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Neil Holyoak – Rags Across the Sun

Written by Recensioni

Intriso di senso estetico. Questa è la prima considerazione che pare logico tirare fuori dopo un ascolto veloce di Rags Across the Sun, quinto album in studio dell’artista yankee-canadese Neil Holyoak, originario di Los Angeles ma di stanza a Montreal. Splendore che s’intravede già dalla cover in cui l’immagine un po’ banale di lui che guarda languido altrove, mentre serra le braccia come a chiudersi in se stesso, si staglia su un paesaggio fantastico ma ambiguamente plastico, tra colori vintage e profumi di una primavera giunta troppo in fretta. Sul retro le stesse sfumature regalano emozioni di tutt’altro volto; libertà e quella malinconia di luoghi che non si conoscono con il sapore della speranza e uccelli, gabbiani e il mare immenso che segna il confine invalicabile dalle orme degli uomini che non sanno sognare. Una piacevolezza leggiadra che finisce per imprimere la sua effige anche sugli undici brani dell’album numero cinque (segue All These Mountains Look the Same del 2006, l’omonimo del 2008, Better Lions del 2010 e Silver B_oys del 2013) dell’artista nordamericano. Undici canzoni che muovono dal cantautorato di Townes Van Zandt, dalla poesia simbolista francese e dal Blues acustico maliano per sfociare in ambientazioni Folk tipicamente statunitensi, in stile molto Okkerville River anche se meno Rock (il timbro vocale ha non pochi punti in comune con i colleghi di Austin).

Undici pezzi che, nonostante la complessità compositiva, mostrano una leggiadria, armonia ed eleganza intensa e semplice, fatta di note leggere e parole cantate con grazia sopraffina. Melodie orecchiabili quanto basta senza scadere mai in ritornelli superficiali. Arrangiamenti mai eccessivi che donano una nuova magia a testi carichi d’immagini e suggestioni. Un disco che non merita parole troppo spinose per essere descritto, che non si costruisce su obiettivi alti, contorti, che non ha l’arrogante pretesa di cambiare il corso degli eventi o fare da rivoluzionario pungolo per la nostra arte preferita. C’è una parola tanto carica quanto eccessivamente usata che solitamente non amo usare perché quasi svuotata oggi dei suoi significati puri. Una parola che ho deciso di tirare fuori ancora una volta solo per questo disco, bellissimo.

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