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Patton – C

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Formato nel 1994 in Belgio, il progetto Patton, composto dai fratelli Max Bodson (guitar, vocals, electronics) e Sam Bodson (drums, vocals, electronics) con l’aiuto di Philippe Koeune al basso non è certo band di sprovveduti ragazzetti alle prime armi, pur non vantando una produzione troppo vasta con soli due album alle spalle, lavori profondamente diversi tra loro soprattutto nel risultato. È il 1997 quando vede la luce l’esordio Love Boat (un ep) proprio con Philippe Koeune. Lavoro intimamente teso all’Elettronica e al Post Rock con liriche di stampo narrativo. Il primo lavoro sulla lunga distanza è però di circa tre anni dopo, Jr for “Jaune-Rouge”; opera che non avrà il merito di suscitare l’entusiasmo della critica ma che, comunque, farà lievitare, nei limiti del caso, l’attenzione attorno al nome Patton. Da qui, i due fratelli spostano nuovamente il loro campo di ricerca, stavolta nelle terre d’America, nel sound Blues di Mississippi John Hurt e Lead Belly puntando ad una evoluzione del genere verso territori tendenti ad un Folk sperimentale misto ad Hard Rock, sempre con la commistione di fattori elettronici. Il risultato è il loro piccolo capolavoro del 2009, Hellénique Chevaleresque Récital. Da qui si chiude la collaborazione con il bassista e si va verso l’album chiamato semplicemente C, oggetto della mia recensione. La tendenza strumentale/sperimentale viene portata agli estremi, le liriche (in diverse lingue e, nella timbrica, non troppo gradevoli) sfiorano il surrealismo e così le melodie da esse scaturite. Resta la voglia di creare brani che abbiamo il sapore del Rock vecchio stampo ma il risultato è decisamente oltre il passato, sia per la ricchezza dei suoni e degli stili (oltre ai già citati, si possono cogliere divagazioni Math, Prog e Post Rock come in “Mauve=Blanc”) e sia per il risultato non solo molto ambizioso e complesso ma anche di non facile ascolto. Un lavoro che a volte diventa fin troppo pretenzioso e manieristico ma che nasconde perle di una bellezza inaudita (“Dead Flies Song”) specie per la naturalezza con la quale unisce strumentale ed elettronica. La grandezza e la mediocrità stessa di C stanno tutte qui; tanta ambizione e voglia di stupire che alternativamente ci lasciano a bocca aperta, a tratti per noia, a tratti perché sanno come farci sognare

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El Bastardo – Wood & Steel

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C’è crisi (non solo economica, pare). E nei momenti di crisi siamo tentati di ritrovare l’equilibrio attraverso un riassestamento: riscopriamo le nostre radici, le nostre storie, ci rifugiamo nella sicurezza del passato, nei suoi modi, nei suoi miti, nei suoi codici. Riallineiamo il nostro orizzonte piantando al centro del nostro campo visivo un axis mundi fatto di storie già sentite, e per questo leggendarie, naturali, sempiterne. C’è crisi, ed ecco quindi tornare in auge il revival della musica popolare americana, quella vera, Blues, Folk, Country, fatta di chitarre resofoniche, banjo, kazoo, armoniche a bocca, registrata come ai bei tempi, in presa diretta, naturalmente, in valli e campagne: una musica semplice, come una volta, per farci sentire a casa.
Fa parte di questo revival anche l’ultimo disco di El Bastardo, one man band torinese che (da tempi non sospetti, è importante sottolineare) bazzica questo ambiente roots, e che decide di regalarci, in Wood & Steel(questo il titolo, che ha già un certo sapore nostalgico) nove tracce di Blues, Folk, Country dimesso e sincero, onesto e lineare, “registrato col cuore e l’attrezzatura minima indispensabile in mezzo ai cinghiali e boschi della Valsusa”.

Le canzoni sono classiche, ben radicate nel terreno dalle quali provengono. Ci sono quelle malinconiche (“Waiting For”, banjo e voce contrita, o l’arpeggiata “Growing Alone And Fighting”), ci sono quelle più ritmiche e scanzonate (“Boogie Woogie Dance”, sporca e zoppicante, “Friendship is a Fuckin’ Business”, che sembra mostrarsi più ironica), ci sono un paio di cover ( “Out on The Western Plain”, portata al successo da Rory Gallagher – l’originale è di Lead Belly –, “Hit The Road Jack” di Percy Mayfield – conosciuta ai più nella versione di Ray Charles –, e il classicone d’inizio secolo scorso “The Entertainer” di Scott Joplin).
Non è un brutto disco, Wood & Steel, ma a El Bastardo probabilmente mancano la personalità e la bravura tecnica necessarie per sostenere (su disco, perlomeno) tutto questo peso sulle sue sole spalle. Non si viene rapiti da nessun virtuosismo, né si rimane incantati dalla sua voce o dal suo tocco, che forse non sono particolari quanto servirebbe. Non che El Bastardo non sia capace o non conosca ciò di cui si sta occupando, anzi: ma in queste nove canzoni non riesce a far affiorare la sua specificità, il suo valore aggiunto.

Come spesso mi accade quando ascolto dischi di questo tipo, mi risulta sempre molto piacevole la sensazione di genuinità, onestà e sincerità di chi si lancia in operazioni del genere. Spesso, però, purtroppo, ci si ferma lì. Ed è un peccato.

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