disco del mese Tag Archive

Dropeners – In the Middle

Written by Recensioni

Lo ammetto, sono partito con il piede sbagliato. Lo ammetto, mi aspettavo altro. Lo ammetto, sono senza parole. Lo ammetto: i Dropeners hanno letteralmente vinto!

I Dropeners nascono nel lontano 2008 e, dopo aver accumulato un incredibile quantitativo di esperienze (soprattutto estere), tirano fuori il lavoro di cui sto per dire: In the Middle. Il disco d’esordio si fa vivo nel 2009, sotto il titolo di Drops of Memories e fra questo ed il capitolo oggetto di discussione, s’intermezza un EP risalente a ben quattro anni fa: Silent Sound (EP). Si sono fatti parecchio attendere a quanto pare, ma il motivo lo scoviamo in breve ed è nascosto dietro ognuna delle dieci tracce che formano il loro secondo disco. Il sound, complice dell’inglese adottato in ogni parte del lavoro, lascia fraintendere l’interlocutore medio e fa sì che si attribuiscano i meriti dell’opera ad esperte menti anglosassoni. Ma qui siamo innanzi a tutta roba made in Italy: vengono da Ferrara, sono autoprodotti e non hanno nulla da invidiare al meglio delle band internazionali. You won’t get a second chance to make an extraordinary firts impression, diceva qualcuno e i Dropeners dimostrano di saperlo bene, curando l’aspetto di In the Middle in ogni minimo particolare. Il packaging è leggerissimo, minimale ma efficace (ammetto anche questo: ho un debole per il packaging). La copertina lascia intendere un egregio lavoro introspettivo, confermato ottimamente dal contenuto del disco, attraverso una musica penetrante, grazie ad un New Wave ben articolato ed a sonorità molto lente e buie. Lo confermano i Dropeners stessi in “Western Dream”, che fa da titoli di coda al film surreale che i registi ci propongono: in the middle of western dream, there’s a light that comes from the east, recitano per tutta la durata della traccia. Il theremin in questo capitolo gioca un ruolo essenziale, evidentemente. Penetrante. Ossessivo. Possessivo. Ipnotnico.

All’interno di questo straordinario lavoro troviamo spunti di verde invidia per il migliore Dave Gahan, quello che si cimentò nell’incredibile opera di “Saw Something”. È come se i Dropeners avessero preso spunto da questa singola traccia, depurandola dall’eccessiva vena elettronica per poi ampliarla, estenderla e costruirci su un intero album. Ma non è tutto. Lo spazio artistico toccato è incredibilmente vasto: si sfiorano le corde dei Coldplay in “Lead Your Light”, appesantendole con i migliori Radiohead di OK Computer. Nel secondo capitolo (“You Don’t Know”) è possibile persino scovare un nonsoché di Gothic, di scuro, che lascia sovvenire alla mente vecchi ricordi di HIM e The Rasmus, light version. Ma i Dropeners non amano paragoni e non vogliono di certo essere la copia di mille riassunti e, nonostante riportino in vita questa scia di fine anni Ottanta, sanno bene come rinnovarla. Sfruttando, infatti, la propria conoscenza musicale e strumentale, si trasformano in polistrumentisti, riscoprendo in un’ottica del tutto nuova il sound sopra citato. Così, la voce e chitarra Vasilis Tsavdardis si cimenta in eccezionali imprese al synth e la chitarra di Francesco Mari sperimenta trombe e theremin (che gioca il ruolo di psicanalista nell’analisi introspettiva condotta dal disco), accompagnando perfettamente il basso di Enrico Scavo e le batterie di Francesco Corso. L’armonia è inevitabile, essendo che lo strumentale poggia direttamente sulla melodica voce di Tsavdardis, lunga, bassa e sempre in perfetto tono, accompagnandola lungo la stesura di ogni capitolo. Insomma dieci tracce di puro intelletto ed organicità, con tanto di ghost track, come non se ne vedevano da un bel po’. Potremmo andare avanti per ore, il disco fa parlare di sé come fosse parte di noi stessi. Penetra letteralmente nel più profondo dell’inconscio e ci lubrifica l’animo. È un lavoro che vale l’attesa, tutta. Signori, siamo innanzi ad un ottimo allievo. Stimolarlo a far di meglio potrebbe essere controproducente. Conosce i suoi obiettivi, sa chi è e sa dove vuole arrivare: nell’io di ognuno di noi. Nel mio ci ha messo le radici e nel vostro?

Read More

Trophy Scars – Holy Vacants

Written by Recensioni

Per la band del New Jersey, la ricerca del sound perfetto, almeno secondo il punto di vista dei quattro, sembra finalmente aver portato a una meta che rispecchi le più rosee attese e, se non si può certo definire questo Holy Vacants un punto di arrivo, per i Trophy Scars si tratta comunque del luogo più alto di un’intera carriera. Holy Vacants aggredisce e miscela temi che vanno dalla mitologia, alle antiche religioni, passando per le più inquietanti teorie della cospirazione sul gene dei Nefiliti (popolo nato dall’incrocio tra figli di Dio e figlie degli uomini, citato nella Torah e non solo). Le parole sono prese a prestito dagli scritti di Jerry Jones, voce della band, il quale racconta la storia di due amanti che non solo hanno scoperto che il sangue degli angeli contiene la fonte della giovinezza, ma anche la formula del Qeres, antico profumo egiziano usato per la mummificazione e che è l’unica sostanza mortale per angeli e Nefiliti.  Se la narrazione muove attraverso queste vicende quasi come fosse un romanzo, da tenere d’occhio è sempre la natura metaforica dell’opera, che vuole sostenere i temi dell’idealizzazione della giovinezza, la perdita dell’identità e l’innocenza corrotta. Come indica lo stesso Jerry Jones, l’album è stato un modo per esorcizzare una persona dalla mente e dall’anima.

Holy Vacants doveva essere anche l’ultimo della formazione nata poco più di dieci anni fa a Morristown ma il valore raggiunto sembra lasciare aperti spiragli per una nuova vita. Blues Psichedelico che in realtà si muove attraverso le strade più disparate di Post Hardcore, Rock Alternativo, Prog e Screamo, creando un andirivieni stilistico che lascia senza fiato, per intensità ed efficacia. Eccezionale l’uso della voce e la timbrica inquietante di Jerry Jones che spinge attraverso una sezione ritmica prestante ma non invadente, chitarre che riescono a mostrarsi in tutta la loro bellezza esteriore al momento confacente, con brevi assoli polverosi e caldi che non disturbano l’incedere del sound. Oltre alla strumentazione classica, e l’uso di piano, organo e Moog, eccelso l’uso di tromba (Taylor Mandel), trombone (Caleb Rumley) viole, violini e violoncello (David Rimelis) e quant’altro che s’inseriscono quasi come ombre, come fantasmi, come angeli dentro la musica aiutando l’ascoltatore a immergersi in un mondo incredibile e fuori dal tempo. Le esplosioni Hard Rock non sono mai anacronistiche, anche se convincono molto di più i crescendo chitarristici (“Extant”) i passaggi più pulsanti e sostenuti (“Qeres”) e i Blues strazianti e poderosi (“Archangel”, “Hagiophobia”, Everything Disappearing”). Quasi dal sapore Industrial Stoner alcuni brani come “Burning Mirror” ma il meglio deve ancora venire e si manifesta nella seconda parte del disco, quando una “Chicago Typewriter” degna dei migliori Mars Volta, anticipa la sensazionale doppietta “Vertigo” / “Gutted”, che mette in scena un dualismo che sembra riassumere alla perfezione ogni cosa legata a tutto Holy Vacants. Per non farsi mancare nulla, l’album ci regala anche perle di semplice e orecchiabile Alt Rock moderno e vintage al tempo stesso nella forma e nel sound (“Every City, Vacant”) per poi chiudersi nell’eterea, quasi Dream Folk “Nyctophobia”, cantata dalla bravissima Gabrielle Maya Abramson, solo uno dei tanti ospiti di questo Holy Vacants. Dobbiamo infatti ricordare oltre ai cori, la voce extra di Adam Fischer in “Chicago Typewriter”, quella di Reese Van Riper in “Guttered” e di Desiree Saetia nella stessa e in “Crystallophobia”. Holy Vacants è un concept album che avrebbe dovuto raccontare la fine di una grande band forse troppo spesso ignorata e che invece suggerisce una strada buia e tenebrosa ma illuminata dalla speranza. Un concept che racconta una storia apparentemente lontana dalle vicende umane dell’uomo moderno ma che, in realtà, scava nell’interno della sua psiche, aiutando una catarsi necessaria per accettare le condizioni dell’esistenza senza alcuna paura verso l’ignoto.

Read More

Arcade Fire – Reflektor

Written by Recensioni

Skippando a piè pari i 10 minuti della hidden track iniziale, sono andato subito alla traccia numero uno “Reflecktor”, canzone che da il nome al nuovo e quarto album in studio degli Arcade Fire. Spinto dalle prime note caratterizzate da un groove danzeresco (audio doverosamente a palla) mi sono alzato e incamminato lungo il corridoio di casa con un’andatura lenta ma ritmata e sicura. Con una giravolta alla Derek Zoolander (chiaro, verso destra) mi sono diretto in cucina e tra un movimento pelvico  e l’altro mi sono fatto un caffè, in scioltezza e sempre danzando sentendomi figo che manco George Clooney. “Prende questo sound!” ho pensato. Non avendo ancora capito assolutamente niente della canzone perché troppo intento a sentirne le vibrazioni, ho messo la tazzina nel lavandino e mi sono ridiretto zompettando verso la camera per ascoltare più attentamente l’album e scrivere due righe per Rockambula. Ebbene, a fine ascolto (un paio di ascolti per la verità) il mio pensiero è stato questo: ”Dopo aver spaccato le palle per mesi con una campagna pubblicitaria continua (aggiungo ora: prassi, che non amo molto, ma che sta oramai diventando sempre più comune nel mondo della musica mainstream dai Daft Punk, per esempio, ai Pearl Jam), è questo il tanto ostentato ed atteso lavoro degli Arcade Fire? Beh, allora ben vengano tutte le strategie di marketing invasive possibili, se portano a lavori del genere, perché l’album non spacca le palle, spacca e basta”.

Un’opera molto più elettronica e corposa, un misto di Funk Rock, elementi Reggae, Dance- Hall con influenze tribali nate dalle percussioni di stampo Haitiano, paese d’origine di Regine Chassagne e dai frequenti viaggi in Giamaica, luogo dove la band ha registrato tra l’altro, l’album. Un disco doppio piaciuto ai molti e criticato dai pochi che ne hanno visto un lavoro troppo laborioso, caratterizzato da eccessive percussioni e dall’inutile aggiunta di strumenti nuovi quali, per esempio, il sax. Uno stato confusionale, insomma,  che porta a mischiare percussioni e strofe in lingua francese al classico sound disco anni 80.  I soliti che non riescono mai a concepire evoluzioni, cambiamenti e voglia di sperimentare di una band ma che si aspettano sempre la copia dei primi album. Noiosi. La bellezza di Reflektor sta proprio nella sua diversità e novità. È un album ricco dove il gruppo canadese si inerpica per selciati sperimentali un po’ più lontani dal loro standard, mettendosi alla prova, sbattendosene e regalando qualcosa di diverso. Il prodotto è energico, ridondante, piacevole e dove lo zampino di James Murphy (LCD Soundsystem), specialmente in pezzi come “Reflektor” e “Here Comes the Night Time”, si fa sentire eccome.

Una band seria che risulta divertente, senza però mai abbandonare il lato oscuro della loro musica, quel dark che li ha sempre caratterizzati; a partire dalla copertina: il dramma di Orfeo di Rodin che cede alla tentazione di voltarsi e guardare Euridice destinandola all’Ade. Per non dimenticare poi le menate, che tanto piacciono a Win Butler, Kierkegaardiane e che ci permettono, citando appunto il filosofo danese, di descrivere al meglio l’opera della band: ”Fin dall’infanzia sono preda della forza di un’orribile malinconia la cui profondità trova la sua vera espressione nella corrispondente capacità di nasconderla sotto apparente serenità e voglia di vivere.” L’album narra di mali esistenziali, di amore, delle difficoltà nello stare insieme, delle moderne crisi di relazione e della ribellione contro l’affermazione di se stessi, il tutto con un linguaggio molto accessibile. Lungo? Onestamente un po’ si, soprattutto alcuni pezzi, come l’intro, “Awful Sound” oppure “Supersymmetry” che tendono ad appesantirlo leggermente, anche seò mettono ancora di più in risalto le tracce più brevi ma belle cariche come “Normal Person” o “Flashbulb Eyes”.  Noioso? Proprio no, sempre ricco di suoni interessanti, pieni, sensati nella loro mescola e coinvolgenti lungo tutto il percorso dell’album.

La classica opera da ascoltare donandogli le giuste attenzioni, ma al tempo stesso possibile colonna sonora delle nostre faccende quotidiane da stoppare, riprendere e magari skippare su qualche pezzo. Il risultato sarà sempre e comunque ottimo. Ascoltatelo e basta. Se potete, fatelo senza l’utilizzo di cuffie o auricolari ma lasciate che il sound invada i vostri timpani e la vostra casa globalmente. Ciò che vi rimarrà sarà sicuramente la sensazione di aver ascoltato uno dei migliori album del 2013, e se non avete idee per i regali di Natale e conoscete qualche sciagurato che non ha ancora comprato o ascolta questo disco, eccom fategli il giusto presente. Pure Gesù bambino sarà contento. E così sia.

Read More

These New Puritans – Field Of Reeds

Written by Recensioni