gli svarioni più tossici e visionari di Ray Manzarek, le cavalcate dei Black Sabbath e, per non sembrare troppo ancorati alla comoda Psichedelia, aggiungono il nero dei The Cure e Jesus and The Mary Chain. In più conservano una fetida alitata del marcissimo Garage svarionante alla Black Rebel Motorcycle Club. Forse con questa carrellata di nomi più o meno affini potrei aver detto tutto. E invece no. I texani a questo giro confermano non solo di aver l’abilità di suonare moderni con le sonorità di cinquanta anni fa, ma anche di risultare accattivanti e (perché no?) melodici.

La batteria della bionda Stephanie Bailey ci proietta subito in un caleidoscopio ricco di colori e sfumature, dove tutto è visione e nulla è reale. Le tastiere calde e più che mai dal sapore vintage bene si intrecciano al resto del combo. Così la title track “Indigo Meadow” è un calcio verso un mondo magico e avvolgente, dal sapore di marijuana (o forse dovrei dire LSD?) e dai sensi rallentati. Parte “Evil Things” e il vortice continua ma con colori più scuri e verso sogni più tetri. Un inferno lento e doloroso, ecco la cavalcata di Ozzy e soci, dove la voce di Alex Mass pare distorcere da sola tutti gli altri strumenti. “Don’t Play With Guns” vince per armonie e melodie accattivanti e qui Lou Reed ritorna ragazzo, ringiovanisce la sua pelle e il suo spirito ritorna acerbo.

Il disco per fortuna conserva sempre quel senso di imprevedibilità grazie ai suoi incredibili sprazzi di genialità. Un esempio? Il feroce attacco del ritornello di “Love me Forever”. E qui a rivivere è niente meno che mister Jim Morrison. Il passato prova ad avere il sopravvento ma questa musica ribolle ora nel nostro stereo, pulsa e vive adesso. Un grande schiaffo a tutte le iperproduzioni e alle loro centinaia di futili e perfettine sovraincisioni.

Nonostante il senso di improvvisazione, tutto pare studiato per il nostro “viaggio”. I tredici brani dilatatissimi scorrono a passo lento, avvolgendo piano piano corpo e mente. L’arpeggio di “Always Maybe” è una ninna nanna maledetta e insistita, mentre “War on Holiday” sprigiona tutta l’energia spesso tenuta sapientemente al guinzaglio. La band arriva perfino a mischiare i sensi e ci invita ad ascoltare i colori del suo fantastico caleidoscopio (“I Hear Colors”) per poi chiudere con la ballabile e poppettara “You Are Mine” e con “Black Isn’t Black”, dove le vociecheggiano sempre più lontane fino a sfumare insieme al riff insistito, quasi a reintrodurci alla nostra stupida e monotona realtà.

Certo che bastano questi suoni profondi, questi rumori lunghi ed estenuanti. La sensazione nel finale è quella di uscire dal tunnel assuefatti e stonati. No non è un semplice viaggio nel tempo ma un trip visionario e delirante, senza stupefacenti. Una musica può fare.

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Alley

Written by Interviste

Sono i vincitori di AltrocheSanRemo Volume2. Sono gli Alley e avrete ascoltato i pezzi del loro ultimo lavoro sulla notra home. Sono cinque amici che hanno deciso di dare l’anima alla musica e vi chiedono solo di starli a sentire. Ecco l’intervista realizzata con gli Alley da Riccardo Merolli.

Bene, per iniziare fateci capire chi sono gli Alley…
Alley è un progetto che ho fondato io (Davide Chiari), assieme ai musicisti che ora suonano con me: Samuele Pedrazzani, Moreno Barbieri, Damiano Negrisoli e Giacomo Parisio. Il progetto è nato effettivamente quando in una notte ho composto il primo lavoro, “Nag Champa”. In quel momento ha cominciato ad esistere Alley, successivamente il tutto si è realizzato nei live e nella loro preparazione, quando gli amici che ho indicato precedentemente, hanno cominciato ad apprezzare e voler partecipare attivamente nel progetto. A seguito la formula si è ripetuta, anche stavolta funzionante nel secondo album “Tales from the Pizzeria”.

Come nasce la vostra musica?
La nostra musica e le parole sono composte principalmente da me (Davide Chiari) in entrambi gli album finora pubblicati e sarà così anche per i progetti futuri. Il miglior risultato è stato ottenuto lasciando per e durante le situazioni live, carta bianca a tutti gli amici/artisti con cui mi esibisco. Ognuno conosce i propri e gli altri limiti e sa come muoversi di conseguenza, seguendo la traccia principale della canzone, ma ogni volta cambiando rifiniture e addirittura carattere o genere dell’intera canzone. Insomma, ci si intende con gli occhi e si suona, divertendosi un sacco. Speriamo anche di divertire il pubblico.

Avete traguardi da raggiungere?
Tantissimi, anche se il principale traguardo resta quello di far che Alley divenga un mestiere di passione pura sia per me che per tutti nella band.

Quali difficoltà trovate nell’inserirvi nella musica italiana?
Molte, ad esempio il muro mediatico delle tv e dei giornali, che dà un’importanza “imbarazzante” alla musica-spazzatura. Esso costituisce un ostacolo che non solo ci toglie spazio (noi compresi) negli spazi di possibile divulgazione, ma ci toglie anche importanza artistica. Ciò che ci viene tolto finisce per portare più risalto a loro, ovvero gli “anti-artisti”. Noi lo vediamo direttamente dal numero di serate che vengono artisticamente preferite con dj o con coverband. Da menzionare anche le preferenze nei concorsi musicali in cui si suona, all’interno dei quali molto spesso, gli esiti sono già decisi.

Pensate che il sistema indipendente in Italia sia malato? Perché?
No, non penso sia troppo malato, anzi “capillare” ed “intrigante”. Piuttosto, data la crisi, si potrebbe definire in “pausa vegetativa”. C’è comunque un sacco di aria di ripresa.

Quale pubblico potrebbe cogliere in pieno il senso delle vostre creazioni?
Tutti coloro che possono cogliere e godere dei nostri rimandi stilistici. Solitamente le persone al di sopra dei 18 anni, quelle che ascoltano buona musica (hehehehe).

Cosa fareste pur di diventare “famosi”?
La fama non è una condizione che arriva istantaneamente, credo. Sputeremo sangue come tutti e ci si divertirà un sacco.

Avete degli idoli nei vostri ascolti personali che influenzano la vostra musica?
David Bowie, Led Zeppelin, Lou Reed, Pentangle, Electric Light Orchestra, Roxy Music, ecc. , comunque tanto Rock e Glam dei primi settanta.

Cosa odiate della musica italiana (artisti compresi, fuori i nomi!) e cosa invece amate?
Non ci sono degli artisti che odiamo del tutto, a parte Gigi D’Alessio e affinissimi. C’è chi apprezziamo più di altri, tra cui spicca Clem Sacco.

È importante e giusta la diffusione di musica su internet?
Importantissima e se si vuole, quasi completa di tutte le funzionalità di cui un artista dovrebbe disporre.

Cosa c’è nel futuro immediato degli Alley?
Un po’ di date sparse nel nord Italia, soprattutto nella zona di Brescia. E non è da escludere qualche uscita per l’estate.

Qualcosa che tenete a dire e che non vi è stato chiesto. Ditelo qui, sinceramente…
Samuele Pedrazzani, quello alto e biondo, ha davvero una barba così folta (…visto che non ce l’avete chiesto). Secondo noi è importante che la gente lo sappia. (hehehehe)

 

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