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Alice in Chains – The Devil Put Dinosaurs Here

Written by Recensioni

Quattro anni fa – diciamocelo con chiarezza – Black Gives Way To Blue ci aveva lasciato più che con un amaro in bocca, troppo forte il dislivello creativo e di sollazzo maledetto del dopo Stayley, e ancor più forte lo stordimento mai rappreso della perdita di quest’ultimo, ma ora come per azzittire le numerose illazioni su di loro, gli Alice in Chains al comando di Cantrell ci riprovano con The Devil Put Dinosaurs Here, il disco che – più o meno – ribadisce il lugubre fascino malato delle altre produzioni, anzi con più affondi funerei e malinconici che spaziano come amebe impazzite nelle riappropriazioni delle colorazioni dark del marchio AINC.

Molti – appunto – sono immobili nelle convinzioni e  fanno ancora il paragone estetico e vocale Stayley/William DuVal, ma sono solo quegli attaccamenti umorali di chi non si convince ancora alla sostituzione “forzata”, ma quello che conta è che la formazione rinasca dalle castranti modalità di confronto e seguiti a forgiare una nuova stagione d’oro e di una rinnovata coscienza e questo disco – incastonandolo tra estasi e rinascita – torna ad esprime in grandeur quella esperienza mistico-animistica  del sulfureo, quelle meravigliose e prodighe ombre profonde che sacralizzano l’insacrabile; dodici tracce che hanno lo spirito della notte, psiche ed entusiasmi maestosamente sostanziali sono l’ossatura di un album che porta la band americana ai punti caldi della loro storia, dei loro demoni nascosti e i fantasmi cordofoni della loro arte mefistofelica.
Disco a due mandate, da una parte la discesa negli inferi fumiganti della dissolutezza atmosferica “Pretty Done”, la titletrack, “Phantom Limb”, alcune appartenenze doom Sabbathiane “Stone”, “Hollow”, dall’altra gli strati benevoli dell’appunto “rinascita, quel forte respiro di apertura immacolato come a redimersi verso un paradiso slabbrato “Voices”, “Lab Monkey”, la bellissima ballad “ Scalpel” o l’abbraccio di un sole d’inverno “Choke”; grande armonia e altrettanta voglia di essere presenti, gli AINC sono di nuovo sui sentieri della padronanza sonora, e ancora sulle orme di quel loro insaziabile viaggio ai confini dell’assurdo reale che dell’angoscia,  dell’ossessione e della estenuante necessità di ripetersi nella immaginifica di un non raziocinio, ne scarica il fasto e l’irreversibile cianotica bellezza.

Un marchio che non avrà mai fine!

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