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The Letter Yellow – Walking Down The Streets

Written by Recensioni

Solo poche settimane fa mi sono io stesso ritrovato a parlarvi del lavoro di un duo di Brooklyn chiamato Live Footage, per metà rappresentato dal batterista e percussionista Mike Thies. Ora lo stesso Mike torna a farsi sentire con il debutto di The Letter Yellow, al fianco di Randy Bergida (voce, chitarra e synth che con l’altra metà dei Live Footage, Topu Lyo, forma gli Skidmore Fountain) e Abe Pollack (basso, lap steel e synth) per non dimenticare la special guest Beck Burger (piano, rhodes e organo).

Un debutto che vi anticipo carico di armonie e melodie malinconiche come passeggiate tra i viali di una New York colorata d’autunno e che racconta tutte le micro storie che questi letti d’asfalto rivelano ogni giorno. Una lunga camminata che parte da Greenpoint Brooklyn (quartier generale della band) attraversa le case di Bleecker Street, Hope Street, Harlem, Coney Island, lambisce quartieri nascosti, sorvola le linee ferroviarie di vagoni dipinti dalla strada, racconta dialoghi banali, innamoramenti, solitudine e ci porta dritti a scoprire la propria, di strada, dentro il caos della grande mela. Un album che va ascoltato con attenzione, anche nella sua parte testuale, perché proprio le parole saranno l’amplificatore emozionale di questo piccolo gioiello che, sotto l’aspetto musicale, presenta la stessa freschezza degli esordi di band ormai affermate del panorama Indie Pop, come Grizzly Bear o Fanfarlo. Eccezionale il trio iniziale “Changed”, “Hold Me Steady”, “I’ Can’t Get A”, meraviglia melodica, con spruzzate di tradizione Folk. Tre pezzi che, se approfonditi, perfezionati, e addobbati, specie nei crescendo pseudo orchestrali, sarebbero stati la chiave per inserire questo disco già nel limbo dei migliori dell’anno. Convincono meno invece i momenti più “neri” (“Hope Street”, “I Got You”) dove basso e voce prendono la testa della carovana. Per quanto apprezzabili le doti cantautorati di Randy Bergida, proprio la sua voce non sembra poter reggere sulle spalle lo scheletro di certi brani che dovrebbero trovare in lui la loro forza. Cosi come suonano inutili le ostentazioni Rock’n Roll di “14 Bar Blues”, che, per quanto sia solo un episodio sporadico dentro la tracklist, non ha il merito né di fare da intercalare a due tempi dell’album, né di allentare le tensioni soniche.

Meglio allora i pezzi in cui Randy Bergida si mantiene su binari più consoni, a metà tra il Folk Rock più popular che quasi ricorda gli Arcade Fire (“Hooray He’s Not Dead”), pur senza la magniloquenza e l’energia dei canadesi e derive quasi Chamber Pop. Molto meglio quando la musica abbraccia e danza con la sua timbrica (che troverete certamente familiare) scivolando senza patemi d’animo e inutili ridondanze stilistiche (“It’s Monday And I’m Dreaming”) in un Indie Folk ora più potente, quasi in stile british morrisiano (“Out on The Streets”) ma non solo (“In The Sun Making Waves”), ora più compassato e romantico (“Window”, “Southern Bound”).  Se dentro i dodici pezzi, le cose da cancellare sono veramente poche è anche vero che le cose che potremmo definire sopra la media sono anch’esse esigue e si limitano alla parte iniziale. Nulla è troppo originale o geniale ma quei tre brani che danno il via al cammino per le vie di New York suonano perfetti, melodiosi, evocativi, gradevoli, semplici ma mai spartani o grossolani e questo basta perché possano essere considerati come un ottimo inizio. Tutto ciò che viene dopo la traccia numero tre è pioggia e tuoni, schiarite, sole accecante dritto nelle pupille e vento freddo sulla faccia. Per non gettare tutto del tragitto basta guardare, come fossero foto, solo le cose più belle e sognare che il prossimo viaggio possa essere tutto come l’inizio di questa passeggiata.

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