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Valentina Dorme – La Estinzione Naturale di Tutte le Cose

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Dai piccoli dettagli si può capire già quanto questo gruppo sia curato e affamato, elegante e spietato. L’articolo “La” dona al sostantivo “Estinzione” autorità e antico fascino, per un titolo che è un macigno scaraventato dall’alto verso il basso. Il sonno di Valentina è pesante proprio come questo macigno ma senza esprimere la crudezza, la ruvidità (e forse pure un po’ di volgarità) del Rock di alcuni loro colleghi di suono come Massimo Volume o Teatro degli Orrori. Rimane sempre ben pettinato, e forse proprio per questo riesce ad essere ancora più efficace, arrivando alle viscere con leggiadri movimenti. Esaltando una poesia mai retorica e fine a se stessa. La storica band veneta vanta ormai ventitré anni di attività alle spalle e questo è solo il quarto disco in carne ed ossa che pubblicano, sintomo probabilmente del fatto che qui dietro c’è un lavoro apocalittico, di arrangiamenti curati a puntino. Un vestito su misura per parole cucite con attenzione quasi maniacale, senza perdersi troppo però in sfarzi e fredde dimostrazioni di sapere. Niente è buttato al caso in questo piccolo gioiello sempre ben equilibrato sulla voce di Mario Pigozzo Favero, a partire dal cupo e jazzaggiante inizio di “A Colpi d’Ascia”, che sfocia in un’esplosione di Indie Rock da manuale. Tagliente e sinistra come la miglior carrellata di film noir. “Ricordi Cagna?” potrebbe facilmente cadere in banalità, ma la cattiveria è ben vestita questa sera e a suo modo semplicemente Pop. Attenzione, non per questo fa meno male. Quando spunta il sax poi tutto perde senso, come un insano ballo sotto la pioggia.Il sentimento di mortalità e di fine pervade in tutto il disco. Il caso del giovane nuotatore in “Cronaca Sportiva Minore” ricorda la drammaticità de “La Guerra è Finita” dei Baustelle, il fallimento e la disperazione non fanno perdere però l’istinto umano di reagire in un pezzo di rara bellezza come “Una Burla Piccola e Buona”, dove vengono in mente i momenti più curati dei Nobraino. E poi c’è la confusone del “Monsignor Ligresti, Cardinale” innamorato e disperso, storto come la ritmica che accompagna il brano. L’intimità di una fitta analisi di coscienza in “Shanghai” chiude il disco in un sunto perfetto. Un flusso di parole, mai una fuori posto, al limite della correttezza e al limite della poesia: “siamo inevitabili come le suore nelle chiese, con i figli da abortire o da regalare”, “(siamo) la voglia incancrenita di non soffrire”, “siamo irrinunciabili, libri in autogrill”. Questo è un disco di storie per adulti, difficile, ma da ascoltare con somma attenzione dalla prima all’ultima, per non perdersi un pezzo, per ricostruire tutto alla fine. Un minestrone di umanità e delle sue innumerevoli contraddizioni. Una lezione, di musica e di letteratura.

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Dimartino, il nuovo disco esce il 14 Aprile

Written by Senza categoria

Antonio Dimartino, uno dei cantautori più apprezzati della sua generazione, sta lavorando al nuovo album di inediti, il terzo della sua giovane e promettente carriera. L’ultimo suo disco, “Sarebbe Bello non Lasciarsi mai ma Abbandonarsi ogni Tanto è Utile”, risale al 2012 e ha attirato l’attenzione del pubblico e degli addetti ai lavori tanto che, parallelamente al suo percorso cantautorale, l’artista siciliano si è imposto come uno degli autori più ricercati dalle signore del pop nostrano e non solo, firmando i testi di alcune canzoni di Arisa, Chiara Galiazzo e Malika Ayane. Registrato in questi giorni nelle campagne siciliane insieme ai compagni di avventura Angelo Trabace e Giusto Correnti, con l’ausilio di uno studio mobile e la produzione di Fabio Rizzo, il nuovo album uscirà il 14 aprile 2015 e vedrà la collaborazione di tanti artisti e amici. Una su tutte quella di Francesco Bianconi dei Baustelle. I brani ruotano tutti attorno al concetto di “paese”: “Il paese inteso come condizione umana – spiega Dimartino – quello che ti porti dentro ovunque tu vada, il paese necessario a conservare i ricordi”.

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Roipnol Witch – “The Dreamers” [VIDEOCLIP]

Written by Anteprime

“The Dreamers”, è il singolo che sancisce il nuovo percorso artistico della band ed il connubio professionale con Maciste Dischi. Registrato al Noise Factory Studio e prodotto da Alessio Camagni (Ministri, Baustelle, Ioriʼs Eyes…), il brano si presenta come un esplosivo invito a non smettere mai di credere nei propri sogni. Lʼatmosfera spiccatamente pop non perde lʼaggressività tipica delle Roipnol Witch, grazie ad un approccio strumentale sostanzialmente Rock e ad un arrangiamento quanto mai contemporaneo. Il video, prodotto dal giovane regista americano Rob Barriales, è stato girato nella suggestiva cornice di Brooklyn (NY). Le Roipnol Witch sono una band emiliana attiva sul territorio italiano dal 2004. Il loro sound trova le sue radici più nobili nel Punk Rock anni ʼ90, ma risulta ben ibridato grazie ad un approccio Indie-Pop dal largo respiro internazionale, figlio di ascolti e sonorità contemporanee. Vantano apparizioni, interviste e recensioni sulle più importanti piattaforme giornalistiche e televisive del nostro Paese (Rai 1, Corriere della Sera, La Repubblica, Mtv New Generation, Rolling Stone…). Hanno allʼattivo tre Ep, un album ed un lunghissimo tour italiano che ha portato queste novelle Riot Girls ad esibirsi in quasi tutte le regioni dello Stivale. Sono da anni impegnate nel progetto “Rock with Mascara”, movimento nato con la volontà dichiarata di promuovere il Rock femminile italiano e portare lʼattenzione sulla purtroppo quanto mai attuale tematica del femminicidio. Nel dicembre 2014 firmano per la milanese Maciste Dischi, con la quale produrranno e distribuiranno il loro nuovo lavoro, atteso per la primavera 2015.

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Invers

Written by Interviste

In occasione dell’uscita del loro nuovo singolo Montagne, abbiamo scambiato qualche parola con gli Invers, band proveniente da Biella e attiva dal 2008. Il gruppo dono 60 concerti in giro per l’Italia è pronta a ritornare sulle scene con un nuovo album in uscita all’inizio del 2015. Scopriamo qualcosa di più sul loro nuovo progetto.

Ciao ragazzi e benvenuti su Rockambula. Cominciamo parlando del nuovo singolo “Montagne”, è un pezzo d’impatto, dal ritmo serrato quasi ossessivo, descritto da voi stessi come un brano che parla di senso di inadeguatezza e non appartenenza. Com’è nato il pezzo e cosa vi ha ispirato nella sua realizzazione?
I concetti di inadeguatezza e non appartenenza descritti dalle parole di “Montagne” sono stati il vero punto di partenza e spunto per la stesura del brano e della sua parte musicale. Abbiamo cercato di sostenere ed enfatizzare al meglio ciò che le parole descrivono, creando un ambiente sonoro teso, ipnotico e a tratti quasi claustrofobico, che solo in pochissimi e brevi momenti sembra rilassarsi, per poi tornare a contorcersi, proprio per evidenziare il senso di pressione, soprattutto psicologica, che prova chi si sente costretto a confrontarsi ogni giorno con una realtà che da tempo ormai non sente più sua, e che non lascia spazi per trovare uno spiraglio necessario a cambiare la propria condizione.

Sempre parlando di “Montagne” il video, uscito l’11 novembre, è stato girato da regista Stefano Poletti, vincitore come miglior videomaker al Mei del 2010 e autore di video di artisti come Tarm, Zen Circus e Baustelle. Com’è nata la collaborazione tra di voi, cosa vi portate a casa da questa esperienza?
Abbiamo cercato noi Stefano, l’abbiamo contattato e gli abbiamo passato il brano, chiedendogli di realizzarne il videoclip. Fin da subito si è mostrato entusiasta all’idea di lavorare su “Montagne”, e in breve tempo ci ha proposto diversi soggetti sui quali si sarebbe potuto lavorare. Dopo qualche confronto, giusto per capirsi meglio sulla direzione da seguire, abbiamo scelto di girare un videoclip semplice e diretto, volto ad esaltare il più possibile l’impatto sonoro di “Montagne”, attraverso quella che è l’unica componente fondamentale per una band, ovvero l’esecuzione live, e nel nostro caso specifico, così come la viviamo noi ogni volta che saliamo sul palco. Il risultato per noi è più che soddisfacente, Stefano ha compreso senza difficoltà quella che è la nostra natura, ed è riuscito egregiamente a trasmettere l’energia e la potenza non solo di “Montagne”, ma di tutti i brani che ci saranno in Dell’Amore, Della Morte, Della Vita.

Abbiamo detto che Il 2015 vedrà l’uscita del vostro nuovo album Dell’amore, Della Morte, Della Vita. A primo acchito sembrerebbe un titolo da film horror, ma invece cosa dobbiamo aspettarci rispetto al precedente Dal Peggiore dei Tuoi Figli? Volete darci qualche piccola anticipazione e curiosità sul vostro nuovo lavoro in studio?
Credo tu ti riferisca al film Dellamorte Dellamore, ma devo fermarti, e colgo l’occasione per dire che il titolo del nostro disco non ha niente a che vedere con nessuna opera precedentemente pubblicata, il cui titolo possa, per omonimia o similitudini lessicali, ricondurre al titolo che abbiamo scelto per il nostro nuovo lavoro. Dell’Amore, Della Morte, Della Vita semplicemente perché è di questo che parla il disco, ognuno di questi tre concetti è fortemente espresso in ogni brano, nei testi e nella musica; qualsiasi altro titolo non avrebbe mai potuto avere la stessa efficacia nel presentare e descrivere i contenuti di questo disco.

Siete una band che vive di live a attualmente siete in giro con una formula abbastanza inedita del live- anteprima. Com’è nata l’idea di queste anteprime musicali, c’è una particolare strategia dietro o è un modo per rodare voi e il nuovo disco con un pubblico di “fedeli”?
E’ essenzialmente una scelta legata all’esigenza di suonare dal vivo; per nostro conto, una band che non suona dal vivo, non è una band al cento per cento, e senza concerti, il lavoro che fa resta comunque fortemente incompleto e penalizzato. Senza mezzi termini, non ci andava di aspettare di avere il disco pronto e stampato per andare in giro a suonarlo. Non crediamo alla classica pausa pre-pubblicazione disco, perchè bisogna ammetterlo, serve solo a farti affossare; se ti fermi sei finito. Vero poi è che, in queste date-anteprima, abbiamo scoperto altri lati positivi, come ad esempio capire fin da subito che tipo di risposta si ha dalle persone che per la prima volta sentono i brani nuovi, quasi completamente diversi da quelli del disco precedente, senza ovviamente sottovalutare il fatto che si ha la possibilità di prendere veramente confidenza con i brani stessi, in tutte le loro parti, e con il live in sé, in ogni suo momento.

Arriva la parte divertente, vorreste condividere con noi qualche aneddoto particolare sulla lavorazione del nuovo album, come vi approcciate di solito nella composizione dei brani, siete un gruppo litigioso o trovate sempre la giusta armonia ?
Non ci sono stati colpi di scena o eventi particolari degni di nota durante la lavorazione di Dell’Amore, Della Morte, Della Vita; forse avremmo voluto metterci meno tempo, ma col senno di poi, ogni minuto che abbiamo dedicato alla lavorazione del disco è effettivamente servito a raggiungere il risultato che volevamo, e questo è ciò che conta. Non nascondiamo che ci siamo confrontati spesso, alle volte anche in modo abbastanza acceso, ma questo altro non è che la prova di quanto ognuno di noi abbia a cuore questo nuovo lavoro, e di quanto sentiamo sia importante poterlo offrire a più persone possibili.

Vi ringrazio per il vostro tempo e vi lascio con la domanda canonica. Ci sono altri progetti in cantiere oltre al nuovo album? Dove vi troviamo in questo periodo?
Abbiamo una lista di cose da fare prima ancora di pubblicare Dell’Amore, Della Morte, Della Vita: alcune più canoniche, altre un po’ meno. Stiamo pensando ad un eventuale secondo singolo con annesso videoclip, e ad altre iniziative secondarie, ma è ancora tutto in fase di pianificazione, non posso dire altro. Nel frattempo il giro di anteprime-live sta per finire, in programma abbiamo ancora una data il 13 dicembre al Magazzino sul Po, a Torino, e poi ancora il 20 dicembre all’Otto a Biella, vicino a casa. A seguire, dall’anno nuovo, nuove notizie e nuove date a supportare il nuovo disco.

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Il Video della Settimana: Rame – “Ambra”

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Testi in italiano, attitudine Rock e gusto Alternative. I Rame sono un giovanissimo combo torinese già al lavoro  nel 2012 con gli Gnu Quartet (Baustelle, Afterhours, Tiromancino) per la registrazione di alcuni brani nello storico Transeuropa Studio di Torino. Uno di questi inediti, “Kilometri”, viene scelto tra i 40 brani finalisti di Area Sanremo 2013. Il 13 Marzo 2014 esce il loro primo videoclip autoprodotto del brano “Ambra” ed è questa la nostra nuova, sempre spiazzante, scelta di questa settimana. Potete vedere il videoclip di seguito e in homepage fino a sabato prossimo.

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Il Video della Settimana: Rocky Horror – “Lo Spazio che ti Spetta”

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“Lo Spazio che ti Spetta” è il nuovo videoclip e singolo dei pugliesi Rocky Horror. Per l’occasione due ospiti speciali. Pino Scotto e Dj Blast (ex Sona Sle). La clip è diretta da Marcello Saurino, già a lavoro con Assalti Frontali, Lacuna Coil, Baustelle, Negramaro, Emis Killa e tantissimi altri. Il brano anticipa il disco Sciogli il Tempo, in uscita in autunno e che vedrà altre collaborazioni illustri con Los Fastidios, Africa Unite, Folkabbestia e Dj Argento. Potrete vedere il video di seguito e in homepage fino al prossimo sabato.

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ROCKY HORROR: con PINO SCOTTO e Dj Blast esce “Lo Spazio che ti Spetta”

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In radio “Lo Spazio che ti Spetta” il nuovo singolo dei pugliesi ROCKY HORROR. Un brano arricchito dalla collaborazione del grande Dj Blast (ex Sona Sle) e dell’eterno PINO SCOTTO che da oggi è anche in video per la regia di Marcello Saurino, già a lavoro con Assalti Frontali, Lacuna Coil, Baustelle, Negramaro, Emis Killa e tantissimi altri. Ecco la prima grande anticipazione del nuovo attesissimo disco dei ROCKY HORROR dal titolo “Sciogli il Tempo” che vedrà la luce in Autunno per PROTOSOUND Records / CRAMPS Music / EDEL Dischi. Un lavoro ricco di partecipazioni come LOS FASTIDIOS, AFRICA UNITE, FOLKABBESTIA, DJ ARGENTO, solo per fare alcuni nomi. La denuncia e la rivalsa sociale che dal movimento delle Posse italiano prende forma e musica e suoni contaminandosi di Funky, di Punk e di Hardcore. Ecco i caratteri con cui tornano a far parlare di se dopo anni di tour e reduci da un disco che li ha accreditati in tutto il circuito Rock ‘n’ Roll italiano.

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Galleria Margò – Fuori Tutto

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La Galleria Margò nasce dall’incontro fra Antonio “Gno” Sarubbi (voce e testi) ed il chitarrista Stefano Re (chitarra e synth) nell’anno 2012. Alla batteria troviamo Tony Santelia ed al basso Marco Paradisi. Insomma, quattro ragazzi con la voglia di farsi sentire, voglia che verrà chiaramente espressa attraverso l’album di debutto Fuori Tutto (la scelta del titolo non è di certo casuale). Il disco, anticipato di un mese dal singolo “Glitter” su YouTube, esce in versione digitale il 16 aprile 2013, appena due giorni prima dell’uscita della sua versione fisica ed in un solo anno la Galleria Margò riesce ad accumulare un notevole numero di live, spaziando dall’estremo settentrione alla provincia salernitana (Scafati – 29 novembre 2013), dove registra un notevole seguito. Il disco si rivela intrigante sin dal primo sguardo, grazie alla strategica e brillante copertina (ad opera di Davide “Zark” Chiello) che sintetizza in maniera concisa il contenuto dell’album, attraverso la metafora degli occhi che rifioriscono (metafora contenuta, tra l’altro, nella quarta traccia del disco “Dovessi Mai”).

Per quanto riguarda il sound, ci si accorge sin dal primo ascolto che la Galleria Margò non si preclude nulla, sperimentando un mix di suoni che riesce a sintetizzare una musica alla portata di tutti, tuttavia non scontata (generlamente definita Electro Pop), che sembra riportare alla luce il sound anni 90. Tuttavia, troviamo senza dubbio un fattore di attualizzazione che conferisce al disco in generale una chiara vena moderna, realizzata in gran parte dal massiccio utilizzo di musica strumentale e per la restante parte dai testi di “Gno”, che trasudano polemica anticonformista contemporanea in lotta con l’esigenza/imposizione di allacciarsi agli schemi quotidiani (una lotta agli status quo). Polemica che trova la sua massima realizzazione nella traccia numero tre “Cupido se ne Fotte”, in cui si mette alla luce la totale indifferenza del dio dell’amore ai lucchetti degli innamorati,  alle tariffe della Vodafone ed ai multisala che fanno sconti ai giovani amanti. La suddetta polemica, tuttavia, non si realizza attraverso schemi infantili sterili e diretti, bensì attraverso continui giochi di parole, metafore e vocaboli ricercati, che portano inevitabilmente al paragone fra Galleria Margò e Baustelle. Altro inevitabile avvicinamento sorge inerentemente l’ultima traccia, intitolata “Distretto Nove”. Una traccia che tiene con il fiato sospeso; senza dubbio quella di maggiore contenuto artistico-poetico. Amori e pianeti, alieni e costellazioni, sound epici, continue similutidini, rime, riferimenti platonici, che riportano alla mente “La cura” di Franco Battiato. Ispirazione o casualità poetica? In sintesi, posso riassumere così: un disco saturo di satira e sorrisi in controluce, meritevole di un attento ascolto, assolutamente non banale, che, tuttavia, lascia straniti, quasi come se avessimo perso un qualche dettaglio importante per chiudere il puzzle ed incorniciarlo con il giusto parere.

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Medulla – Camera Oscura

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Il secondo disco dei Medulla, band milanese che si autodefinisce Dark Cabaret / Cantautoriale Disturbato, nei primi secondi rischia di farmi una prima impressione bruttina. Il primo brano, “La Bestia”, mi fionda in un mondo di Rock mescolato a tastiere gonfie e batterie energiche come schiaffi, con una voce bassa e lineare che ricorda quella di Francesco Bianconi dei Baustelle. Mi ci vuole un attimo per abituarmi alla costruzione sghemba dei Medulla di Camera Oscura, come quelle deformità architettoniche che sembrano poter crollare al primo alito di vento e invece poi noti che uno schema c’è, uno scheletro forte e resistente, una robustezza che pensavi di aver perso nelle linee storte del disegno generale.  I Medulla stanno in piedi, truccati e cupi nel loro mondo un po’ naif, dove ritmiche a metà tra l’alternativo italiano in salsa Ministri e le mode d’oltremanica sostengono una pasta di chitarre e (soprattutto) synth, pianoforti, con un gusto molto retrò che li fa sembrare fuori dal tempo. Camera Oscura passeggia ignaro sul filo di lama, tra attimi gustosi e interessanti (il ritornello di “La Bestia”, qualcosa in “La Polvere” che ha un riff che ricorda quello de “La Fine di Gaia” di Caparezza, la tranquillità iniziale di “La Tenebra”) e momenti di imbarazzo incosciente (ad esempio, i parlati, vedi proprio in “La Tenebra” o alcuni suoni che, nel migliore dei casi, paiono vecchi e stantii e fuori luogo come il riff iniziale  de “Il Coniglio”), probabilmente causati da un posizionamento a livello di mood che si basa più sul desiderio che sulla sostanza: per fare Dark Cabaret, ossia, per creare un lato teatrale e, in senso lato, atmosferico, che sia credibile, bisogna averne la capacità, e qui siamo alla sufficienza scarsa, niente di più. Magari è nel live che questo profilo riesce a farsi notare maggiormente (anzi, sono sicuro che sia così), ma qui stiamo parlando di un disco, e in Camera Oscura i momenti che si appoggiano su questo lato, purtroppo, sono momenti di piattezza, in un lavoro che comunque tenta di essere denso ed emotivamente intenso (alcuni passaggi de “La Notte”, ad esempio, possono tranquillamente immaginarsi sul palco di quel festival annuale che si tiene in Liguria, il che non è per forza un male). Anche sui testi si potrebbe lavorare di più: per fare qualcosa che si possa assimilare al cantautorato non basta fare dei testi intelligibili (questo è scrivere canzoni, lo fanno tutti). Se davvero si vuole scomodare la già di per sé scomoda e indefinita definizione di cantautorato, la ricerca (sia nella forma che nel contenuto) deve approfondirsi, e qui siamo senza dubbio sommersi, sì, ma vicini alla superficie.

Riassumendo, un disco prodotto bene, suonato altrettanto bene, che nel complesso sta in piedi e che a tratti sa anche essere convincente, ma che poi scade in mille piccoli particolari che sembrano improvvisati, o che vengono preparati con cura in teoria ma traditi dalla pratica. Con più focus e una scrittura più congeniale ai veri punti di forza della band (la voce calda, quando canta, le ritmiche piene, il pianoforte) poteva uscire un disco da gustarsi dall’inizio alla fine. Con Camera Oscura, così concepito, facciamo più fatica.

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Non Voglio che Clara – L’Amore Fin che Dura

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Tornano i Non Voglio che Clara e lo fanno con questo L’Amore Fin che Dura, disco denso ma allo stesso tempo rarefatto, in cui risplende la nostalgia per la canzone italiana di una volta, tutta pianoforte, archi, atmosfere plumbee e piovose, rigagnoli di synth, e occasionali comparsate di fiati a inserirsi nell’insieme. L’Amore Fin che Dura è un disco principalmente fatto di parole e atmosfere. Il lato musicale non spicca, se non nella misura in cui dà spazio alle parole, e si incurva e si scansa per accompagnarle emotivamente. E qui sta poi il merito dei Non Voglio che Clara: quello di scrivere dei testi veramente belli, giocati sul suggerimento di emozioni e sentimenti che vengono raramente poi messi in mostra: una poetica dell’ellisse, dello spiazzare, con parole che ci accompagnano sulla strada per poi abbandonarci là sul ciglio senza veramente raggiungere la meta. È il caso di “Il Complotto” (che ricorda qualcosa di Dente), ad esempio, dove le ansie e le paranoie sentimentali del protagonista sono suggerite da una serie di indizi, per poi farci distogliere lo sguardo mentre lui beve “una birra da finire in tutta fretta”. O “La Sera”, altro esempio – e ce ne sono molti, nel disco, una vera vena narrativa – di racconto di un’ansia sentimentale, di paure e paranoie e sfiducia, che culminano con la fuga (ma si può veramente scappare? “Immagina una specie di vacanza sdraiata sulla sabbia di una spiaggia a pochi metri dalle onde e soffia un vento freddo e il sole scende”). Il tutto è raccontato per immagini solitarie, sprazzi di memorie, un racconto “a pezzi” che va ricomposto, e nelle mancanze riempito di emozione, che nei testi – e nel cantato – spesso manca: ciò ci costringe ad elaborare, a sopperire ai vuoti, e ci muove – e commuove – nella ricerca di un senso, di una soluzione, di un finale, felice o infelice che sia.

Ci sono tanti temi che si sfiorano, in L’Amore Fin che Dura, e forse a suggerirci un filo conduttore può essere proprio il titolo: sono storie di fallimenti, di resistenza che non resiste, di abbandono, sfiducia, perdita. Non è un disco allegro, e non sono allegri i Non Voglio che Clara, ma d’altronde l’allegria è sopravvalutata e per quella c’è tanto altro. L’Amore Fin che Dura parla di vigliaccheria (“L’Escamotage”), di speranze forse insensate (“Le Mogli”), di malattia (“Lo Zio”), di uomini e donne impreparati ad affrontare la vita e l’amore (“Le Anitre”). E in tutto questo c’è lo spiraglio de “I Condomini”, dove tutto questo viene rimpicciolito e riproporzionato alle sventure qualsiasi di una ragazza qualsiasi: “Poi le ossessioni svaniscono nel nulla se mi parli di una dieta o dei difetti di uno smalto, con le unghie, con i denti mi attacco ai tuoi di fallimenti e scopro di non esser così stanco”. I Non Voglio che Clara mettono in piedi un bel disco, di parole sussurrate, di mal di pancia e mal di testa assortiti, popolato di personaggi che non sanno bene come comportarsi, non sanno bene dove andare o perché andarci. Il tutto immerso in musiche piano-driven, che ci riportano a certi anni 60 nostrani, dalle parti di un Battisti dei meno conosciuti, e che ci ricordano (l’abbiamo già detto) qualche volta un Dente e, ancora più spesso, i Baustelle. Musiche costruite sulla sospensione, la levità, o ancora la pesantezza di un’atmosfera temporalesca e cupa, ma di certo senza il guizzo personale di musiche che abbiano sempre un’identità propria: se cerchiamo quella, la andremo a trovare nelle parole, nelle storie, delle quali la musica apre la processione, a spargere incenso come nebbia fonda prima che esse avanzino nella loro scomoda, storpia, inadeguata bellezza.

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Bologna Violenta – Uno Bianca

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Con l’uscita, nel 2012, di Utopie e Piccole Soddisfazioni, Nicola Manzan, in arte Bologna Violenta, ha fissato per sempre i paletti della sua espressione stilistica, permettendoci di distinguerlo al primo ascolto, anche in assenza quasi totale della voce, sua o di chi altri. Con quel terzo disco, il polistrumentista già collaboratore di Teatro Degli Orrori, Non Voglio Che Clara, Baustelle, sembrava gridare all’Italia la sua ingombrante presenza, divenendo poi uno dei punti fermi (grazie anche alla sua etichetta, Dischi Bervisti) di tutta la scena (ultra) alternativa che non si nasconde ma si offre in pasto a ogni sorta di ascoltatore, dai più incalliti cantautorofili, fino agli inguaribili metallari. Nicola Manzan non colloca alcuna transenna tra la sua arte e i possibili beneficiari e allo stesso modo non pone freno alla sua creatività, fosse anche spinto dal solo gusto per il gioco e l’esperimento divertente magari senza pensare troppo al valore per la cultura musicale propriamente detta. Arriva perfino a costruire una specie di storia della musica, riletta attraverso quaranta brani che sono rispettivamente somma di tutti i pezzi composti da quaranta differenti musicisti. Dagli Abba ad Alice in Chains passando per Art of Noise, Barry White, Bathory, Bee Gees, Black Flag, Black Sabbath, Bob Marley, Boston, Carcass, Charles Bronson, Dead Kennedys, Death, Donna Summer, Eagles, Faith No More, Genesis, Jefferson Airplane, Kansas, Kyuss, Led Zeppelin, Michael Jackson, Negazione, Nirvana, Os Mutantes, Pantera, Pink Floyd, Queen, Ramones, Siouxsie and the Banshees, T. Rex, The Beatles, The Clash, The Doors, The Police, The Velvet Underground, The Who, Thin Lizzy e Whitney Houston. Ogni traccia è il suono di tutti i frammenti che compongono la cronaca musicale di quell’artista. Poco più di una divertente sperimentazione che però racconta bene il soggetto che c’è dietro.

Dopo questo esperimento sonico per Bologna Violenta è giunta finalmente l’ora di far capire a tutti che non è il caso di scherzare troppo con la sua musica e quindi ecco edito per Woodworm, Wallace Records e Dischi Bervisti ovviamente, il suo quarto lavoro, Uno Bianca.  Se già nelle prime cose, Manzan ci aveva aperto le porte della esclusiva visione cinematografica delle sue note caricando l’opera di storicità, grazie a liriche minimali, ambientazioni e grafiche ad hoc, con quest’album si palesa ancora più la valenza fortemente storico/evocativa della sua musica, in contrapposizione ai cliché del genere Grind che lo vedono stile violento e aggressivo anche se concretamente legato a temi pertinenti politica e società. La grandezza di Uno Bianca sta proprio nella sua attitudine a evocare un periodo storico e le vicende drammatiche che l’hanno caratterizzato, attraverso uno stile che non appartiene realmente all’Italia “televisiva” di fine Ottanta e inizio Novanta. Il quarto album di Manzan è proprio un concept sulle vicende della famigerata banda emiliana guidata dai fratelli Roberto e Fabio Savi in attività tra 1987 e 1994, che ha lasciato in eredità ventiquattro morti, centinaia di feriti e strascichi polemici sul possibile coinvolgimento dei servizi segreti nelle operazioni criminali. Un concept che vuole commemorare e omaggiare la città di Bologna attraverso il racconto di una delle sue pagine più oscure, inquietante sia perché i membri erano appartenenti alla polizia e sia perché proferisce di una ferocia inaudita. Il disco ha una struttura categorica che non lascia spazio a possibili errori interpretativi e suggerisce la lettura già con i titoli dei brani i quali riportano fedelmente data e luogo dei vari accadimenti. Per tale motivo, il modo migliore di centellinare questo lavoro è non solo di rivivere con la memoria quei giorni ma di sviscerare a fondo le sue straordinarie sfaccettature, magari ripassando con cura le pagine dei quotidiani nei giorni prossimi a quelli individuati dalla tracklist, perché ogni momento del disco aumenterà o diminuirà d’intensità e avrà un’enigmaticità più o meno marcata secondo il lasso di tempo narrato o altrimenti attraverso la guida all’ascolto contenuta nel libretto.

Sotto l’aspetto musicale, Manzan non concede nessuna voluminosa novità, salvo mollare definitivamente ogni legame con la forma canzone che nel precedente lavoro era ancora udibile in minima parte ad esempio nella cover dei Cccp; i brani sono ridotti all’osso e vanno dai ventuno secondi fino al minuto e trentuno, con soli due casi in cui si toccano gli oltre quattro minuti. Il primo è “4 gennaio 1991 – Bologna: attacco pattuglia Carabinieri” che racconta l’episodio più feroce e drammatico di tutta la storia dell’ organizzazione criminale; la vicenda delle vittime, tre carabinieri, del quartiere Pilastro. La banda era diretta a San Lazzaro di Savena per rubare un’auto. In via Casini, la loro macchina fu sorpassata dalla pattuglia e i banditi pensarono che stessero prendendo il loro numero di targa. Li affiancarono e aprirono il fuoco. Alla fine tutti e tre i carabinieri furono trucidati e finiti con un colpo alla nuca. L’assassinio fu rivendicato dal gruppo terroristico “Falange Armata” e nonostante l’attestata inattendibilità della cosa, per circa quattro anni non ci furono responsabili. Il secondo brano che supera i quattro minuti è “29 marzo 1998 – Rimini: suicidio Giuliano Savi”, certamente il più profondo, il più tragico, il più emotivamente violento, nel quale è abbandonata la musica Grind per una Neoclassica più adatta a rendere l’idea di una fine disperata, remissiva e da brividi. L’episodio che chiude l’opera è, infatti, il suicidio del padre dei fratelli Savi, avvenuto dentro una Uno Bianca, grazie a forti dosi di tranquillanti e lasciando numerose righe confuse e struggenti.

Come ormai abitudine di Manzan, alla parte musicale Grind si aggiunge quella orchestrale e a questa diversi inserti sonori (a metà di “18 agosto 1991 – San Mauro a Mare (Fc): agguato auto senegalesi” sembra di ascoltare l’inizio di “You’ve Got the Love” di Frankie Knuckles ma io non sono l’uomo gatto) che possono essere campane funebri, esplosioni, stralci radiotelevisivi, rumori di sottofondo, e quant’altro. Tutto serve a Bologna Violenta per ricreare artificialmente quel clima di tensione che si respirava nell’aria, quella paura di una inafferrabile violenza. Ora che ho più volte ascoltato i trentuno minuti di Uno Bianca, ora che ho riletto alcune pagine rosso sangue di quei giorni, comincio anche a ricordare meglio. Avevo circa dieci anni quando cominciai ad avere percezione della banda della Uno bianca e ricordo nitidamente nascere in me una paura che mai avevo avuto fino a quel momento. Il terrore che potesse succedere proprio a me, anche a me, inquietudine di non essere immortale, ansia di poter incontrare qualcuno che, invece di difendermi giacché poliziotto, senza pensarci troppo, avrebbe potuto uccidere me e la mia famiglia non perché folle ma perché uccidermi sarebbe servito loro a raggiungere lo scopo con più efficacia e minor tempo. Ricordo che in quei tempi, anche solo andare in autostrada per raggiungere il mare era un’esperienza terrificante, perché l’autostrada è dove tutto cominciò. “19 giugno 1987 – Pesaro: rapina casello A-14”, qui tutto ha inizio; una delle storie più scioccanti d’Italia e uno degli album più lancinanti che ascolteremo quest’anno.

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Virginiana Miller

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Lo scorso 17 settembre è uscito per Ala Bianca/Warner il sesto album in studio dei livornesi Virginiana Miller, Venga il Regno. La band ha un curriculum di tutto rispetto: dal 1990 ad oggi hanno ricevuto premi e riconoscimenti, lavorato con personaggi illustri del panorama musicale nostrano come Vittorio Nocenzi del Banco del Mutuo Soccorso, Giorgio Canali, Francesco Bianconi e Rachele Bastreghi dei Baustelle, sperimentato nuove collaborazioni come nel caso della sonorizzazione dei reading letterari dello scrittore Giampaolo Simi e, in ultimo, hanno curato la realizzazione del brano “Tutti i Santi Giorni” per l’omonimo film di Paolo Virzì, che è valso alla band il David di Donatello per la Migliore Canzone Originale. I Virginiana Miller sono al momento impegnati, per la presentazione del disco, nel tour che questa sera farà tappa a Milano, al Biko, con i bresciani Claudia is on the Sofa. Ho avuto piacere di parlare con Daniele Catalucci, bassista dei Virginiana Miller, per scoprire un po’ meglio cosa sia Venga il Regno e in quale direzione stiano andando.

Partiamo subito con una domanda un po’ stronza. In più di vent’anni di carriera avrete avuto modo di conoscere e incontrare parecchi gruppi nostrani. Qual è la band che avrebbe meritato più attenzione da parte del pubblico e della critica, ma non è riuscita ad emergere e quale quella che ha invece avuto un successo secondo voi immeritato?
Abbiamo sicuramente parlato un milione di volte tra noi di band che avrebbero potuto raggiungere risultati più alti ma per un motivo o per l’altro non ci sono riuscite.. Fammi pensare.. Credo che fra tutti i Northpole siano quelli che avrebbero meritato un po’ di più e credo che gli altri della band sarebbero d’accordo con me. Per quanto riguarda una formazione sopravvalutata, do un parere personale: mi sono sempre domandato come mai gli Afterhours sono diventati un caso così eclatante. C’è sicuramente qualcosa di interessante in loro, ma, lo dico con tutta la bontà possibile, mi chiedo se avrebbero avuto lo stesso successo se fossero arrivati da un’altra realtà, anche geografica, o se invece non sarebbe stato molto diverso.

Veniamo al disco. Venga il Regno è una profetica annunciazione o una rassegnazione a uno stato di cose? E questo regno com’è?
Questo è un terreno in cui Simone (Lenzi, frontman e autore dei testi della band, ndr) saprebbe rispondere meglio. Posso dirti a cosa corrisponde secondo me questo regno sul piano musicale, perché abbiamo avuto molto tempo dall’album precedente per occuparci di questo, anche perché Simone era impegnato in altro. Quando ci siamo rincontrati siamo andati dritti al punto, facendo emergere tutta la conoscenza che abbiamo tra noi da anni ed evitando tutte le fasi centrali che di solito ci caratterizzavano. Sai: quelle in cui tendono ad emergere le personalità individuali e che portano anche a scontri e scambi di opinioni. Per Venga il Regno, invece, in venti giorni i brani erano pronti, passati da embrione a canzoni fatte e finite, con una struttura musicale, gli arrangiamenti e il testo. Simone parla di regno intendendo una Apocalisse che è già in atto, un cambiamento, una rinascita. Contestualizzato in ciò che stiamo vivendo tra noi, mi è sembrato calzante: da una fase di stallo a questa nuova creazione.

Com’è stato lavorare con Ale Bavo e Ivan Rossi per la realizzazione di Venga il Regno?
Il loro apporto è il 60% del disco. Ci tengo davvero a sottolineare l’importanza dei loro ruoli, perché sono stati eccezionali. Sono due che hanno capito esattamente dove volevamo andare noi e ci hanno aiutato a tirarlo fuori e, pur essendo oltretutto anche molto diversi tra loro, perché per certe cose sono uno l’opposto dell’altro, hanno messo nel disco cose che continuano a piacermi nonostante lo ascolti praticamente sempre da sei mesi.

Repubblica ha definito Venga il Regno il disco più militante della vostra carriera. La definizione vi piace? E se sì, quali sono i principi della vostra militanza?
È vero. Perché senza rendercene conto e senza aver stabilito delle guide, tra i testi e la musica l’ambientazione politica è più netta rispetto ad altri album e altri brani. Anche l’arrangiamento è più efficace, più giovanile forse, e questo aspetto gli ha dato una certa ruvidità, che ha aiutato ad affrontare tematiche anni 70 in una chiave musicale che anni 70 non è.

La collaborazione con Paolo Virzì ha portato grandi risultati. Qual è il vostro rapporto con il cinema? Cioè: quanta narrazione cinematografica c’è nella costruzione dei pezzi?
La figura di Paolo è stata uno stimolo perché è una celebrità con cui alla fine siamo stati sempre in contatto ed esserci ritrovati a collaborare e soprattutto a soddisfare una sua richiesta è stata una bella soddisfazione. Ha avuto una grande importanza non tanto sul piano musicale puro, quanto perché è stata l’occasione per concentrarci su un aspetto compositivo che abbiamo innato ma che non sempre sfruttiamo consapevolmente. Noi lavoriamo tanto sui timbri e sulle sonorità e ci capita spesso, senza ancora avere un testo, di sentire un nostro brano e dire “Questo è molto cinematografico”. Ci è sembrato quindi di essere calzanti per il compito. E credo anche che l’esperienza abbia cambiato qualcosa anche nel modo di scrivere di Simone, che è sempre stato una bella penna, tanto che lo chiamiamo “Il pavone”, ma che si è semplificato senza rendersi banale: questo l’ha resto più arrivabile anche da parte di un pubblico più ampio. Va subito dritto al punto, non come in brani dei dischi vecchi che a volte mi ricapita di ascoltare e penso “Ammazza quanto è ostico”, tanto nel testo quanto nella musica. Ormai, senza falsa modestia, credo abbiamo raggiunto una certa maturazione.

Spotify, Musicraiser, i Social Network.. Qual è il vostro rapporto con i nuovi media per la promozione?
Non sono un esperto, ma ho capito come funziona Musicraiser e ho visto esempi pratici di persone che lo sfruttano per avere una visibilità che non hanno e di persone che lo impiegano per avere una visibilità che avevano un tempo ma che non hanno più. Questi ultimi mi fanno abbastanza tenerezza, perché se, per esempio, sei stato famoso ma devi organizzare una raccolta fondi per partire con un tour, forse avresti prima dovuto chiederti se quel tour interessa davvero. Altrimenti è come scrivere una letterina a Babbo Natale con la lista dei regali. Per gli artisti emergenti, invece, credo sia una buona cosa, una possibilità in più. I Social Network sono un passatempo e un bel mezzo di pubblicità. Se penso a com’era la situazione quindici anni fa, quando la band aveva a disposizione il suo solo sito internet e raggiungeva solo un pubblico limitato, oggi c’è molto più contatto diretto con le persone. Chi è in grado di utilizzare questi mezzi ne ha senza dubbio un bel rientro in termini di visibilità. Alla fine è un’abilità anche questa.

Stasera suonerete a Milano. Dopo tanti anni di carriera com’è il rapporto coi vostri fan? Cosa si aspettano da voi e voi da loro? Qualcosa è cambiato?
Nel live siamo cambiati sicuramente più noi che il pubblico. Nel 2000, quando sono entrato nella band, avevamo un atteggiamento che definirei più spirituale, silenzioso e concentrato e, forse, sul piano sonoro sentivo un po’ meno energia. Ma con il tour promozionale di Fuochi Fatui d’Artificio le cose sono cambiate. Nel disco usavamo una drum machine, quindi ci siamo sforzati nel live di creare quell’energia che nel disco c’era ed era contenuta nell’artificio. Negli ultimi dieci anni direi che siamo diventati più energici. Forse il pubblico si aspettava questa cosa da sempre al di là del fatto che venga a vedere un nostro concerto perché è già un fan e già ci conosce.

Per la presentazione del disco sono previsti anche set acustici. Si tratta di una necessità dettata dalla mancanza di location adatte all’elettrico o anche di una scelta stilistica?
Un po’ entrambe le cose. Vai in posti dove non è possibile suonare tutti insieme o in elettrico. Non sarebbe neanche bello. La dimensione della band tutta insieme è il palco. Nelle presentazioni in libreria, per esempio, ti adatti, e diventa un modo per sperimentare anche altro, presentare i brani nudi e lasciare anche la curiosità di venire a sentire un nostro concerto per scoprire come sono realmente.

Rockambula sta preparando la tradizionale classifica di fine anno. Ci saluteresti con la tua personale classifica?
Sarò sincero, durante quest’anno ho passato sei mesi in studio e mi sono davvero concentrato poco sulle nuove uscite, anche internazionali. Randon Access Memory dei Daft Punk, però mi ha colpito e sicuramente e ampiamente “Get Lucky” è miglior singolo dell’anno. Mi ha anche molto colpito Black City di Matthew Dear, un disco tutto fatto di sola voce elettronica e basso. L’ho scoperto quest’anno ma è più vecchio. Molto particolare, comunque, una bella novità per me.

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