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Mudhoney – Vanishing Point

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In molti si credeva che fossero spariti inghiottiti con i panni addosso nel baratro finale del grunge, in quel di Seattle, magari divorati dalla stessa loro febbre tagliente, se non addirittura liofilizzati per voglie inespresse di roba scottante da tirar fuori nei momenti di nostalgia profonda, come quelle fami compulsive che prendono a notte fonda, invece, con un colpo di coda che arriva dopo un lungo silenzio, i Mudhoney si risvegliano e Vanishing Point è il loro nuovo e ritrovato ruggito, anche se un po’ dimesso.

Hanno resistito alle slavine – appunto – Seattleiane, e non sentono gli anni addosso – loro – ma li sentiamo noi all’ascolto, infatti la carica  della “differenza” appare leggermente moscia e glabra dei peli urticanti dei quali la band americana andava fiera, certo rimangono sempre una icona di muscoli, cuore e cervello “andato”,  il loro spunto isterico di rock’n’roll è brutto, sporco e cattivo – come nella pubblicità – ma ascoltando questo nuovo lavoro, di nuovo pare avere pochissimo, tutto risuona di risentito e di movimenti vicini all’anchilosaggine  che non ne fanno più eroi onnipotenti di potenza; dieci tracce che conservano sotto sotto il respiro elettrico e forsennato di Stooges e Black Flag “Slipping”, “I Like it Small”, “In This Rubber Tomb”, ad ogni modo sempre col passo dell’Iguana Iggy che si palesa vunque, a domicilio coatto in tutta la tracklist, ma la testardaggine della band è tanta e credono in quello che fanno e che hanno sempre fatto, forse un’autoindulgenza ma rimane la sensazione netta di un qualcosa che si sta esaurendo vertiginosamente.

Dopo il melanconico omaggio “Sing This Song of Joy” per la scomparsa di Andy Kotowicz (Sub Pop), il rimanente in circolazione è una componente sonora di riff compressi, cantati svenati e ritmiche convulse che riportano solo indietro, pressappoco un operazione nostalgia in offerta speciale che passa senza la minima apparenza di interesse, e ciò – con tutto il rispetto che si deve ad una formazione seminale come poche –  dispiace enormemente,  e sull’onda di una delusione si potrebbe salvare a bordo campo l’ondulamento beat che agita “The Final Course” o la forsennata turbolenza che avvelena “Douchebags On Parade”, ma giusto per salvare l’onore della causa.

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“Diamanti Vintage” Iggy Pop – Lust for life

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E’ proprio vero, nei moment peggiori della vita, avere nel circondario un amico che ti può tendere più che una mano oltre che far comodo, è  un miracolo dal quale devi rendere conto finche i tuoi piedi calcheranno vivi questa terra, e l’Iguana Iggy se ne ricorderà per tutti gli anni a venire. Il miracolo di cui sopra si chiama Bowie, amico da tempo di Iggy Pop, quest’ultimo drogato fradicio e in uno stato depressivo cianotico per via dell’assenza (da due anni) dei suoi sodali Stooges, allontanatisi per incongruenze e dissapori con lui stesso, e Bowie, colto da pietà artistica lo invita nel suo regno inglese e  – dopo non poche storie –  riesce a farlo contrattizzare in seno alla casa discografica Virgin.

Bowie in quel periodo era già attivo con lo stupendo album Heroes ed in pochissimo tempo scrisse quasi tutti gli arrangiamenti, le musiche e timbriche per l’album dell’amico mentre James Newell Osterberg Jr. (questo il vero nome di Pop) ne scrive i testi e le metafore bollenti in quello che sarà per la storia del rock, il caposaldo e faro per una marea infinita di band a venire; “Lust For Life” è il disco della rinascita personale dell’artista di Muskegon, il disco scuola del rock universale, la colonna sonora di una generazione di strapazzati e ai limits del bad thing lussurioso, tracce suonate dal fior fiore di musicisti che Bowie assoldò per l’occasione quali, oltre a Bowie stesso al piano, Carlos Alomar e Rick Gardiner alle chitarre ed i fratelli Sales alle percussioni, ed il resto è pura cronaca di storia.

Disco di blues sguagliato e tenace  matrice garage che riemerge come sangue bollente; chi non si è mai eccitato o se ne è andato in giro fumatissimo con negli orecchi con le celeberrime “cattive compagnie sonore” di “Lust for life”, “Sixsteen”, la dinoccolata “The passenger”, tutto l’ìimpossibile di droghe, alcool e sesso depravato che scorrono in “Tonight” e nel blues sbavato di “Turn blue” o fatto l’amore con la ragazza del momento mentre sullo stereo scorreva la deviante “Fall in love with me”? Chiunque vedeva e vede in Iggy Pop l’arma ed il corpo contundente fatto uomo che – per antonomasia –  il rock abbia mai creato, e questo fulminante disco non era altro che il primo gradino della rinascita di un artista che ancora oggi – a distanza di anni ed anni – incute rispetto e fa architrave dell “ascolto grande”

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