Kubark Tag Archive

Fractal Reverb – How to Overcome the Ego Mind

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Scoperti per caso, i lodigiani Fractal Reverb hanno saputo stupirmi con il loro demo homemade How to Overcome the Ego Mind, un disco di nove tracce di varia origine (home studio, prove live, unplugged, ecc.) che raccoglie alcune canzoni del trio in attesa del loro esordio sulla lunga distanza. I Fractal Reverb mettono insieme in modo molto fresco e incauto un mood Grunge, lineare e ruvido, e strutture Math Rock dai tempi spezzati e dai minutaggi infiniti, con un gusto Post Rock nel riempire i vuoti con effetti ossessivi e chitarre precise e frizzanti, sempre nel punto giusto, con un’attenzione curata alle dinamiche e ai movimenti onirici à la Tool, sebbene con molta più melodia, cosa che li rende potenzialmente accessibili anche alle orecchie più sensibili. Gli arrangiamenti sono sorprendentemente attenti agli incroci tra gli strumenti (il basso è usato in modo semplice ma arguto, la chitarra, già si diceva, è sempre nel posto giusto, la batteria non esagera in complicati virtuosismi ma sa ritagliarsi il suo spazio con facilità). Il tutto condito con una voce femminile che però non è eccessivamente delicata, e che quando è effettata e bagnata di riverberi e delay accompagna gli strumenti senza distogliere dall’atmosfera cupa e psichedelica dei brani.

Arriviamo ai lati negativi del lavoro: la parte tecnica è senza dubbio da migliorare, ma ricordiamoci che si tratta di un demo, con tracce dalle origini più disparate. Al di là del sound della registrazione, si notano comunque sbavature e ingenuità, dall’errore d’entrata della batteria alla voce non sempre al massimo dell’intenzione, dai suoni di chitarra che possono essere migliorati a strutture che possono essere asciugate o comunque affilate, trasformando le canzoni, dai patchwork che sono ora, in opere magre, taglienti, che non lascino via di scampo, magari abbandonando le atmosfere più propriamente grungy (“Dystonic Wave”) per più folli (e interessanti) cavalcate oscure e penetranti alla Kubark (“Spleen”, “Natural Sounds”).

Insomma, c’è tanto da aggiustare e da calibrare nel lavoro dei Fractal Reverb, ma mi pare di sentire in sottofondo un’anima luminosa, un guizzo di gusto che non lascia indifferenti, e che, con il giusto sforzo, potrebbe portare la band in direzioni molto, molto interessanti. Sono dell’idea che band del genere, band dove si può indovinare qualcosa di più oltre l’errore tecnico o la resa sonora, siano band da supportare, non alla cieca, ma spronandole a levarsi di dosso le sporcizie dell’immaturità per levigarsi la pelle alla ricerca dello splendore sotterraneo che, forse, nascondono. I Fractal Reverb sono una scommessa, dipende da loro quanto vincente. Io aspetto, con curiosità e un po’ d’apprensione, la loro prossima fatica.

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King Suffy Generator – The Fifth State

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Dopo il Quarto Stato arriva il Quinto. I King Suffy Generator, ispirati dalle opere del pittore e scultore Giorgio Da Valeggia, ne fanno un concept-album, strumentale, sul processo che ha portato l’uomo ad essere vittima della stessa società che aveva in passato cercato di cambiare. Da forza motrice a ingranaggio muto.

Il disco si apre con “Derailed Dreams”, tra chitarre e basso pulsanti, melodie imprevedibili, ritmiche ossessive, fino all’apertura del finale. Si prosegue con “Short Term Vision”, dalle parti dei God Is An Astronaut più intensi, o come una versione meno graffiante dei Kubark: arpeggi circolari, pulsazioni zoppicanti e atmosfere ariose, con in coda un finale perfetto, che s’inchioda nella mente con sorprendente facilità. “Rough Souls”, basata su appoggi di synth su sfondo noise, è nient’altro che una decompressione intermedia che ci porta a “Relieve The Burden”, acida e pungente, dove le chitarre predominano, alte e frizzanti, a scalare su e giù per la tastiera in riff inquieti, infestanti, e inserti ruvidi – la lezione della Psichedelia sixties viene assimilata e rielaborata attraverso il prisma del Post-Rock anni 90. Col piede si tiene il ritmo, con la testa si viaggia lontano. Il finale viene lasciato ad una coda di pianoforte e voci distanti: una nota malinconica prima dell’uno-due finale.

“We Used to Talk About Emancipation” parte con un solido impianto ritmico, furioso e asimmetrico, e finisce riprendendo l’atmosfera, incattivendola, della chiusura di “Short Term Vision”, in un corto-circuito che provoca un interessante deja vù;mentre “Tomorrow We Shall See” mantiene alta la carica energetica degli ultimi due brani e la porta in situazioni ritmiche prima ondeggianti poi martellanti, con le distorsioni delle chitarre che premono contro basso e batteria, aprendosi qua e là in scoppi o distensioni improvvise che spezzano la continuità del brano, facendolo diventare una piacevole corsa ad ostacoli che non perde però in naturalezza. Verso la fine si rallenta e si prende un bel respiro: la sensazione è quella della camminata gonfia d’ossigeno dopo lo scatto feroce per arrivare al traguardo. The Fifth State è un ottimo album di musica strumentale: Post-Rock energico, abbastanza orecchiabile, psichedelico, atmosferico. Ai King Suffy Generator manca solo qualcosa che possa rendere più personale la loro opera. Detto questo, il disco ha senza dubbio tutte le carte in regola per poterlo consigliare, senza scrupolo alcuno, a tutti gli amanti del genere.

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Kubark, guarda il video di “The DownGrade Session”

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Il progetto Kubark nasce da band immense come Tool, Isis, A Perfect Circle e Russian Circles, ma ha fatto del trovare una sua identità, unica e personale, il proprio vanto e la propria missione. Dopo la pubblicazione (con relativo tour) di Ulysses, ep del 2011 che ha riscosso un ottimo successo e recensioni lusinghiere, il quartetto propone qualcosa di nuovo. E’ appena stata pubblicata “The DownGrade Session” : l’idea era quella di chiudersi in una casa, registrare un paio di brani live inedtiti e con l’ausilio di una telecamera immortalare il tutto. Eccone l’esito, un connubio di Post Rock e Alternative fatto di atmosfere rarefatte e miscelato a sezioni dense e opprimenti.

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Kubark | Ulysses

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Questi sono una vera  rivelazione, proprio loro i Kubark, un quartetto dedito ad un Rock sperimentale che miscela Stoner ed Elettronica. Marco, Elia, Enrico e Federico si fanno sentire con “Ulysses”,il nuovissimo disco intitolato cosi perché nel profondo dell’ anima i ragazzi con e per la loro quotidianità, un po’ come tutti noi, si sentono degli eroi. Un paragone giusto che dovremo sentire tutti  proprio per le continue sfide che ci attendono nei nostri giorni.  Ma veniamo adesso a “Ulysses”, un disco di una certa qualità, registrato e mixato ai Factory Studio da Cristiano Sanzeri e lavorato nei minimi dettagli, un lavoro pieno di enfasi detto francamente.  Anche se il platter contiene solo cinque tracce, queste sono riuscite a dare abbastanza elementi per tirare le somme, tra l’ altro positive. Io personalmente all’ ascolto del disco ho immaginato di essere in mezzo ad uno degli isolati di New York, non ci sono mai stato nella famosissima ed attraente metropoli, ma questo disco mi ha dato questa sensazione, un po’ cupa e un po’ selvaggia; ma questa è soltanto una parte del mio ritratto, perché il disco in se ragione sul concetto di “gente” ed “anonimato”, come specifica il gruppo, e dunque sul cambiamento e la metamorfosi dell’ umanità . Una piccola nota di merito va anche all’ artwork, influente e suggestivo come pochi . Difficile affermare una traccia migliore dell’ altra, tutte e cinque hanno qualcosa da dire, posso però dire che quelle che mi hanno coinvolto di più sono “Ainsoph” e la conclusiva “VIXI”.  I Kubark sono un gruppo con grandi doti e potenzialità, hanno le carte in regola per sfondare, non resta che dargli fiducia e contare su di loro.

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