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Psycho Killer – Dead City Life

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Del buon sano rock! Ecco, proprio questo ho pensato mentre ascoltavo Dead City Life, il primo album dei torinesi Psycho Killer. Gli Psycho Killer sono Enrico (voce, chitarra), Riccardo (basso, cori), Alessio (Batteria, voce) e  anche se si sono formati relativamente da poco (primi mesi del 2013), i tre componenti si conoscono bene poiché hanno fatto tutti parte degli ormai sciolti Hollywood Noise, band che ha infuocato le notti del capoluogo piemontese e che si è fatta conoscere al grande pubblico grazie all’apparizione televisiva su Rock Tv e ai loro due album More than your Mouth Can Swallow (2010) e More than your Mouth Can Swallow II (2012). Il loro è uno stile ispirato principalmente alla scena Hard Rock americana sviluppatasi a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, caratterizzata da chitarre costantemente distorte e ruvide supportate da una linea ritmica basso-batteria decisa e martellante.

Come già detto, i tre componenti  arrivano  da esperienze precedenti a questa e il loro affiatamento nell’esecuzione dei brani è evidente in ogni singolo passaggio, l’intensità e l’energia che ne viene fuori rientra nella più tipica tradizione del Rock di concedersi al massimo, fino all’ultima goccia di sudore. Questa loro invidiabile genuinità Rock è altresì un difetto che mina tutte le tracce dell’album a livello compositivo. Non c’è nessuna canzone che spicchi per originalità o per completezza, si limitano tutte a rispettare i canoni stilistici del genere e non c’è nessun elemento che li identifichi o che li differenzi dall’immensa schiera di band simili presenti in tutto il pianeta. Sembra  un’operazione  di emulazione delle band di quel glorioso periodo e nulla di più. Non è un caso che tutto l’album sia cantato in inglese, che non deve essere per forza un elemento screditante, ma è piuttosto l’interpretazione delle canzoni che risulta  troppo impostata nella voce alla ricerca di uno slang forzato per nulla naturale.

Dead City Life è un buon esordio e promette per il futuro, e poi non sono certo io quello che deve consigliare di insistere, c’è un gruppo abbastanza famoso  che dice appunto it’s a long way to the top… giusto?

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Inside the Hole – Impressions

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Dopo i Four Seasons One Day torno ad occuparmi di un’altra band siciliana, localizzata, per la precisione, a Montemaggiore Belsito, nell’hinterland palermitano, interprete di un genere completamente differente dai loro conterranei: gli Inside the Hole, difatti, sciorinano un Hard Rock molto curato negli arrangiamenti che mostra un’accentuata passione per il Blues, ardente nel cuore dei tre ragazzi. Superata la consueta gavetta, fecero uscire il loro primo album Beer! Sex!…and Fuckin’ Roll nel Novembre 2011 e apparvero in ben tre compilation nel solo 2012: Riot On Sunset Vol. 29, Mondo Metal Compilation e Demo Invasion, le quali, vista l’ampia distribuzione, attirarono l’attenzione della logic(il)logic. Impressions è un lavoro più maturo rispetto all’esordio, ci sono tutti gli stilemi che il genere richiede: assoli intensi, una sezione ritmica impeccabile e una voce sporca ma al contempo poderosa e profonda. I testi, neanche a dirlo, toccano qualsiasi cliché facilmente associabile all’Hard ‘n’ Blues: bevute, ragazze sexy e spiriti liberi. Niente di originale all’orizzonte, almeno su questo versante. Non che musicalmente si arrivi all’apice dell’originalità in quattro e quattr’otto: responsabilità attribuibile a un genere saturo, per lo più rivolto ai suoi numerosi aficionados. L’episodio meglio riuscito è a mio avviso “Beer! Sex!…And Fuckin’Roll” dove finalmente si rompono gli schemi, rasentando l’Hard venato dal Metal dei Motörhead. Subito dopo, però, si conclude il disco con la canzone più Blues del lotto, “Begins The Blues”, che ha l’amaro sapore del riempitivo e anche un po’ del ripensamento. Viste le doti tecniche messe in evidenza dal trio siciliano mi aspettavo di certo una capacità maggiore di coinvolgere l’ascoltatore. Il desiderio di strafare assume i connotati di un’occasione sprecata. Peccato.

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7Years – Psychosomatic

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Non è semplice fare qualcosa di nuovo nel panorama musicale nostrano e non solo. Spesso sembra che tutto sia stato detto, spesso non si hanno i mezzi tecnici per andare oltre, spesso si manca di creatività o ci si accontenta di suonare qualcosa che piaccia senza chiedersi se possa piacere ad altri o se possa aggiungere qualcosa a quanto tanti hanno già detto prima di noi. E quest’ultimo punto sembra riguardare i 7Years che si sono coraggiosamente autoprodotti il loro Psychosomatic, disco di tredici tracce e tanta energia, che fin da subito si colloca a gamba tesa in un genere più che quotato, il Punk Rock, e non si schioda mai da lì se non, in parte, sull’ultima traccia.

“Run Away” apre le danze (o meglio il pogo): super tiro, cazzutissimo un po’ alla Backyard Babies, vien subito da chiedersi come dev’essere un concerto di questi ragazzi. Segue “Kill me Now” e neanche mi ero accorta che avessero cambiato traccia, grossa pecca, che già dovrebbe far riflettere sul poco margine che il genere lascia tra i suoi stilemi e sulla poca personalizzazione dello stesso da parte della band. “Breeding Grounds” è velocissima, tiratissima e sempre portata avanti: sicuramente molto bravi dal punto di vista tecnico, sarebbe facile a questa velocità tirare indietro i pezzi e perdere gradatamente di tensione e invece non mollano mai la presa. “Drown” è più ariosa e orecchiabile, con un bel riff alla Hardcore Superstar, “Still Lake” suona iper iper americana, mentre la title track “Pychosomatic” è caratterizzata da un palm muting delle chitarre che si alterna ad accordi pieni e giochi di voci, a tratti con qualche reminescenza dei Soundgarden di Superunknown. Quando si arriva a “Just You and I” bisogna proprio riconoscere che non hanno smesso un secondo di tirare mitragliate di note senza sbavature e incertezze, pur tra tutti i cliché del genere, che alla lunga possono annoiare chi non è proprio uno sfegatato cultore. “A Reason to Smile” è ben fatta, sicuramente, e dal vivo probabilmente rende molto di più che in studio; “Sons of a Beach” bel riff che gioca sulla modalità, ma il discorso resta: ormai abbiamo capito tutto dei 7Years e non c’è più niente da scoprire già da qualche traccia. “Never Alone” inizia con una voce registrata, un dialogo tra una madre e un bambino piccolo, e poi parte durissima, cattivissima e distortissima, quasi accelerata per tutta la strofa. “Remove” prosegue sulla falsa riga della precedente, mentre in “Animals” c’è la registrazione dell’intervento di Silvio Berlusconi sulla bandiera americana, in cui sfodera un inglese più che maccheronico. “Faith” ha un intro stranamente diverso da tutto il resto del disco, sonorità molto più meditate e atmosfere ariose e aperte, che, naturalmente, cedono subito il passo alla distorsione e all’energia, questa volta più in stile Foo Fighters.

I 7Years sono dotatissimi dal punto di vista tecnico e sguazzano ormai nel loro genere, padroneggiandone bene tutti i tratti stilistici caratterizzanti. L’augurio è di non accontentarsi e sapere andare oltre, chiedendosi cosa possono aggiungere di proprio e trovando una dimensione più personale. In bocca al lupo.

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Pontiak – Innocence

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C’è una musica che si suona con la parte più profonda del nostro subconscio, una musica che rigetta il calcolo, lo studio, la pianificazione, ma che è espressione di un’ansia, di un bisogno, di una necessità. È una musica da suonare di getto, da ascoltare a volumi elevati, che altera la coscienza e le percezioni, che ci sfida a seguirla per sentieri tortuosi scavati da sinapsi libere da costrizioni. Ed è la musica che ci schiaffeggia all’apertura di questo Innocence dei Pontiak: tre brani in fila come ganci di pugile, tra stonerismi e Garage Rock lo-fi, con chitarre-trapani, riffoni Hard Rock, suoni di batteria sporchi e confusi, voci al limite dell’intonazione e ritmi da lento ondeggiare sconvolti in locali che puzzano di birra e urina (“Innocence”, “Lack Lustre Rush”, “Ghosts”). La partenza fa ben sperare: mi convinco che questi tre fratelli cresciuti a Blue Ridge Mountain, Virginia, siano nuovi alfieri della Neopsichedelia, d’altronde sono loro ad ammettere di non aver mai studiato niente, di aver suonato pochissimo al di fuori del loro “trio di famiglia” e di essersi scelti per una questione di immediatezza, di profonda conoscenza reciproca.

Poi parte “It’s the Greatest” e penso sia una pubblicità di Spotify (avete presente?): un organo e poche chitarre, a creare un tappeto che, con la batteria, si inoltra in un mondo più molle e molto più orecchiabile, con riff di chitarra semplici e diretti e una voce parecchio lineare. Non un brutto brano, ma qualcosa che, finita la tripletta iniziale, non ci saremmo mai aspettati. A questo punto temo per il proseguimento del disco: e infatti, con “Noble Heads” arrivano chitarre acustiche da gruppetto Neo Folk e un andamento più Country, e l’unica cosa che ci salva sono le chitarre, gonfie, frementi, che appaiono qua e là a sottolineare l’avanzamento del brano. Aspetto con ansia il momento del ritorno all’energia e all’impatto iniziale, ma sembrano non arrivare mai: “Wildfires” è ancora più Indie, con chitarre acustiche acide e voci lamentose in primo piano, stemperate solo dal mare di cimbali che appare sul refrain. E poi ecco, “Surrounded by Diamonds”: e tornano i fuzzoni, le chitarre iper-compresse, l’andamento ondeggiante, tra i Black Sabbath e una versione meno Metal e più Indie dei Kyuss. Sono un amante dei gruppi che riescono a variare nei dischi, senza fare album con dieci volte la stessa canzone: ma mi chiedo come faranno i Pontiak a portare dal vivo un album del genere, che continua nell’elettricità con “Beings of the Rarest”, batteria torturata e feedback, voce sopra le righe e distorsioni dalle unghie lunghissime. Sembra che i tre brani più morbidi fossero solo una pausa per poi tornare a saturare l’aria con la vibrazioni frementi di un’urgenza molto, molto più palpabile (vedi l’assolo sanguigno che chiude quest’ultimo brano).

Con “Shining” si rimane su questo livello, rumori e pressione sonora che si svuotano in strofe più Indie, con in generale un impianto leggermente più contenuto, uno stile che mi ricorda le raccolte Nuggets sulle band psichedeliche degli anni 60. Il finale improvviso ci stoppa brutale e ci consegna gli ultimi due pezzi del disco: “Darkness Is Coming”, una ballata dalla voce echeggiante di slap delay, chitarre acustiche lontane, e maree di elettriche che spuntano qua e là, in un classico istantaneo, una canzone che potrebbe essere stata scritta trenta o più anni fa; e poi la chiusura con “We’ve Got It Wrong”, satura e ritmica, con qualcosa di britannico nella melodia del ritornello, dal tono ironico e scanzonato.  Insomma, i Pontiak hanno saputo sorprendermi, confezionando un album intenso, di acida e psichedelica follia elettrica ma mai veramente violento, infilandoci dentro tre o quattro episodi di rilassatezza e orecchiabilità Indie, con un salto estremamente acrobatico ma che, qualche ascolto dopo, può anche avere il suo senso. I tre fratelli Carney sanno tessere inni al qui e ora con naturalezza, senza troppa teoria, mantenendo vivo e vibrante solo l’essenziale (brani brevi, dalle strutture ridotte all’osso, e chiusure tagliate con l’accetta). Innocence è senza dubbio un disco da provare se si è alla ricerca di un mix killer di Psichedelia vecchio stile, riffoni fuzz, impianto lo-fi e saltuarie immersioni in balsamo uditivo per calmare i peduncoli auricolari. Per farne un disco inappuntabile si doveva “progettarlo” un po’ di più: ma senza quest’immediatezza così brutale non sarebbero stati i Pontiak.

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White Mosquito – Il Potere e la sua Signora

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La seconda prova dei genovesi White Mosquito si apre (“Candido”) con esigue note spirituali, tenui, estatiche che lasciano presagire ambientazioni cosmiche e psichedeliche molto retrò, ma già con l’ingresso autoritario (“Solite Parole”) di sezione ritmica, voce e taglienti sferzate elettriche sono messi sul piatto ingredienti acidi e possenti anch’essi molto stagionati ma con uno spirito certo più battagliero di una semplice lisergia introspettiva. Sia nei testi, sia in timbrica e impostazione la voce di Sergio Antonazzo si mostra in tutta la sua aitante bellezza che permette di varcare confini dell’irriverenza beffarda, molto teatralmente Progressive, ma anche di sterzare insolentemente verso territori più aspri, indemoniati e rabbiosi. L’opening track, esclusa l’intro, è un sensazionale manifesto per la band, che racchiude in poco più di cinque minuti tutta una serie di prerogative e caratteristiche che poi contraddistingueranno tutta l’opera.

L’ascolto di questo Il Potere e la sua Signora è anche la chiave di lettura per comprendere pienamente il perché, dopo l’Ep d’esordio 20 Grammi, i White Mosquito abbiano potuto aprire una delle date live dei Deep Purple. Proprio la band di Ian Gillan pare uno dei punti di riferimento più evidenti ma non mancano certo paragoni sia con l’Hard Rock tendente al Folk/Blues con sottigliezze in stile Led Zeppelin (“Dimmi”) e sia con quello più robusto alla maniera degli australiani Ac/Dc (“Demone”). Eppure anche la tradizione italiana più datata di scuola Litfiba (“Forme”, “Non Smetto”) come la più attuale aperta dagli Afterhours (“Stato Confusionale”) è omaggiata in quanto a stile e forma espressiva e la stessa scelta di accompagnare con la lingua nostrana un sound tanto anglosassone è sintomo della necessità per i liguri di legarsi alla propria terra, in qualche modo cantandone le contaminazioni, la storia e il presente.

Quella lisergia e quelle ritmiche ripetitive che paiono elevare un muro sonico nello stile dei Pink Floyd più istrionici si ripresentano con la traccia numero quattro (“Manifesto”) nella quale, oltretutto, la vocalità di Antonazzo può sbizzarrirsi scivolando di volta in volta in meandri poetici e colleriche sfuriate che si chiudono con un inquietante fischiettio che richiama un noto motivo che non vi svelo, anzi vi sfido a riconoscere. Un intermezzo giocoso (“Anche Qst è Rocchenroll”) dalla difficile interpretazione apre la parte finale del disco che talvolta (“In Faccia”) nasconde delle miscele tra un moderno Alt Rock e un più classico Progressive, racchiudendo delle infinite possibilità per un genere forse messo nel cassetto con troppa solerzia. Se “Le Solite Parole” suona come un programma che evidenzi le qualità di Il Potere e la sua Signora, al contrario “Nuvola” ne mostra i limiti. I White Mosquito azzardano un testo aggressivo che sfocia nell’inverosimile, propongono un’effettistica e cenni di sperimentazione che restano solo degli abbozzi di qualcosa che sarebbe potuto essere, ma non è. Caricano le materie di veleno ma non riescono a suonare con la stessa veemenza, forse troppo attenti a non oltrepassare i limiti.

Un album di pregevole fattura quanto ad esecuzione e pieno anche di buone idee. Un disco che, per quanto peschi a piene mani dal passato, riesce a non suonare vecchio lasciando intravedere alcuni spunti potenzialmente affascinanti. I White Mosquito scelgono la strada più difficile per non apparire obsoleti, la strada più difficile per suonare originali e per farsi apprezzare dai più giovani ma dimostrano anche di avere i mezzi per scavare nuove vie di fuga dagli anni andati. Magari iniziando dalla stupefacente, per versatilità, voce di Sergio Antonazzo. Per quanto di pregio palese non avremmo avuto bisogno di un album come Il Potere e la sua Signora ma potremmo avere bisogno di band come i White Mosquito.

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Aa. Vv. – Streetambula

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Streetambula è la compilation, di ben 20 pezzi in due dischi, che è stata prodotta in seguito all’ottima riuscita del concorso omonimo, svoltosi l’estate scorsa a Pratola Peligna (AQ). Prepariamoci quindi ad una carrellata dei brani presenti nei due dischi della compilation: due canzoni per gruppo più alcuni extra affidati ai De Rapage, vincitori del concorso.  Aprono le danze The Old School, che, come da nome, regalano una ballabilissima “Rock’n’Roll All The Night” da vera vecchia scuola, sorprendentemente solida e frizzante. Nulla di nuovo, ma di certo un Rock’n’Roll che sta in piedi e che avrà fatto agitare una buona fetta di pubblico. Ci spostiamo in zone più raccolte con “Gloom” de A L’Aube Fluorescente, che invece, a dispetto del nome altisonante, si buttano su un Rock alternativo lineare e molto inglese, anche piacevole se vogliamo, suonato con coscienza e scritto con criterio, ma senza guizzi particolari.

Doriana Legge ci fa prendere una piccola pausa con “Palinsesti”, arpeggi in delay, pad iridescenti di synth in sottofondo, voce alternativamente sospesa e teatralmente piena (anche troppo, a volte) accompagnata da cori leggerissimi, e poi si sale a cercare l’esplosione, il climax, che però non arriva: viene solo suggerito da una chitarra distorta e dall’andamento vocale (pesa forse il non avere in organico qualcosa di percussivo – una batteria – che sostenga il crescendo). I De Rapage, vincitori della kermesse, infiammano tutto con l’energica “Il Grande Rock In Edicola”. Sembra di essere tornati a cavallo tra gli anni 80 e 90, sommersi da riff in distorto sostenuto e batterie ossessive, dove rullo e charlie fanno da padroni, a combattere una guerra assai rumorosa con le voci, sguaiate e sporche, come ben si confà all’impianto ironico-divertito dell’ensemble. La potenza live della band è fuori discussione: granitici, anche se non danno molto di più dell’energia grezza che producono.

“Crazy Duck” dei Dem è una sorta di Blues che triangola tra percussioni povere e continue, riff elettrici pieni di ritmo e groove, e una voce femminile che non sbaglia una virgola. Esibizione stralunata e a mio parere molto, molto divertente, che si perde un po’ quando rallenta sugli accordi di chitarra ritmica – ma poi si riprende, folle come in partenza, in un inseguimento allucinato di chitarra e percussioni. Stravaganti il giusto per spiccare nella massa, orecchiabili quello che basta per farmeli riascoltare con piacere. Approvati. Di nuovo Rock energico, questa volta dai Too Late To Wake: “Smooth Body” parte infuocata, cassa in quattro, promettendo assai bene (zona Foo Fighters); poi rallenta, si appoggia su un Rock in inglese più smorto e banale, con una voce che, sebbene calda in basso, non brilla sulle alte. Niente di eccezionale, nel complesso, ma con qualche idea interessante sparsa qua e là.

Un intro sospeso tra gli anni 70 e gli Arctic Monkeys per i Ghiaccio1, che in “Roby” si lanciano in un brano veloce, con sezione ritmica indiavolata e una voce trasformista, che qua e là tocca la timbrica di un Giuliano Sangiorgi qualsiasi. Poi rallentano, si rilassano, e ripartono, con un basso che sembra rubato a prodotti vari di Lucio Battisti. Notevole il tentativo di miscelare mood e generi diversi in un brano di poco più di 4 minuti (la coda scivola verso sonorità Reggae, e aggiunge varietà all’esibizione). La canzone non rimane troppo impressa, ma nel complesso si fanno ascoltare con gusto. The Suricates aprono con un intro Noise a cui seguono arpeggi sognanti, in un racconto Post-Punk straniante e circolare (c’è un po’ di confusione in ambito vocale, ma verso la metà del brano la cosa inizia ad avere un senso e a suonarmi così com’è: una voce che grida, sporca, gonfia di delay, esagerata). Un delirio generale ammaestrato, che riesce a tratti ad ipnotizzarmi. Non male. 

Il Disco 1 si chiude con due extra firmati De Rapage che appaiono senza titolo: il primo, che dovrebbe intitolarsi “To Be Hawaii”, è una ballad in cui la band abbandona l’energia grezza del Rock italiano primi anni 90 per darsi alla leggerezza – sempre ironico-demenziale ovviamente. Devo dire che il pezzo sta in piedi anche musicalmente, con quel giro di chitarra facilissimo e per questo bello, paraculo ma bello. E mi sento di dire che avrebbe funzionato alla grande anche ad avere un testo più serio (ma non staremmo parlando più, probabilmente, dei De Rapage). Il secondo extra torna un po’ sul sentiero del già visto, si canta e si sbraita e si picchia e si ride, ritornelli da quattro accordi e strofe goliardiche, sempre suonando sporchi & granitici insieme.

 Passiamo dunque al Disco 2: ecco di nuovo The Suricates, stavolta alle prese con “New Islands”. Intro psichico e allucinato, qualche intoppo qua e là sul nascere nel reparto chitarre, per un brano che stenta a decollare, ma poi si riprende: lento, lungo, ipnotico. Soundscapes di pianoforti, chitarre che si rincorrono, ritmiche incalzanti. L’onda scende, poi risale. Strumentale ed allucinatorio. Torna Doriana Legge, stavolta con un bel palm mute ritmico di chitarre ad introdurre “Scambisti Alla Deriva”. L’impianto è abbastanza confuso, con qualche imprecisione sparsa. Si è sempre dalle parti di una canzone d’autore post: c’è molto Lo-Fi, c’è molta teatralità, manca forse un focus maggiore. Il pathos, invece, c’è tutto. “Lisergia” per i Ghiaccio1: abbandonate le velocità Indie-Rock, ci si butta su un simil-Western con copiosi bending e momenti di frizzante distorsione strumentale. Un po’ peggio, un po’ noia.

I Too Late To Wake iniziano epici e brillanti la loro “Grey For A Day”, un Rock lento e malinconico, che, sempre senza sorprendere troppo, si dimostra composta con mestiere, mentre la voce ancora pecca nel registro alto (purtroppo). “Ngul Frekt Auà”, dedicata agli “alternativi del cazzo con la barba”, è il secondo pezzo “ufficiale” dei sempre più ghignanti De Rapage. La musica s’è ammorbidita e l’intento ironico è più preciso e affilato. Rischiano più volte di scadere nel cattivo gusto tanto per, ma qualche colpo di reni all’ultimo secondo sembra salvarli (il ritornello in dialetto, ad esempio – e chissà poi perché). Mi avevano lasciato con una simpatia inspiegabile nelle orecchie, ritornano un po’ meno luminosi e un po’ più piatti i Dem, che in “Ready If You Want Me” abbandonano la (bella) voce femminile per un cantato maschile più piatto, e un registro, in generale, più seventies. Sempre minimale, sempre percussioni leggere, chitarre frizzante e voci, il brano, sebbene sia sempre fuori di testa e pieno di arzigogoli ritmici e strutturali che proteggono lo spettatore dal disinteresse eventuale, non riesce a rimanermi incollato come quello del Disco 1. Sempre più inglesi e sempre più compatti gli A L’Aube Fluorescente (e più me lo ripeto, più il nome mi sembra figo – fuori di testa, ma figo). “Lizard” è un fascio di luce coerente e orecchiabile, che mi fa muovere la testa a ritmo, scritto bene e con una voce davvero poco italiana. Anche qui, niente di particolarmente nuovo, ma il lavoro è fatto bene, e potrebbe bastare.

Li abbiamo inquadrati nel Disco 1, non fanno che confermarsi qui: The Old School si presentano nella loro “We Are The Old School”, un Rock’n’Roll come dio comanda, e non c’è davvero bisogno che vi dica altro – nel bene e nel male.  Chiudono il party, come sopra, i De Rapage, con due ulteriori extra: sempre Rock energico, sempre la demenza più spinta, con argomento, nello specifico, l’omosessualità e la terribile esperienza di terminare il rotolo di carta igienica (con una variazione-litania: “mestruo, assorbenti, ciclo, vomito”… ci siamo capiti). 

Concludendo questa lunga carrellata di presentazioni varie: la compilation di Streetambula sorprende, e molto, perché una qualità mediamente così alta non era preventivata. Certo, l’audio non è dei migliori, le imprecisioni ogni tanto si fanno sentire, e tante band magari devono ancora mettere a punto qualcosa nei reparti tecnici: ma l’inventiva, la varietà e la passione che si possono trovare dentro questa compilation dimostrano che in giro c’è veramente tanta gente che ha qualcosa da dire. Il futuro sarà fatto di miriadi di band, che vivranno in una galassia musicale sempre più ampia e variegata, e ognuno di noi avrà mille sfaccettature da scoprire, senza doversi per forza aspettare la grande band dei nostri tempi. Iniziamo a guardarci intorno: date un’ascoltata a questa compilation e potreste incrociare qualcuno che vi convincerà a seguirlo con curiosità. Non si sa mai.

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Never Trust – Morning Light

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Parte dal 2009 la lunga rincorsa dei Never Trust alla conquista di una posizione di rilievo all’interno del panorama Hard Rock italiano e non. Step fondamentale di questa ardua e sempre onorevole impresa, i Nook Studios di Cleveland, USA, dove la band lombarda registra il loro primo album intitolato Morning Light.  I premi ai contest, le perfomance come opener a colleghi più affermati e gli ottimi live,  diventano, già dall’acquisto del biglietto per gli States, un cereo ricordo, un passato reale, ma solo nell’esperienza formativa personale della band. Per tutto il resto del mondo, conta poco, quasi nulla. Tutto ruota intorno a quelle 11 tracce registrate in terra straniera. Troppo importante l’impatto del primo disco per commettere errori e rischiare di cancellare tutto ciò che di buono li ha portati fino a Cleveland. Ebbene, i Never Trust tornano dal paese a stelle e strisce con un prodotto assolutamente interessante. Fin dalle prime battute della canzone di apertura “Fade Away” il loro Hard Rock (nel loro stile risuonano echi degli Halestorm, dei Fireflight o dei Paramore) e il timbro di voce ringhioso della bravissima cantante Elisa Galli lascia piacevolmente soddisfatti.

Canzoni cariche di adrenalina che aumentano i battiti cardiaci e spingono a smanettare sul tasto + del volume, grazie ad un’ottima batteria che smartella come deve, chitarre decise e violente, precisi assoli. L’energia che trasmettono in ogni pezzo è notevole e il loro sound corposo e allo stesso tempo melodico rende l’album davvero godibile fin dal primo ascolto. Pezzi come, per esempio, “Honey”, “Lucky Star” o “Against the Tide” sono corroboranti ed intense, palesano senza mezzi termini la grinta e la passione dei quattro musicisti. Non mancano, inoltre, momenti leggermente più soft come le belle power ballad “What is Mine”, “Heartbreak Warning”  o “Rebound” le quali regalano momenti più orecchiabili, alleggerendo l’album e mettendo ancora di più in evidenza le doti vocali della cantante.

L’aria degli States ha decisamente giovato alla tempra dei Never Trust, i quali possono ritenersi davvero molto soddisfatti di questa opera prima. Un lavoro completo e ben arrangiato carico di grinta e sudore della fronte che rappresenta esattamente l’essenza musicale di questa giovane band. Se riusciranno a conquistare tutti sarà solo il tempo e l’ascoltatore finale a  deciderlo. Noi per ora alziamo i pollici e lasciamo che il Rock faccia il suo corso.

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‘A-380 – ‘A-380

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C’è sempre una prima volta e questa lo è per me: ascoltare dell’ Hard Rock cantato in napoletano. Il fatto strano è che dopo anni e anni sono riuscito a trovare una band del genere (esclusi gli ormai storici 24 Grana e James Senese) pur essendo io napoletano. È  anche vero, però, che gli ‘A-380 (Atreuttanta) sono alla loro primissima uscita con l’omonimo EP e dunque fanno parte dei cosiddetti “introvabili”, cioè quelle band che, suonando Hard Rock in lingua napoletana, richiedono una notevole applicazione per essere scovate. Nella scena underground cittadina conosco personalmente soltanto i Gorgeous i quali propongono però piuttosto un Prog Rock, perciò capirete quanto sia stato difficile trovare una band come loro.

Gli ‘A-380 sono stati capaci di trovare una divertente formula che senza ombra di dubbio delizierà il palato dei Rocker partenopei accontentandoli su diversi aspetti. Il loro Hard Rock si avvicina allo stile dei Deep Purple, degli AC/DC o dei Mr.Big, insomma è di stampo classico, di quello piacevole. L’EP contiene quattro deliziose tracce: “Te Si Fatto Na Roccia”, “Cundannato a’ o Rock’N’Roll”, “Chiagne E Futte” e “Ngopp A Muntagne”; tutte presentano bei riff e interessanti giri di chitarra; troviamo inoltre degli assoli che gli ZZ Top apprezzerebbero con euforia. Dalle informazioni inviateci, notiamo che il primo singolo del gruppo  è “Cundannato a’ o Rock’N’Roll”, un pezzo di sano e sincero Hard Rock, con un testo un po’ più colorito del normale ma che comunque non demerita affatto. Insomma, possiamo dire che gli ‘A-380 con questo primo EP sono partiti alquanto bene, hanno dato prova di intraprendenza e di questo passo sicuramente faranno cose buone.

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Madame Blague – Pit-A-Pat

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Proprio in questi giorni leggevo sui vari social network discussioni riguardo le possibili combinazioni (soprattutto di strumenti) che gli attuali musicisti dovrebbero adottare per avere un sound “nuovo” che si distacchi dalle solite cose, batterie elettroniche su basi acustiche, voci urlanti su musica classica e tantissime altre mescolanze di questo genere. Siamo tutti tanto stufi della solita minestra che il disgusto a volte precede l’ascolto del disco. I Madame Blague fanno il loro esordio con la DreaminGorilla Records editando il disco Pit-A-Pat che più o meno in italiano dovrebbe apparire come una “pulsazione”. Bene, alla domanda se questo disco risulti fresco e innovativo non mi tocca che rispondere con un secco no. Assolutamente no. E non cade certo il mondo, questo è sicuro, Pit-A-Pat suona vecchio di vent’anni ma non riempie affatto il mio stomaco di aria fetente, anzi. Lo trovo simpaticamente allegro e capace di suscitare contrastanti sensazioni durante l’ascolto, non tutto il vecchio viene per nuocere. Il disco si apre con “Join Us” e rimango colpito dalla volontà di rielaborare suoni quasi Hard Rock anni novanta, non sentivo il bisogno ma la cosa non mi dispiace affatto. “The Circus Never Stomps” vive di dure chitarre con voci e ritmiche Indie Rock, quello inglese per intenderci, molto movimento se no fosse per quegli assoli di chitarra troppo preistorici e pesantoni. Ancora movimento in “Escaped Whisper”, peccato ancora per gli assoli. Poi “ Tell Me” è una ballatona (fatta di voce e vocine) che somiglia troppo a quelle cose insostenibili che gli americani sono tanto bravi a fare. Gli altri due pezzi a seguire viaggiamo sempre sulla stessa cosa, francamente niente di rilevante. Vorrei che tutto andasse avanti il più velocemente possibile. E poi si ritorna a qualcosa di diverso e apprezzabile quando inizia il brano “Before”, una simpatica melodia alla Annie Hall con approccio da nave da crociera. Una scommessa vincente che diverte. Poi il disco si lascia gustare fino alla fine tra lampi, tuoni e sole forzatamente Reggae. Nel complesso i Madame Blague impegnano le loro capacità artistiche nella realizzazione di un album molto strano e variegato che a volte scazza altre piace, mettono dentro Pit-A-Pat tutto quello che possono con l’intenzione di centrare prima o poi l’obbiettivo. Un disco che potrebbe non piacere a nessuno o piacere a tanti, un lavoro talmente vario da non identificarsi precisamente con qualcosa, io non trovo malvagità evidenti e per almeno cinque o sei brani mi sono addirittura divertito come non mi capitava da molto tempo, Pit-A-Pat poteva essere meglio studiato e concepito almeno per quanto riguarda la linea da  seguire ma alla resa dei conti meglio sorridere ogni tanto che non farlo mai. I Madame Blague sono la parte allegra della mia giornata, prendeteli, fate una scrematura dei brani e gustateveli senza troppi pensieri per la testa.

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Swell99 – Life

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Sensazioni contrastanti. Quelle che provo quando annuso l’intrigante quanto malsano odore della benzina oppure quando bagno le labbra nel ruvido sapore de whiskey o quando guardo un film di fantascienza. A mezz’aria tra l’inutile e il divertente, tra il piacere e la smorfia. Ecco e questo sentimento altalenante e di umore lunatico sbuca improvviso all’ascolto del nuovo disco dei Swell99.

Nati nel 1999 a Macerata, arrivano al loro quattordicesimo compleanno senza nessun cambio di formazione, una famiglia a loro detta e sono convinto che sia così. Il suono in effetti è compatto, unito, sicuro. Fin troppo sicuro da risultare poco intrigante. E la scelta di usare l’inglese, tranne che nella prima e nell’ultima traccia cantate in madrelingua non solo fa storcere il naso ma obiettivamente non può che far perdere omogeneità e significato ad un album registrato e prodotto in modo impeccabile. Nulla ha da invidiare alle mega produzioni statunitensi in termini di qualità sonora e di impatto, ma in tutti gli aspetti questo disco pare troppo inquadrato e privo di quel brivido, di quell’imprevedibilità che nel Rock non guasta mai.
Il singolo “Urlo” parte spavaldo con chitarroni metallusi. Hard Rock in italiano, due mondi che quasi sempre si scontrano senza provocare nulla di buono, salvo in rari casi come questo. La voce di Carlo Spinaci però non lascia grandi tracce, sebbene ben impostata e precisa rimane molto fumosa. Anche quando tenta di graffiare (“Bloody Knife”, “Real Friend”) non è acqua e non è fuoco. Molto meglio con le ballate che con i pezzi più aggressivi e vince più con la lingua italiana che con quella anglosassone. “Boot” vanta la presenza del blasonatissimo Andrea Braido, ma il fumo purtroppo rimane tanto e di carne se ne addenta poca, come anche in “Screaming to The World” dove anche l’assolo poteva essere gestito meglio, invece inciampa in freddi tecnicismi che sfociano però in una simpatica citazione di “Beat it”. Certo la botta e la carica non mancano, ma tutti questi brani sembrano essere un cannone che spara palle di gomma.

Ai pezzi più arrabbiati si alternano ballatoni più o meno articolati: si passa dal suono molto Nickelback di “Mistake”, alle melodie tortuose di “Talk” (miglior pezzo e una delle migliori interpretazioni del cantante), dalle sbavature elettroniche di “Angels” (sembra un pezzo dei Plan De Fuga) alla piatta e banalotta “Life”.
L’ancora di salvataggio ricade nell’ultima traccia (guarda caso in italiano). “Non è la fine” parte acustica per scaldarsi negli ultimi dieci secondi di puro delirio. Una pazzia. Quella che ho aspettato tutto il disco.
Spero che i ragazzi la prossima volta rompano più spesso questo orologio troppo preciso, per far cadere l’ago della bilancia verso la loro causa e rompere questi miei fastidiosissimi dissidi interni.

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Deep Purple – Now What?!

Written by Recensioni

Time, it does not matter”. Così inizia il diciannovesimo album in studio di una delle band più longeve e influenti della storia della musica. E nonostante la riverenza nel trovarmi davanti ad un mostro sacro, mi viene subito da storcere il naso. Della magica e barocca chitarra di Ritchie Blackmore non rimane nemmeno una timida ombra, il maestro John Lord ci ha lasciati da poco (e comunque aveva lasciato la band già nel 2002), sebbene il suo suono in bilico tra sacro e profano viva ancora nelle mani del fido Don Airey. Per non parlare della voce di Ian Gillan, gli uragani provocati dai suoi strilli forsennati ora sono carezze vellutate.
I Deep Purple ormai da diversi anni sentono il peso della loro storia. Presente che costruisce mura destinate a sgretolarsi sulle troppo solide basi del passato. Solide basi che rimangono principalmente grazie alla sezione ritmica Ian Paice/Roger Glover ancora ruggente e ben oliata.

“A Simple Song” apre le danze con la sopracitata frase incriminata e ci bruciamo già in partenza il miglior pezzo del disco. Il dolce incastro melodico chitarra/voce sfocia in un sornione e solido Hard Rock. Niente di nuovo, ma quanto basta ai vecchi affezionati per dare una spolverata al vecchio giubbotto di pelle. Ritmiche storte e arie orientali in “Out The Hand”, che ha un po’ la pretesa di suonare come la nuova “Kashmir” dei Led Zeppelin, ma risulta goffa e scade in frequenti e freddi tecnicismi. In “Hell to Pay” finalmente un po’ di Rock’N’Roll e, sebbene la voce canti un’ottava più in basso rispetto a quaranta (ho detto quaranta!) anni fa, i ragazzi ci ricordano che si fa della grande musica del diavolo anche con l’organo da chiesa. Ma il momento di entusiasmo dura poco e tornano la ruggine e il Funky tanto amato da Steve Morse.“Body Line” viene salvata solo dalla melodia e da una simpatica interpretazione di Ian Gillan, la vera sorpresa del disco. Niente più urla forsennate, un’inesorabile e onesta presa di coscienza. Il tempo passa eccome e lui rallenta la macchina, senza fretta (“mi stendo nel lungo prato, me la prendo comoda e faccio riposare i piedi […] siamo qui con tutto il tempo del mondo”, “All The Time in The World”) e con quel sorrisetto furbo ed esperto ci fa intendere che è ancora li a divertirsi. E onore a chi si diverte ancora alla tenera età di 67 anni!
Il disco scivola via senza graffiare e senza neanche provarci più di tanto, tra ripetitive e noiose melodie bluesaggianti, veloci ed inutili assoli (va bene modernizzarsi ma la scelta di Steve Morse, compiuta ormai quasi vent’anni fa, non l’ho mai digerita bene), eterni intermezzi dal sapore epico (“Apres Vous”), stacchi da far entusiasmare i migliori amanti della tecnica. C’è quasi da chiedersi cosa serve ad una band del genere fare ancora dischi. E ringrazio che Robert Plant non abbia mai voluto intraprendere ghiotte e lunghe reunion coi Led Zeppelin.

Certo la voglia sarà ancora tanta e l’ammirazione rimane immensa per questi dinosauri, ma ormai non sono altro che lenti e stanchi triceratopi. Falso dire che il tempo non conta nulla, il viola ormai è troppo sbiadito per essere profondo.

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A Step To Delirium – First Step BOPS

Written by Novità

Registrato presso il Raw Tape Studio di Perugia, il primo Ep della band, First Step, si presenta come un lavoro ben concepito, strutturato ed elaborato sul piano tecnico. Con chitarre sanguigne, attitudine blues e tanto tanto hard rock, i quattro presentano un sound che cavalca l’onda gloriosa di band che hanno fatto la storia del genere, con un riferimento immediato e costante ai Led Zeppelin. La lezione è appresa così bene che A Step To Delirium pecca della gravissima mancanza di originalità: non c’è nessun elemento nuovo, nessuna rilettura, nessuna innovazione, neppure nella quotatissima e ruffianissima cover di “Helter Skelter” che infilano nel disco. Un primo passo, come dice il titolo stesso, senza dubbio, ma mosso semplicemente sul posto.

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