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Bliss, quinto disco per i Captain Mantell.

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Bliss è il titolo del quinto album dei Captain Mantell, power trio guidato da Tommaso Mantelli (omonimo del Capitano Thomas Mantell, primo pilota a morire inseguendo un UFO). Un lavoro ispirato alle radici del Rock che rappresenta un deciso punto di svolta stilistica per la band. La matrice compositiva rimane la medesima di sempre, Pop ma capace di soluzioni sempre originali. Il raggio d’azione pero’ si muove verso orizzonti piu’ vasti, anche grazie all’introduzione del sassofono, capace di evocare nuove suggestioni. La versatilità compositiva della band emerge più che mai, come una macchina del tempo impazzita attraverso la storia del Rock che salta dai King Crimson a Jack White, dai Beatles ai Nirvana, da John Zorn a Jeff Buckley. Le ritmiche potenti dell’Ammiraglio Dix, il sassofono sperimentale del Sergente Zags, i riff di chitarra che sembrano usciti dall’epoca d’oro del Rock creano delle basi sonore perfette per la voce del Capitano Mantell, espressiva ed efficace nei pezzi piu’ tirati come nelle ballad. I testi, cupi e disincantati ma con una vena di speranza ci accompagnano poeticamente alla ricerca della beatitudine (Bliss) intesa come evasione dallo stile di vita moderno e simbolicamente rappresentata attraverso la rivincita sulle rigide regole delle macchine elettroniche che fino ad ora avevano governato il suono della ciurma. Registrato e mixato nel 2014 tra Veneto e Abruzzo il disco vede anche la partecipazione di graditi ospiti quali Liam McKahey (Liam McKahey and the Bodies, Cousteau) che regala una sublime traccia vocale su “Side On”, Nicola Manzan (Bologna Violenta, Menace, Ulan Bator) che mette il suo tocco nell’arrangiamento di alcuni brani, la violenza dei Bleeding Eyes e la pazzia di DJ Muto. Il disco sarà pubblicato in vinile, CD e free download il 10 novembre 2014 da una cordata di etichette indipendenti formata da Dischi Bervisti, Overdrive Rec, Dreamingorilla Rec e Xnot You Xme (distribuito da Audioglobe).

TRACKLIST
01 – Love/hate
02 – The ending hour
03 – Wait for the rain
04 – The day we waited for
05 – Side on (feat. Liam McKahey)
06 – Dead man’s hand
07 – Ugly boy
08 – Better late than now
09 – First easy come then easy go
10 – Picture me floating
11 – To keep you in me
12 – With my mess around
13 – The age of black
14 – Won’t stop
15 – Bliss (bonus track)

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Calista Divine – Vacante

Written by Recensioni

Desiderio grande di sentirsi sopra il tetto del mondo, magari imparando ad ammettere i propri sbagli, magari sentendosi liberi di correre nudi per strada. Tanto freddo, la pelle è secca, le piaghe non danno tregua, la sofferenza aumenta a dismisura. Tutta un’altra dimensione quella proiettata dai Calista Divine, il loro primo full length Vacante suona talmente violento da restare inerti, il modo migliore di suonare Post Rock nel 2014. La produzione di Cristiano Santini, mixato da Giulio Ragno Favero de Il Teatro degli Orrori, masterizzato da Jo Ferliga degli Aucan, uscirà il prossimo Ottobre sotto etichetta F.O.H. Records. Il sound pulitissimo e meticoloso entra rapido nelle orecchie per poi uscirne, poi ancora dentro e poi di nuovo fuori per una sequenza infinita di avvenimenti. “Ma ci sono pensieri che non riesce a trattenere, ci sono pensieri che lo fanno sentire come se andasse a tutta velocità in un tunnel, in equilibrio sopra un’asse di legno che corre su due rotaie” (Massimo Volume, “Alessandro”). Elettronica miscelata ad una ritmica impaziente, sempre tirata, un gancio sotto il mento, qualcuno inizia a sentire forte il fiato sul collo. Poi in tutti i pezzi esplode la bomba. Iniziate a trattenere il fiato all’inizio di “Astray”, qualcosa nella vostra vita potrebbe cambiare per sempre, niente tornerà più come prima, il sole è sceso per sempre. Sperimentazione sonora degna del miglior Amaury Cambuzat, un’esagerazione “sperimentale” riportata in forma canzone, l’opposto che si potrebbe percepire ascoltando Bologna Violenta per intenderci. E di queste produzioni bisognerebbe andare fieri, sono tanti i motivi che potrei elencare per elogiare Vacante, i Calista Divine sono italiani e per questo sbatterei il disco sul muso dei critichini troppo atteggiati a catalogare l’alternativo italiano nei soliti venti gruppi. Un cuore pulsante di creatività è pronto per sfornare lavori di questo livello, sette brani completi sotto ogni punto di vista, mi sento di citare “Be Lost”, ma tutti gli altri hanno diritto di fare parte di questo straordinario album. Sarebbe bello riuscisse ad entrare tranquillamente in tutte le orecchie, sarebbe una questione di educazione musicale, sarebbe una vera e propria rivoluzione culturale. Vacante rappresenta alla grande lo stato di salute della musica italiana, innovazione, tecnica e razionalità. Lasciamo che i chitarrini tornino a suonare sulla spiaggia, noi abbiamo bisogno di tornare ad alzare la testa, i Calista Divine sono un motivo in più per sentirci fieri di ascoltare musica italiana. Non potevano esordire in maniera migliore.

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I Rolling Stones e il pisello di un settantenne.

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Kaleidoscopic

Written by Interviste

Ciao ragazzi, cominciamo dall’inizio. Chi sono i Kaleidoscopic, e cosa hanno a che vedere con quell’apparecchio ottico capace di generare svariate forme geometriche grazie ad un sapiente gioco di riflessioni?
Kaleidoscopic sono un gruppo rock di Arezzo composto da Fabio Meucci, Marco Ciardo, Francesco Magrini e Francesco Mazzi. Il nostro nome, che ha poco a che fare con il concetto di psichedelia tanto di moda in questo momento, è nato dal nostro bisogno di poter suonare musica senza dover necessariamente rispettare alcun “genere” o “filone”. Di fatto Onironauta, il nostro disco, è il prodotto delle molteplici influenze e sfaccettature che ci caratterizzano. Crediamo che sia vario e non facilmente etichettabile, vogliamo pensare che nel far musica ognuno debba essere libero come lo siamo stati noi nel creare Onironauta. Kaleidoscopic, in questo senso, era il nome più adatto perché crediamo i nostri pezzi abbiano forme, colori e sfaccettature diverse uno dall’altro.


Il vostro album d’esordio ha il suggestivo titolo Onironauta, traducibile con “sognatore consapevole”. C’è anche un significato nascosto dietro al titolo che avete scelto? Quale?

Per dare un indizio direi che c’è un percorso d’ascolto che tocca temi di vita comune, che vengono raccontati dall’aspetto superficiale fino ad uno stato di introspezione più profondo. L’Onironauta è il protagonista che compie un viaggio per ogni singolo aspetto, riuscendo a coglierne il vero significato e a vivere l’insieme delle sfaccettature della vita come esperienza anche interiore. Il percorso lo si può intuire facilmente ma è un segreto (ride ndr)


Il vostro album è un cocktail di sonorità oscure e rumorose, a tratti epiche, senza dimenticare ritmo e melodia. Quanto è stato influenzato il sound da Nicola Manzan (Bologna Violenta), che ha lavorato al disco come produttore artistico e arrangiatore? Come sarebbe stato Onironauta senza Bologna Violenta?

Nicola Manzan è un musicista professionista che abbiamo conosciuto suonandoci insieme. Da lì è nato un profondo sentimento di rispetto, ammirazione ed amicizia che ci ha condotto ad incrociare le nostre strade lavorando insieme. Nicola ha notevoli capacità in fase di arrangiamento e un gusto musicale che ci ha entusiasmato: insieme a lui siamo riusciti a mantenere un “tiro” costante in tutti i pezzi e a lavorare in funzione del risultato finale. Di fatto abbiamo imparato a guardare una canzone nella sua omogeneità, musica e testo, che devono uscire come una cosa sola. Abbiamo messo da parte virtuosismi lavorando esclusivamente sull’atmosfera e il messaggio che ogni singolo brano avrebbe dovuto trasmettere e il risultato ci ha entusiasmato: crediamo che Onironauta sia un buon disco e quantomeno era quello che volevamo, come lo volevamo. Nicola non ha stravolto nulla ma ci ha aiutato a indirizzare il disco nella giusta direzione. Del resto abbiamo imparato più in un mese di lavoro con lui che in molti anni a suonare in un garage. Un esperienza che ci ha lasciato tantissimo, dal punto di vista artistico e soprattutto umano. Onironauta senza Nicola? Sarebbe uscito ugualmente, molto simile ma sicuramente.


Per l’esordio avete scelto (su indicazione di Manzan) di passare alla lingua italiana. Qual è stato il vero motivo di questa scelta? Quanto questa è da ritenersi una necessità per essere apprezzati dal pubblico della penisola visto che in pochi sono riusciti a crearsi un buon seguito puntando su altri idiomi o sullo strumentale?

La scelta di cantare in italiano è stata una nostra esigenza appoggiata, in primis, dallo stesso Nicola. Arrivati al punto dove eravamo sarebbe stato impossibile trasmettere certi concetti, messaggi senza l’utilizzo della nostra lingua. Vogliamo che la gente possa ascoltare e magari riflettere anche solo un secondo su quello che vogliamo dire, cosa che sarebbe stata impossibile cantando in inglese. Siamo un gruppo che fa rock ma che vuol suonare per trasmettere un qualcosa, non cerchiamo e non abbiamo mai cercato di far canzoni con l’intento di mettere allegria attraverso versi senza contenuto, canticchiabili e magari rendendoli “danzerecci” con una buona base musicale. Quello lo lasciamo ad altri. L’ intento dei Kaleidoscopic è tutt’altro e pensiamo che ascoltando Onironauta, il nostro impegno in questa direzione, sia chiaro.


Quanto è importante il testo e la sua comprensione all’interno dei vostri brani e quanto è rilevante nella musica contemporanea?

Il testo ha un’importanza fondamentale perché è tramite questo che possiamo comunicare chiari concetti ma è solo grazie agli altri strumenti che queste parole possono impattare sul lato più profondo dell’animo umano creando la musica appunto. Si può comunicare anche solo con le note ma le parole durante un concerto possono essere un grande aiuto per entrare in contatto con il pubblico. Oggi come sempre nella musica le parole sono usate con una importanza molto variabile. Più che altro c’è da dispiacersi di come proprio nei generi più ascoltati e con audience colossali non si usino le parole per parlare di cose più profonde ribelli o nuove. Solite situazioni, falsi problemi e ultimamente sempre più spesso false soluzioni. E pensare che con la musica si potrebbe cambiare il mondo…


C’è qualche aneddoto o curiosità riguardante Onironauta che vi va di raccontare?
Durante la composizione di Onironauta ne sono successe tante di cose. Le migliori la sera: finite le sessioni di registrazione Nicola Manzan ci allietava, fino a notte fonda, con canzoni di cantanti neomelodici (di cui è un grande fan). A forza di ascoltare ci siamo appassionati anche noi e, tutt’ora, ci informiamo e ci scambiamo  brani, cercando di rimanere sempre aggiornati sui nuovi tormentoni. Vi diciamo solo che Fabrizio Ferri è davvero il nostro nuovo idolo.


Racchiudere le note dentro generi e definizioni è feticismo da giornalisti più che strumento utile alla comprensione dei brani. Come descrivereste la vostra musica senza usare paletti come Noise, Alt Rock, Stoner o simili?
Come già dicevamo la nostra musica è essenzialmente rock, un rock caratterizzato da suoni duri e distorti. Ci piace aver sempre ben presente una certa energia, soprattutto live, da poter convogliare verso il pubblico. Gli alti volumi e dosi massicce di sudore sono due cose che ci caratterizzano. La nostra musica non fa parte di niente e non è di nessuno, è libera come lo siamo noi, ognuno può ascoltarla e trovarci dentro quello che più gli piace o non piace.


Il Tour promozionale di Onironauta ha ormai toccato diverse tappe. C’è un’esibizione live che ricordate particolarmente? C’è un elemento al quale date maggiore importanza nelle vostre esibizioni live?
Sicuramente per essere una band emergente con poco seguito, al momento, come è logico che sia abbiamo fatto diverse date che, ognuna per motivi diversi, ci ha davvero caricato. Quindi una data che ricordiamo in particolare non c’è, ci teniamo solo a ringraziare tutte le persone che ci hanno permesso di poterci esprimere e tutte quelle che lo faranno in futuro, perché i Kaleidoscopic come mille altri gruppi validissimi hanno bisogno di poter suonare live davanti a delle persone. Fare dischi è stupendo ma la band vera e propria si riesce ad apprezzare solo quando è sopra al palco, secondo noi. Per quanto riguarda le performance cerchiamo sempre di dare il 150%, cercando di far arrivare al pubblico il messaggio che vogliamo dare, come detto precedentemente. Per noi non fa differenza suonare davanti a 10,100,1000 persone, è di vitale importanza che la gente sia attirata da quello che diciamo e che riesca a rimanere attenta durante la nostra esibizione. È la cosa che più ci rende contenti.


C’è un brano del vostro disco che ho trovato di una bellezza disperata e straziante. Da dove arriva “Sensitivo”?
Sensitivo è un pezzo che sento molto vicino. Parla di come un uomo quando si ferma ad osservare la realtà della vita finisca per accorgersi della sua assurdità e di impulso ne reclami una ragione. E’ da questa disperazione che può e deve nascere la voglia di esplorare il lato più profondo della nostra coscienza per dare il giusto senso a tutto e tornare a vivere da soddisfatti padroni del proprio destino. Ma nulla può essere appreso se non tramite i sensi . Usarli è il miglior modo per cogliere e capire l’assurdità del sistema in cui viviamo e di conseguenza le menzogne che ci circondano.


Siamo alla fine dell’intervista, vi ringrazio, e per concludere vi chiedo di parlarci dei vostri progetti futuri.
I nostri progetti futuri sono poter riuscire a suonare Onironauta il più possibile in giro perchè, come dicevamo, la dimensione live è troppo importante per una band emergente. In seguito vedremo cosa ci riserverà il futuro.

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Nicola Manzan (Bologna Violenta)

Written by Interviste

Sta girando l’Italia in lungo e in largo per il tour legato al suo ultimo album. Si porta dietro un’esibizione live dal forte impatto emotivo. Dopo aver partecipato al concerto tenutosi a Torino, era inevitabile porsi delle domande su Uno Bianca. A domande fatte, Bologna Violenta (Nicola Manzan) risponde. Eccovi serviti.

Ciao Nicola, cominciamo dal principio. Com’è nata l’idea di Uno Bianca? Voglio dire, in Italia purtroppo si sono verificati un gran numero di fatti di cronaca nera. Come mai la scelta degli avvenimenti legati proprio ai fratelli Savi?
La scelta è ricaduta su questi fatti perchè si sono svolti in larga parte a Bologna e provincia (per quanto la banda abbia operato anche lungo la costa adriatica fino a Pesaro). Volevo fare un disco su Bologna, un po’ come era successo nel 2005 con il mio primo album. Lì era più una questione di istinto, di sensazioni trasformate in musica, filtrate attraverso l’immaginario dei film poliziotteschi degli anni Settanta (ma con sonorità moderne, ovviamente). Qui il lavoro è stato diverso, sentivo il bisogno di raccontare Bologna, ma volevo farlo partendo da una storia vera che secondo me ha sconvolto e cambiato sotto molti aspetti la città di Bologna e le persone che ci vivono.

Ti sei dovuto documentare molto per la realizzazione di questo album? Di che tipo di materiale ti sei servito per poter riscrivere in musica questa storia? Hai trovato difficoltà nel reperirlo?
Ho cominciato ad interessarmi a questa storia una decina di anni fa e quando mi sono messo al lavoro per scrivere e registrare il disco mi sono reso conto di avere parecchio materiale utile senza dover impazzire per reperire molte altre informazioni. Tengo anche a precisare che il mio intento è sempre stato, fin dall’inizio, quello di “sonorizzare” i peggiori crimini della banda, quindi la cosa fondamentale per me era capire come si erano svolti i fatti per poter poi creare una sorta di sceneggiatura che sarebbe diventata la struttura del pezzo. Quindi mi sono concentrato più che altro sulla ricerca di libri o documenti con fonti attendibili che raccontassero cos’era successo (o cosa si presume possa essere successo) e poco altro. Non mi è mai interessato affrontare tutte le questioni e le ipotesi riguardanti le azioni della banda (qui le teorie si sprecano), per me l’importante era mettere in musica dei momenti di follia e terrore.

Nelle tue esibizioni live di Uno Bianca la musica è accompagnata da immagini, scritte e video  essenziali, molto diversi da quelli che accompagnano le esibizioni dei tuoi precedenti pezzi. Una formula che aiuta a descrivere i fatti e a meglio comprendere la tragicità degli eventi, senza però far passare in secondo piano la musica. Più che un concerto i tuoi live sono una sorta di esperienza multisensoriale dal forte valore emotivo. Ci racconti com’è nata l’idea di un live di questo tipo?  
Devo innanzitutto dire che avrei voluto avere i visual anche per i tour precedenti, ma alla fine per un motivo o per un altro (a dire la verità sono tantissimi fattori messi insieme) non sono mai riuscito a mandare in porto questo aspetto dei live. Per questo disco, però, la questione “visual” non poteva essere ignorata. Non a caso anche nel disco si trova una guida all’ascolto in cui vengono raccontati i vari episodi, dando così la possibilità all’ascoltatore di poter capire cosa stia succedendo a livello musicale. Quindi ho deciso di creare un video per ogni pezzo del disco, ma non volevo fare dei videoclip veri e propri (anche perché le immagini di repertorio non sono comunque moltissime), mi interessava più che altro raccontare attraverso poche immagini, poche parole e alcuni simboli ricorrenti (come i flash degli spari e le croci). Se non ci fossero i visual penso che nessuno capirebbe cosa sto facendo durante i concerti, i pezzi sarebbero fini a se stessi e ci sarebbe addirittura il rischio che venissero ascoltati con le stesse “intenzioni” di quelli dei dischi precedenti, dandone una interpretazione grottesca e quindi sbagliata. I video della seconda parte del concerto (i cui suono appunto pezzi presi dai dischi precedenti) sono addirittura spesso più truci di quelli di Uno Bianca, ma tutto sommato vengono vissuti con più leggerezza dalla gente.

Uno Bianca è stato oggetto di critiche per una sbagliata interpretazione dei tuoi intenti; se ne è parlato molto sul web. Te l’aspettavi una cosa del genere? Cosa hai pensato quando hai letto l’articolo in questione su “Il Resto del Carlino”?
Ho pensato che a questo mondo non c’è proprio speranza… L’articolo (quello che ho condiviso su Facebook è solo uno dei tre usciti anche sul cartaceo) è stato scritto dopo essere stato un’ora al telefono con uno dei loro giornalisti a cui ho spiegato per filo e per segno tutto di me, del mio progetto e di quello che ho fatto nella vita, giusto per non lasciare delle zone d’ombra. Però niente da fare, evidentemente avevano già deciso tutto prima di contattarmi e nonostante io abbia mandato il disco alla redazione del giornale, è palese che l’articolo fosse in pratica tutto già scritto prima ancora di contattarmi. Come è palese che nessuno ha ascoltato gli mp3 che ho mandato. Questi articoli poi hanno sollevato degli strascichi di polemiche molto fastidiose, a dirla tutta. Io ho solo raccontato in musica una storia, ma evidentemente questa cosa non si può fare. Davvero non capisco.

Questa è una domanda personalissima, o forse no. Nelle tue produzioni musicali ti sei quasi totalmente discostato dal concetto di “canzone”. In Uno Bianca i testi sono quasi del tutto assenti. Tuttavia ho sempre avuto difficoltà a scollegare totalmente la tua musica dalle parole, perché non immagini la quantità di parole che viene fuori dalla mia penna dall’ascolto di Bologna Violenta. Come la mettiamo con questo aspetto della tua musica?
Eh… bella domanda… Penso che il tutto nasca dal fatto che sono cresciuto con la musica classica, soprattutto quella sinfonica e da camera (quindi molto poco cantata) e non sono mai stato molto legato ai testi delle canzoni. Mi sono sempre perso nell’ascolto dei suoni più che nel capire il significato dei testi. Quando devo fare musica mia non mi viene mai l’idea di metterci una voce o un testo per così dire “tradizionali”. Non amo cantare (e non riesco a ricordare i testi delle canzoni), ma mi piace mettere delle piccole parti parlate per dare un senso più compiuto a ciò che sto cercando di comunicare (vedi ad esempio “Morte” o “Maledetta del Demonio). Nell’ultimo disco ci sono poche parole, ma c’è la guida all’ascolto che è comunque una parte fondamentale dell’intero lavoro. Come dire, di testi ce ne sono, a volte sono poche parole, ma devo dire che spesso celano dei mondi molto più grandi di quello che può sembrare. Forse è semplicemente perché nella vita tendo ad essere logorroico, quindi nella mia musica cerco di essere sintetico.

Forse è troppo presto per parlare di bilanci, Uno Bianca è uscito da poco e tu sei a metà del Tour di promozione. In ogni caso, te la senti di dirci come sta andando? Si tratta di utopie o di piccole soddisfazioni?
Penso di poter tranquillamente parlare di grandi soddisfazioni. Il disco, pur nella sua complessità, piace molto alla gente e i concerti sono un momento molto forte, in cui il pubblico se ne sta in silenzio per quasi un’ora a guardare con attenzione e a subire la violenza che esce dall’impianto. Spesso a fine concerto scattano dei lunghi applausi a cui non sono davvero abituato e questo mi fa pensare di aver fatto un buon lavoro, che nonostante sia lontano da quello che la gente ascolta normalmente, riesce comunque ad arrivare al cuore di è presente al concerto.

C’è un’esibizione live che più ti ha emozionato finora o alla quale tieni particolarmente?
Questa è una domanda difficile… Ogni data è speciale per molti motivi e devo dire che questo tour mi sta portando anche in posti dove non avevo mai suonato, trovando un forte riscontro di pubblico anche nelle serate nei posti meno tradizionali. Le prime date, quelle all’interno del Woodworm Festival sono state molto impegnative da un punto di vista emotivo, almeno per me, visto che non sapevo assolutamente cosa avrebbe recepito il pubblico e se sarebbe piaciuto il nuovo spettacolo.

Rileggendo una tua intervista di un paio d’anni fa su Rockambula, ho sorriso di fronte alla tua risposta alla domanda “La tua paura più grande?” (Cito:  Ho paura che tutto possa cambiare da un momento all’altro e dover ripartire. Di nuovo (…) Vorrei un po’ di tranquillità). Sei riuscito a trovare la tranquillità che ti eri augurato qualche tempo fa?
Ricordo quell’intervista e ad oggi non mi sembra che le cose siano molto cambiate. C’è da dire che sto lavorando molto, quindi il periodo è assolutamente positivo, ma ho anche capito che quel tipo di tranquillità che ricercavo un paio di anni fa non è ancora così vicino come pensavo. Però molte cose sono cambiate nel frattempo, ho un’idea più chiara di chi sono e di cosa voglio e posso fare nella vita, quindi sono più tranquillo da questo punto di vista. Mi sono anche reso conto che le ripartenze fanno parte della mia vita (e penso anche di quella di molti), quindi ogni volta vado avanti senza pensare troppo al passato o a quello che è stato e cerco di dare il meglio ogni giorno.

Hai già nuovi programmi per il “post” Uno Bianca? Ci sono già dei progetti futuri in ballo?
Ho sempre molte idee che mi girano in testa, e sto anche pensando al “post” Uno Bianca, ovviamente. Attualmente sono impegnato su parecchi fronti, collaborando con vari artisti come arrangiatore, violinista o produttore, quindi tra il tour e questi vari lavori non ho molto tempo per pensare al futuro di Bologna Violenta, ma sto già cominciando a raccogliere materiale per quello che potrebbe essere il prossimo disco.

Grazie mille Nicola. Per concludere, c’è qualcosa che non ti ho chiesto, alla quale ti sarebbe piaciuto rispondere?
Grazie mille a te per lo spazio che mi hai concesso. Tengo solo a precisare che non uso synth e tastiere varie per ricreare il suono degli archi. Faccio delle lunghe session di registrazione in cui registro tutti gli strumenti. Giusto perché qualcuno parla di “tastiere” riferendosi agli archi…

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Bologna Violenta 15/03/2014

Written by Live Report

Il 15 marzo era una data che aspettavo da molto tempo; da almeno due anni infatti (a meno che la memoria non mi faccia brutti scherzi) Nicola Manzan alias Bologna Violenta non si faceva vedere da queste parti. A dare un ulteriore valore a questo week-end si è aggiunta, inoltre, la visita inaspettata in uno special guest ti tutto rispetto con il quale ho il piacere di avere in comune parte del patrimonio genetico, ma questa è un’altra storia. Come spesso accade mi trovavo al Blah Blah, ed il pubblico che animava i portici e l’interno del locale, quella sera, era davvero molto variegato: abbigliamenti “normali” affiancati a look sovversivi da pirata, con comparse sporadiche di chiome dal colore cangiante, dal blu elettrico al rosso vivo.

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Mi sento comunque di dire che il colore predominante era il nero, nella sua variante di nero con borchie. Anch’ io per l’occasione ho deciso di sfoderare il mio finto pellame da combattimento lasciando però le borchie a casa; non avrei mai voluto esagerare con la sobrietà. Tra i look “estremi” che mi circondano, vince il primo premio quello del tizio capellone e cotonato che mi ritrovo davanti durante il concerto, e che per l’occasione ho deciso di ribattezzare “Mufasa” (chi come me ha passato parte dell’infanzia a piangere durante la visione del Re Leone sa di cosa parlo). Il concerto è aperto dai Seitanist, ma l’attesa è tutta per Bologna Violenta che presto si palesa sul palco carico di strumenti accompagnato da Nunzia, carichissima anche lei. Un brevissimo soundcheck  per Nicola, e poi subito si riparte.

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Uno Bianca, l’ultimo album di Manzan, viene suonato per intero, senza interruzione: 27 brani di pura violenza emotiva per raccontare uno dei peggiori fatti di cronaca nera avvenuti in Italia, accompagnati da immagini di repertorio, video di quegli anni e scritte essenziali che meglio aiutano a descrivere i fatti e a comprendere la tragicità degli eventi. Si tratta di video minimalisti, essenziali nella loro forma, di contorno alla vera protagonista che rimane sempre e comunque la musica, che da sola riesce davvero a narrare e ad esprimere tutta l’angoscia, la violenza ed il terrore legato a quegli anni tristissimi. Terminata la performance legata ad Uno Bianca, Manzan procede con alcuni pezzi memorabili tratti dagli ultimi suoi due album; in questo caso i video di accompagnamento alla musica si fanno decisamente più espliciti sia nelle immagini che nei contenuti (Manzan non ti perdonerò mai per avermi fatto assistere alla decapitazione di un toro! Sappilo!). Terminato il concerto, Mufasa ed il suo branco assalgono BV con le loro domande. Io passo a salutare Nunzia nell’area “merch” e subito dopo raggiungo anch’io il mio branco. Mentre mi perdo in un interminabile monologo interiore di cui questo live report è figlio, penso che stavolta Manzan abbia superato sé stesso dando vita non solo and un album degno di nota, ma mettendo in scena un vero e proprio “spettacolo” dal forte valore emotivo, capace di coinvolgere anche i meno amanti del genere; un qualcosa che va oltre un semplice concerto, e che è legato in qualche modo col concetto di Memoria, per non dimenticare ciò che è stato, per fare in modo che non accada più.

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Lili Refrain

Written by Interviste

Una  promessa, ecco cosa è Lili Refrain; una ragazza dalle mille doti  che è riuscita, attraverso la sua musica, a estirpare ed emanare il  lato più oscuro e creativo della sua persona. L’artista è  riuscita  in poco tempo a pizzicare l’attenzione dei critici e degli appassionati. Tra una chiacchiera e l’altra siamo riusciti a scoprire particolari  davvero interessanti oltre ai dietro le quinte delle canzoni  di Kawax.

Ciao Lili e benvenuta su Rockambula. Direi di iniziare questa intervista raccontandoci un po’ di te: chi è Lili, quando e come è nata artisticamente, da chi è influenzata e quali sono le sue aspirazioni?
Ciao a te e grazie per questo spazio! Ho sempre ascoltato moltissima musica fin dalla primissima infanzia ed ho sempre associato a questo linguaggio la più potente forma di comunicazione, libertà ed evasione. Ho trovato recentemente delle foto di quando ero piccola e imbracciavo molto spesso una chitarra immaginaria facendo finta di suonarla, credo tutto sia iniziato da lì. Ho sostituito l’immaginazione con una chitarra in legno, corde e anima all’età di tredici anni e pur non avendo mai studiato questo strumento non me ne sono mai più separata. Lili è diventata una parte di me nel 2007 dopo diversi anni passati a suonare la chitarra in diverse band,  ha iniziato a prendere il sopravvento in tutti quei momenti in cui emozioni, pensieri e visioni hanno avuto la forte urgenza di uscire fuori, da quel momento è nato il mio progetto solista e ho iniziato a mescolare differenti generi tra loro creando il mio personalissimo diario di bordo musicale. A livello di influenze sonore c’è sicuramente il blues, la psichedelia, il metal, la musica classica e anche un po’ di quel teatro sperimentale dove la voce assume un ruolo prettamente gestuale. Le miei aspirazioni sono quelle di continuare ad ascoltare e fare musica a 360°

Kawax è il tuo nuovo album; per qualcuno le tematiche sono parse come un continuo di quelle del disco 9. Ma a parer tuo quali sono le principali differenze tra i due dischi in generale?
9 è un album molto più barocco e complesso dal punto di vista compositivo rispetto a Kawax, è decisamente più virtuoso a livello tecnico e anche un po’ dimostrativo in un certo senso. Dopo due anni dall’uscita del primissimo disco autoprodotto,  avevo  l’esigenza di spingere al massimo livello le potenzialità compositive della stratificazione sonora senza mai sfociare nel Noise, lasciando molto spazio alla melodia e ripercorrendo volutamente quella che è stata la mia iniziazione musicale. Non a caso è un album pregno di citazioni che omaggiano alcuni dei miei punti di riferimento soprattutto in campo chitarristico. Kawax vede la luce tre anni dopo, nel mentre si sono susseguiti centinaia di live sia in Italia che in Europa e sono accadute anche moltissime cose nella mia vita privata.
È un disco che nasce da esigenze totalmente diverse e durante un periodo abbastanza buio in cui ho vissuto dolorose separazioni. La necessità che mi ha portato a questo album è stata estremamente viscerale e meno cervellotica, visto il bisogno estremo di esorcizzare in modo più immediato e diretto ciò che mi è capitato in questi ultimi anni. Anche a livello sonoro sono due album molto differenti, Kawax si porta sicuramente dietro tutto il bagaglio dei numerosi concerti fatti prima della sua uscita e i brani eseguiti evocano molto di più le atmosfere del live rispetto a 9.

Come nasce un pezzo di Lili Refrain, hai qualcosa che ti da inspirazione?
Solitamente quando sento l’esigenza di scrivere un brano significa che c’è qualcosa che non va. Quando  si è felici non si è molto ispirati perché tutte le energie sono convogliate a gustarsi quel determinato momento di gioia, io per lo meno cerco di gustarmeli un bel po’ quando capitano. Un mio brano nasce quindi da momenti meno luminosi, più riflessivi e scomodi emotivamente al punto da sentire la necessità di tirarli fuori in qualche modo, è un atto necessario, è come un esorcismo. Mi chiudo in una stanza e non esco finché non sono esausta, è una grande fortuna per me che in quella stanza ci sia un amplificatore e una chitarra, sarebbe potuto andarmi molto peggio!

In Kawax troviamo anche la partecipazione di alcuni ospiti d’ eccezione: gli Inferno Sci-Fi Grind’n’Roll; come è nato l’ incontro e perché hai scelto proprio loro?
Gli Inferno li conosco da moltissimi anni, soprattutto Valerio Fisik che oltre ad essere un chitarrista è anche l’eccellente fonico con il quale ho registrato tutti e tre gli album che ho prodotto fino ad ora. Due anni fa abbiamo deciso di partire insieme per un lungo tour in Europa e ci siamo tutti profondamente legati, la loro presenza era d’obbligo in quest’album, soprattutto in “Tragos” che molto spesso abbiamo eseguito insieme dal vivo proprio durante il tour. Oltre a loro ci sono anche altri due ospiti d’eccezione che sono Valerio Diamanti, il batterista dei Dispo che suona la batteria in “Baptism of Fire” e Nicola Manzan aka Bologna Violenta che ha impreziosito il brano finale con degli splendidi archi.

Anche la copertina di Kawax  è interessante, chi l’ha realizzata e perché hai scelto proprio quell’immagine?
Il disegno è opera di un’artista argentina che vive da anni a Roma e di cui ho sempre apprezzato moltissimo il lavoro, si tratta di Fernanda Veron che ho avuto modo di conoscere molto più a fondo grazie alla collaborazione con questo album. L’immagine rappresenta un sogno che ho avuto in un momento piuttosto difficile, avevo da poco perso mio padre e sono sprofondata in uno stato abbastanza buio d’esistenza, è una sorta di minotauro che è venuto a trovarmi nel tentativo di indicarmi l’uscita dal labirinto. E’ un’immagine per me molto evocativa, potente e anche estremamente positiva perché mi ha permesso di attivarmi e smuovere ciò che sembrava irrimediabilmente pietrificato in quel determinato frangente.

Invece della Subsound Records e Sangue Dischi cosa ci dici, come è nata la collaborazione?
Davide e Luca sono due persone che apprezzo e stimo moltissimo ed è per me motivo di estremo giubilo averli insieme in questo viaggio. Con Davide desideravo collaborare da tempo perché ritengo che con la Subsound faccia davvero un eccellente lavoro e avere una label che ti sostiene così tanto lavorando costantemente insieme è qualcosa di meraviglioso per un musicista, soprattutto per me che non avendo un gruppo ho sempre provveduto a tutto per conto mio. Luca lo conosco da anni e abbiamo condiviso palchi e collaborazioni, era diverso tempo che mi proponeva di fare uscire un disco con la sua etichetta e alla fine ce l’abbiamo fatta, questo è il mio primo vinile ed è una soddisfazione pazzesca!

Una domanda a bruciapelo: nella recensione ho detto che molto probabilmente i film sulle streghe di Dario Argento con una colonna sonora alla Lili Refrain avrebbero fatto ugualmente una bella figura, ritrovandosi un interessante tocco sinistro diversamente inquietante rispetto a quello dei Goblin. Tu cosa ne pensi?
Non saprei, non riesco proprio ad immaginarmelo un Argento senza Goblin! Ricordo che da piccola quando mi capitava di ascoltare la colonna sonora di Suspiria e senza mai aver visto il film, mi cacavo sotto in una maniera incredibile! Mi faceva una paura pazzesca quel disco!
Non credo che la mia musica abbia lo stesso effetto terrificante… ma grazie per l’associazione!

Parlando della tua teatralità cosa ci dici? A chi ti rifai per questa?
Quando suono dal vivo sento la necessità di tener separata la mia vita ordinaria da quella stra-ordinaria vissuta durante un concerto. Ho bisogno di rievocare e rivivere determinate sensazioni per eseguire un brano in tutta la sua essenza. È questo il motivo per il quale Lili Refrain ha il suo trucco guerrigliero, i suoi simboli e il suo abito di scena. Se non lo facessi e non assumessi un “ponte” tra me e la mia musica, rischierei di perdermi a lungo andare, di compiere dei gesti meccanici privi di “anima”. Più che teatralità si tratta quasi di un vero atto sciamanico, ma in fondo i concerti dal vivo non sono forse uno dei più potenti rituali collettivi che ci capita di celebrare?

Ho notato alcuni show sul tuo canale Facebook, hai seguito un criterio per scegliere le date in cui suonare? Riuscirai a venire anche a Napoli?
Magari! Napoli è una città che adoro! La prima volta che ci sono stata sapevo esattamente dove andare ed era incredibile dato il mio pessimo senso d’orientamento, era come se la città stessa mi guidasse, spero di tornarci molto presto! Riguardo al criterio della scelta della date è del tutto punk, non ho alcuna agenzia alle spalle, le date le trovo quasi sempre da sola e dopo sette anni di e-mail mandate nell’ovunque e una quantità industriale di concerti sparsi in tutta Italia, ho la soddisfazione di ricevere spesso richieste da parte di chi organizza i live, l’abilità sta poi nell’unire i pezzi mancanti per creare un viaggio sensato, soprattutto quando si viaggia in treno! Insomma, dipende un po’ da cosa capita ma a Napoli conto di tornarci presto, anche perché ho un album nuovo da presentare!

Ho notato nei tuoi lavori che strizzi un po’ l’occhio all’esoterismo. Se è un tuo interesse come è nato, cosa ti ha fatto scattare la molla?
Esoterismo è un termine forse un po’ troppo abusato e delle volte viene chiamato in causa rischiando di confondere un po’ le idee.
Per quel che mi riguarda ho un’attività onirica decisamente molto intensa che mi ha portato a fare diverse ricerche nel tentativo di interpretare i simboli che mi apparivano di volta in volta. Ci sono una miriade di cose che conosciamo senza sapere di conoscere e non c’è nulla di esoterico o magico in tutto ciò,  si tratta di qualcosa di atavico, impresso nel nostro DNA dai tempi dei tempi, solo che abbiamo bisogno di input per destare la nostra memoria o almeno questo è quello che capita a me… i miei lavori sono profondamente connessi alla mia vita personale, ai miei sogni e credo di strizzare l’occhiolino molto più a loro che non ad altro.

Bene Lili, l’intervista si chiude qui, concludi come meglio ti pare…
Grazie ancora per quest’intervista Vincenzo, concludo lasciando un po’ di link dove è possibile ascoltare ciò che faccio e trovare tutte le date aggiornate dei miei prossimi concerti:

http://lilirefrain.blogspot.it/
http://lilirefrain.bandcamp.com/album/lili-refrain
https://www.facebook.com/lilirefrain
http://www.youtube.com/shippinghead
http://subsoundrecords.it/
http://sanguedischi.com/

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Il Video della Settimana: Bologna Violenta – 23 dicembre 1990 – Bologna: Assalto Campo Rom

Written by Senza categoria

“23 dicembre 1990 – Bologna: assalto campo Rom” è il primo video tratto da Uno Bianca, il concept di Nicola Manzan alias Bologna Violenta sulla Bologna insanguinata dalle gesta della famigerata banda comandata dai fratelli Savi. Dopo le tante recensioni positive su questo disco, non mancate alcune critiche, tra cui quelle aspre e probabilmente gratuite lanciate sulle pagine del portale web de Il Resto del Carlino.

Per Rockambula, Uno Bianca resta un album pregevole, che commemora aiutando a ricordare e senza mai offendere la memoria di nessuna delle vittime. La nostra scelta della settimana è la conferma del nostro pieno apprezzamento. Il video di “23 dicembre 1990 – Bologna: assalto campo Rom” è disponibile di seguito e in homepage fino a sabato prossimo.

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Non tutto può essere giornalismo, ovvero, come essere superficiali su Il Resto del Carlino.

Written by Senza categoria

Non tutto può essere giornalismo e quello che stiamo per illustrarvi crediamo proprio che non lo sia. Solo l’altro ieri è apparsa, sulle pagine web del noto quotidiano nazionale, una news che noi fagocitatori di Rock non potevamo certo far passare inosservata (la trovate qui). Titolo “Non tutto può essere rock”. L’argomento è Bologna Violenta e il suo ultimo album Uno Bianca. Il giornalista è Beppe Boni. La sua non è una recensione ma  una pseudo accusa che parte dall’idea che Nicola Manzan (alias BV ma forse lui non lo sa) abbia voluto semplicemente spettacolarizzare un evento drammatico. Accusa che sfiora il ridicolo e che finisce per diventare lo strumento che smaschera l’impreparazione del giornalista, almeno in ambito musicale.

Parla del disco Uno Bianca Tour (ma che c’entra il termine tour?) e poi scrive:”I parenti delle vittime per loro ammissione sapevano e non sapevano”; ma che diavolo di informazione è questa? Scrive ancora:”esce tragicamente dal buon gusto dato che sulla scena, quella vera, ci sono 24 morti e 102 feriti, i brani sono solo strumentali.” Ora, fermo restando che non capisco perché trattare un evento tragico in musica sia uscire dal buon gusto, che diavolo vuol dire che i brani sono strumentali?

Probabilmente se il dott. Boni avesse davvero ascoltato l’album in questione ne avrebbe colto il trasporto e la violenza emotiva nel raccontare in musica tale immane tragedia, cosa che molto probabilmente le generazioni che non hanno vissuto quegli anni di orrore sono riusciti a fare. Ma questo richiede tempo, passione e una sensibilità che va oltre il semplice titolo di un disco. Non tutto può essere rock, è vero, ma nulla può essere trattato con superficialità, almeno da un giornalista.

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Bologna Violenta – Uno Bianca

Written by Recensioni

Con l’uscita, nel 2012, di Utopie e Piccole Soddisfazioni, Nicola Manzan, in arte Bologna Violenta, ha fissato per sempre i paletti della sua espressione stilistica, permettendoci di distinguerlo al primo ascolto, anche in assenza quasi totale della voce, sua o di chi altri. Con quel terzo disco, il polistrumentista già collaboratore di Teatro Degli Orrori, Non Voglio Che Clara, Baustelle, sembrava gridare all’Italia la sua ingombrante presenza, divenendo poi uno dei punti fermi (grazie anche alla sua etichetta, Dischi Bervisti) di tutta la scena (ultra) alternativa che non si nasconde ma si offre in pasto a ogni sorta di ascoltatore, dai più incalliti cantautorofili, fino agli inguaribili metallari. Nicola Manzan non colloca alcuna transenna tra la sua arte e i possibili beneficiari e allo stesso modo non pone freno alla sua creatività, fosse anche spinto dal solo gusto per il gioco e l’esperimento divertente magari senza pensare troppo al valore per la cultura musicale propriamente detta. Arriva perfino a costruire una specie di storia della musica, riletta attraverso quaranta brani che sono rispettivamente somma di tutti i pezzi composti da quaranta differenti musicisti. Dagli Abba ad Alice in Chains passando per Art of Noise, Barry White, Bathory, Bee Gees, Black Flag, Black Sabbath, Bob Marley, Boston, Carcass, Charles Bronson, Dead Kennedys, Death, Donna Summer, Eagles, Faith No More, Genesis, Jefferson Airplane, Kansas, Kyuss, Led Zeppelin, Michael Jackson, Negazione, Nirvana, Os Mutantes, Pantera, Pink Floyd, Queen, Ramones, Siouxsie and the Banshees, T. Rex, The Beatles, The Clash, The Doors, The Police, The Velvet Underground, The Who, Thin Lizzy e Whitney Houston. Ogni traccia è il suono di tutti i frammenti che compongono la cronaca musicale di quell’artista. Poco più di una divertente sperimentazione che però racconta bene il soggetto che c’è dietro.

Dopo questo esperimento sonico per Bologna Violenta è giunta finalmente l’ora di far capire a tutti che non è il caso di scherzare troppo con la sua musica e quindi ecco edito per Woodworm, Wallace Records e Dischi Bervisti ovviamente, il suo quarto lavoro, Uno Bianca.  Se già nelle prime cose, Manzan ci aveva aperto le porte della esclusiva visione cinematografica delle sue note caricando l’opera di storicità, grazie a liriche minimali, ambientazioni e grafiche ad hoc, con quest’album si palesa ancora più la valenza fortemente storico/evocativa della sua musica, in contrapposizione ai cliché del genere Grind che lo vedono stile violento e aggressivo anche se concretamente legato a temi pertinenti politica e società. La grandezza di Uno Bianca sta proprio nella sua attitudine a evocare un periodo storico e le vicende drammatiche che l’hanno caratterizzato, attraverso uno stile che non appartiene realmente all’Italia “televisiva” di fine Ottanta e inizio Novanta. Il quarto album di Manzan è proprio un concept sulle vicende della famigerata banda emiliana guidata dai fratelli Roberto e Fabio Savi in attività tra 1987 e 1994, che ha lasciato in eredità ventiquattro morti, centinaia di feriti e strascichi polemici sul possibile coinvolgimento dei servizi segreti nelle operazioni criminali. Un concept che vuole commemorare e omaggiare la città di Bologna attraverso il racconto di una delle sue pagine più oscure, inquietante sia perché i membri erano appartenenti alla polizia e sia perché proferisce di una ferocia inaudita. Il disco ha una struttura categorica che non lascia spazio a possibili errori interpretativi e suggerisce la lettura già con i titoli dei brani i quali riportano fedelmente data e luogo dei vari accadimenti. Per tale motivo, il modo migliore di centellinare questo lavoro è non solo di rivivere con la memoria quei giorni ma di sviscerare a fondo le sue straordinarie sfaccettature, magari ripassando con cura le pagine dei quotidiani nei giorni prossimi a quelli individuati dalla tracklist, perché ogni momento del disco aumenterà o diminuirà d’intensità e avrà un’enigmaticità più o meno marcata secondo il lasso di tempo narrato o altrimenti attraverso la guida all’ascolto contenuta nel libretto.

Sotto l’aspetto musicale, Manzan non concede nessuna voluminosa novità, salvo mollare definitivamente ogni legame con la forma canzone che nel precedente lavoro era ancora udibile in minima parte ad esempio nella cover dei Cccp; i brani sono ridotti all’osso e vanno dai ventuno secondi fino al minuto e trentuno, con soli due casi in cui si toccano gli oltre quattro minuti. Il primo è “4 gennaio 1991 – Bologna: attacco pattuglia Carabinieri” che racconta l’episodio più feroce e drammatico di tutta la storia dell’ organizzazione criminale; la vicenda delle vittime, tre carabinieri, del quartiere Pilastro. La banda era diretta a San Lazzaro di Savena per rubare un’auto. In via Casini, la loro macchina fu sorpassata dalla pattuglia e i banditi pensarono che stessero prendendo il loro numero di targa. Li affiancarono e aprirono il fuoco. Alla fine tutti e tre i carabinieri furono trucidati e finiti con un colpo alla nuca. L’assassinio fu rivendicato dal gruppo terroristico “Falange Armata” e nonostante l’attestata inattendibilità della cosa, per circa quattro anni non ci furono responsabili. Il secondo brano che supera i quattro minuti è “29 marzo 1998 – Rimini: suicidio Giuliano Savi”, certamente il più profondo, il più tragico, il più emotivamente violento, nel quale è abbandonata la musica Grind per una Neoclassica più adatta a rendere l’idea di una fine disperata, remissiva e da brividi. L’episodio che chiude l’opera è, infatti, il suicidio del padre dei fratelli Savi, avvenuto dentro una Uno Bianca, grazie a forti dosi di tranquillanti e lasciando numerose righe confuse e struggenti.

Come ormai abitudine di Manzan, alla parte musicale Grind si aggiunge quella orchestrale e a questa diversi inserti sonori (a metà di “18 agosto 1991 – San Mauro a Mare (Fc): agguato auto senegalesi” sembra di ascoltare l’inizio di “You’ve Got the Love” di Frankie Knuckles ma io non sono l’uomo gatto) che possono essere campane funebri, esplosioni, stralci radiotelevisivi, rumori di sottofondo, e quant’altro. Tutto serve a Bologna Violenta per ricreare artificialmente quel clima di tensione che si respirava nell’aria, quella paura di una inafferrabile violenza. Ora che ho più volte ascoltato i trentuno minuti di Uno Bianca, ora che ho riletto alcune pagine rosso sangue di quei giorni, comincio anche a ricordare meglio. Avevo circa dieci anni quando cominciai ad avere percezione della banda della Uno bianca e ricordo nitidamente nascere in me una paura che mai avevo avuto fino a quel momento. Il terrore che potesse succedere proprio a me, anche a me, inquietudine di non essere immortale, ansia di poter incontrare qualcuno che, invece di difendermi giacché poliziotto, senza pensarci troppo, avrebbe potuto uccidere me e la mia famiglia non perché folle ma perché uccidermi sarebbe servito loro a raggiungere lo scopo con più efficacia e minor tempo. Ricordo che in quei tempi, anche solo andare in autostrada per raggiungere il mare era un’esperienza terrificante, perché l’autostrada è dove tutto cominciò. “19 giugno 1987 – Pesaro: rapina casello A-14”, qui tutto ha inizio; una delle storie più scioccanti d’Italia e uno degli album più lancinanti che ascolteremo quest’anno.

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Nuovo disco work in progress per Bologna Violenta

Written by Senza categoria

Non c’è ancora una data d’uscita né un titolo, ma Nicola Manzan alias Bologna Violenta  dice di non preoccuparsi: ha cominciato a lavorare al suo nuovo album e promette del “terrore puro”.  Sulla sua pagina facebook annuncia inoltre che ha ufficialmente richiesto alla Biblioteca di Rimini la fotografia che farà da copertina al suo nuovo lavoro. Si susseguono uno dopo l’altro gli indizi che rendono più curiosa l’attesa. Armatevi di pazienza, bisognerà attendere ancora.

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La Band Della Settimana: La Nuit

Written by Novità

Sono i La Nuit la nuova band della settimana scelta da Rockambula webzine.

Testi introspettivi, atmosfere oscure e graffianti e grande fisicità on-stage: questa la ricetta del Rock Crepuscolare dei LA NUIT. Il progetto nasce nell’inverno del 2011 con Marco Mangone alla chitarra, Andrea Spinelli alla batteria e Matteo Terzi (ora busker itinerante conosciuto come Soltanto) alla voce. Dopo l’abbandono del progetto da parte di Matteo e diversi cambi di line-up al basso (Pietro Ferrari e successivamente l’attuale Marco Arpigliano) subentra Giulio De Busti alla voce.

La band inizia a suonare in diversi live club ed eventi e dopo 2 anni e mezzo di attività raggiunge la quota di 40 live-show tra Lombardia e Piemonte. Nel 2011 vince il Bià Music Contest grazie al voto in giuria di Manuel Agnelli (AFTERHOURS) e suona davanti a 300 detenuti del carcere Torre del Gallo di Pavia.

26 Gennaio 2013 – La band rilascia il primo full-lenght autoprodotto di 12 tracce: INTRODUZIONE AL BIMBO INSONNE. Il disco viene presentato al Tambourine di Seregno dove i LA NUIT fanno da opening act a ROBERTO DELLERA & RODRIGO D’ERASMO. I LA NUIT hanno suonato con: ROBERTO DELLERA & RODRIGO D’ERASMO, BOLOGNA VIOLENTA, MORKOBOT, LOVE IN ELEVATOR, LUBJAN, AIM, IO?DRAMA, MANTRA ATSMM …

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