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Mark Lanegan Band – Blues Funeral

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Ci aveva lasciato con Bubblegum nel 2004, otto anni d’altro in cui Mark Lanegan ha frequentato altre piste sonore, si è dato a nutrire amicizie collaudate e collaborazioni musicali lasciandosi alle spalle le sue ombre, l’alito alcolizzato ed il puzzo di nicotina come preso da un’ossessione di uscire dal seminato per far perdere le sue tracce da uomo dannato; poi il ripensamento, la voglia di tornare a scrivere di pugno la summa di queste nuove esperienze e le circoscrive in Blues Funeral, l’album del ritorno sulle scene nella morfologia come lo avevamo conosciuto, bello e dannato con i suoi fantasmi blues, le nevrosi rock e appeso ad una voce che fa salire e bollire il sangue come in un tino di mosto eccellente.

Nessuna trasformazione, nessuna sopravvivenza al tempo che scorre, solo un’ombra che si riforma per seppellirti d’eccellenze musicali floreali (già la cover è un preludio al divino fango in cui quei fiori hanno gli steli infilzati) e per condurti nel fondo delle sue stanche umane, senza maschere, parti o copioni da riassumere, Lanegan ama sempre la sua solitudine ma ha imparato a spalancare i suoi vizi al mondo, ci aggiunge un’ elettronica dosatissima e ci ospita  negli androni delle sue storie affaticate e splendide; un artista che è uscito dagli anni novanta col coraggio, da sempre nella maledizione umana delle grandi firme americane e presente nell’oggi con una forza malata che lo contraddistingue tra le poetiche più diverse e lo trascina a rappresentare ovunque quell’anima selvaggiamente irsuta che commuove e fa incazzare.

L’ex voce degli Screaming Trees, accompagnato da Greg Dulli, Josh Homme e Jack Irons e prodotto dal californiano Alain Johannes, srotola ben dodici tracce avvinazzate, laide di poemi e sguardi in tralice che tradiscono una vena – non più sclerotica – che pare sorridere sotto i baffi durante i resoconti sonori che passano uno dietro l’altro; orecchie dritte sui paesaggi oscurati che cadono in “Gray goes black”, sopra la magrezza intima ed acustica di “Deep black vanishing train”, il mantello wave che ricopre “Ode to sad disco”, i riff roboanti che graffiano “Ryot in my house”, “The gravedigger’song”, ed il blues denutrito ed impossessato che  si fregia in “Bleeding Muddy Waters”.  

Tutto quello che rimane intorno è vita vissuta fino alla ghiandole dello spirito, un Lanegan che muore e rinasce nello stesso momento che un brano finisce ed un altro che si fa avanti senza chiedere mai permesso.  

 

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